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LEZIONE X.

Le traduzioni e la letteratura critica, grammaticale e accademica.

Traduzioni poetiche il Caro. II. Traduzioni in prosa

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III. Letteratura critica. IV. Letteratura grammaticale. accademica.

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I.

Abbiamo detto più sopra che il cinquecento fu un colo critico in sommo grado; ora non a caso prendiamo a gionare delle traduzioni in questa lezione, che tratta anche 'frutti, quali che siano, portati da quell'accennata tendenza. é la critica e il tradurre hanno fra loro più attinenza di el che a prima giunta non paia, e procedono in parte da fini attitudini dell'intelletto umano. L'uno e l'altra intanto no un ricreare l'opera d'arte; se non che il critico se la crea nella propria mente e, scomponendola, ne mostra poi le rti, gli accorgimenti dell'arte, le finezze e le bellezze riposte; ddove il traduttore, scomposta che l'abbia dentro di sé e ben alizzata e compresa, la ricompone, e, a cosi dire, la ricrea, ppresentandola nella nuova forma che gli vuol dare. Questo à detto in generale e sia inteso con la debita discrezione; enendo poi al caso particolare, a più giusta ragione ne sembra ter mettere qui insieme versioni ed opere critiche e filogiche, perché le due migliori traduzioni del cinquecento anno avuto per primo movente una questione filologica o

un principio critico. E valga il vero: Annibal Caro (1507-1566), principe de' traduttori d'allora, s'era messo in già matura età a voltare in italiano l'Eneide come per ischerzo e per esperimentare le forze, se gli bastavano a condurre un poema originale. Poi, trovatosi aver cominciato e non sentendosi più la lena per un poema proprio, per suo diletto e ad istigazione degli amici condusse a termine la sua versione, non ispendendovi attorno, in tutto, più che due anni. E la compié, dice egli stesso in una lettera scritta da Frascati addi 14 di settembre del 1565, per far conoscere la ricchezza e la capacità di nostra lingua contra l'opinione di quelli che asseriscono che non può aver poema eroico, né arti, né voci da esplicar concetti poetici; che non sono pochi che lo credono.

L'Eneide del Caro è senza forse un capolavoro per lo stile e per la perfetta struttura del verso sciolto. Vissuto in un secolo ch'ebbe squisitissimo il sentimento dell'arte, intelligente anch'egli di cose d'arte e conoscitore profondo d'ogni più riposta bellezza e d'ogni più segreto meccanismo e d'ogni peculiarità della lingua, fece una traduzione che, quanto all'esteriore, è veramente meravigliosa. Ma quel secolo era anche indifferente e scettico, rotto ai vizi e chiuso ai miti affetti alle ardenti passioni. Il Caro era a sua volta un vero uomo del suo tempo, e però rotto all'adulazione e ben esperto dell'arte del servire e del chiedere e, sotto la vernice d'una cortigiana urbanità, covava un animo pieno spesse volte di cupidigie e corrucci. Un tal uomo, in tal secolo, non sembrava atto a trasferire nel proprio intelletto, e però nell'opera propria, tutta la spirituale e delicata bellezza interiore dell'epopea virgiliana. Questa è tutta calda di sentimento; ma vita di sentimento non c'è nella traduzione, la quale con felicissima e quasi plastica frase fu chiamata la bella infedele. Nonostante tale non piccolo difetto, questa del Caro è di gran lunga la

miglior versione poetica del cinquecento. Dopo di lui vuol essere menzionato Giovanni Andrea dell'Anguillara, che parafrasò in ottave le Metamorfosi d'Ovidio, lodato per i pregi della lingua, per la freschezza di colorito onde sono rese le immagini, per le rime facili e il verso spigliato e abbondante. Però, anche attenuandone spesse volte i difetti, ha troppo contraffatto il suo autore; onde sembra eccessivamente benevolo il giudizio del Varchi, che gli dette lode niente meno che d'aver dato agli Italiani un Ovidio migliore di quello dei Latini. Il Caro e l'Anguillara sono i soli che per le loro traduzioni poetiche abbian conservata vera riputazione presso i posteri. Le storie erudite registrano una moltitudine di altri traduttori da Virgilio, da Ovidio, da Lucano, da Omero e dai tragici greci, ma nessuna di quelle opere s'è salvata dall'oblio. Perciò noi ci contenteremo di accennare al Valvasone che tradusse in ottave la Tebaide di Stazio; al Dolce che, fra l'altro, tradusse le tragedie attribuite a Seneca; a Bernardino Daniello che volgarizzò la Georgica; a Niccolò Franco traduttore dell'Odissea.

II.

Fra i traduttori in prosa troviamo ancora Annibal Caro per la sua elegantissima versione degli amori di Dafni e Cloe, romanzetto pastorale di Longo Sofista (1); poi il Firenzuola, leggiadrissimo rifacitore dell'Asino d'oro d'Apuleio (2); Marcello Adriani il giovine, volgarizzatore delle Vite e degli Opuscoli morali di Plutarco; Bernardo Segni che voltò in Italiano alcune operette d' Aristotile. Questi dal greco. Dal latino il Nardi tradusse le Deche di Tito Livio, il Domenichi le lettere di Plinio, Paolo del Rosso le Vite di Svetonio, il

(1) Con l'Apologia del Caro stesso forma un volume della Biblioteca class. econ. Sonzogno.

(2) È anch'esso in un volume della Bibl. class. econ. Sonzogno.

FINZI, Lezioni di storia della letteratura italiana. V. II, 3a ediz.

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Machiavelli l'Andria di Terenzio e, maggiore di tutti, Bernardo Davanzati, nobil mercante fiorentino, le opere di Tacito (1). Già prima un Giorgio Dati aveva tradotto Tacito in italiano; ora avvenne che un dotto francese, Errico Stefano, confrontando quella versione del Dati con una francese di Biagio da Vigenève, trovò che, per tradurre un dato squarcio, l'italiano aveva avuto bisogno di nove parole di più di quelle adoperate dal francese, e ne trasse la conseguenza che la lingua italiana era men breve della francese. Allora il Davanzati s'accinse anch'egli ad una traduzione di Tacito, col proposito deliberato di confutare col fatto l'asserzione dello Stefano (2). L'opera fu generalmente tenuta un capolavoro per purità ed efficacia di lingua e per vigorosa stringatezza di stile. Se non che, tutto inteso a far risparmio di parole, il Davanzati non badò sempre a rendere, ne' suoi atteggiamenti e nelle sue sfumature, il pensiero dell'autore latino; la cui efficacia e robustezza son tutte interiori, e dall'intimo concetto si comunicano alla espressione, la quale insieme con esso concetto acquista vita e si determina nella mente dell'autore. La è dunque una stringatezza, a cosí dire, organica; la quale trova un grande aiuto nell'indole della lingua latina, che tutti sanno assai più sintetica della nostra. Ora il Davanzati ha dato al suo stile una brevità esteriore, che non rende sempre il pensiero di Tacito, tanto complesso e condensato com'è, contentandosi di gareggiare

(1) Anche questa traduzione fa parte della citata Collezione Sonzogno. (2) << Per chiarire col fatto la brevità, ho messo la lingua fiorentina a « correre a pruova con la latina e con la francese, nel dono della brevità in questo aringo del primo libro di Cornelio Tacito, ch'io vi mando; e < con tutti i disavvantaggi degli articoli e vicecasi e vicetempi che ci « convengono replicare a ogni poco, trovo piú scrittura nel latino da otto per centinaio, e nel francese stampato in Parigi nel 1584, oltre sessanta ». Cosí scriveva il Davanzati a Baccio Valori.

con esso lui quanto al numero delle parole. Cosi contro lo Stefano ha vinto la partita, ma contro Tacito non si può affermare che l'abbia guadagnata in ogni parte. Egli ha bensi il merito d'aver attiuto alle vive sorgenti della lingua popolare in un secolo che pareva servire ad un certo suo tipo di lingua fattizia, tratta tutta quanta dalle scritture. Ma non riusci perfettamente neanche in questo; giacché scese troppo in basso, adoperando spesso parole e frasi di uso troppo volgare o speciale. D'altro lato, per la ferrea necessità d'esser breve, tolse dagli antichi moltissime espressioni viete, e non si peritò di adoperar certe forme composte, che gli dànno un fare molto sforzato e pedantesco. Questi sono i veri difetti della famosa traduzione del Davanzati, del quale si esagerarono i pregi a tal segno che fu chiamato un emulo fortunato di Tacito. Tanta lode non si può dargliela di certo; è tuttavia da affermare che egli ha molte pagine di un'efficacia ed evidenza mirabile.

III. La critica dell'arte diede molte opere di varia importanza, tra cui ricorderemo le Librerie e i Marmi del Doni (1), i Cataloghi d'Ortensio Landi (2), primi tentativi di storia letteraria, e i discorsi del Pigna e del Giraldi (3) sul Romanzo, e quelli del Tasso sul poema eroico. Non è dell'indole di questo libro parlare delle teorie, che si discutono o sostengono in quelle opere. A noi basti osservare che quella critica non poteva essere perfetta, perché le faceva difetto il buon metodo, ed era volta a sostenere speciali teoriche, e poggiata sull'autorità e sui preconcetti, anziché confortata da un largo intendimento dell'arte e da un giudizio imparziale e sicuro.

(1) Furon pubblicati dal Barbéra.

(2) Cfr. lo studio sul Landi di IRENEO SANESI.

(3) Pubblicati in un volume della Biblioteca rara del Daelli.

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