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Ed anche quando quei critici in teoria vedevano giusto, nella pratica poi venivan meno alle loro dottrine, tanta era la forza con cui le tendenze e le abitudini del secolo li trascina vano. Valga per tutti quest'esempio: « La magnificenza degenera agevolmente in gonfiezza. Per non incorrere nel << vizio del gonfio, schivi il magnifico dicitore le minute diligenze, come di fare che membro a membro corrisponda, << verbo a verbo, nome a nome; e non solo in quanto al nu<< mero, ma in quanto al senso. Schivi le antitesi, come: tu << veloce fanciullo, io vecchio tardo. Ché tutte queste figure, << ove si scopre l'affettazione, sono proprie della mediocrità; e << siccome molto dilettano, nulla muovono. La magnificenza dello << stile nasce dalle stesse cagioni dalle quali, usate fuor di tempo, << nasce la gonfiezza, vizio si prossimo alla magnificenza ».

Or chi direbbe che cotesti precetti dava il Tasso prima di scrivere la Gerusalemme, il Tasso che fece appunto l'opposto? Vuol però giustizia che fra i critici del cinquecento si dia luogo onorevole a Lodovico Castelvetro, modenese (1503-1571), chiosatore di Dante, commentatore del Petrarca, uomo di agile ingegno e di grande dottrina, perseguitato dalla Curia romana e dagli scrittori salariati dello stampo del Caro, perché incline alle idee della riforma. La sua critica è acuta; se non che a volte, per soverchio di sottigliezza, cade in quisquilie ed in sofismi. L'opera che più gli dette riputazione è la traduzione e il commento dell'arte poetica d'Aristotile; ma oggidí si può dire che la sua fama è raccomandata, più che altro, alle diatribe velenose ch'egli ebbe con Annibal Caro.

IV. Di costa alla teorica dell'arte si trattò la teorica della lingua. Se non la prima, certo la più importante delle opere di questo genere furono le già ricordate Prose del Bembo sopra la Volgar lingua, intese, come a suo luogo s'è

veduto, a lodar l'uso del volgare, mostrandone la virtù e l'eccellenza, nonché l'ottima prova ch'esso aveva fatto sotto le mani de' grandi che già l'avevano adoperato. S'è detto « la più importante per il valore intrinseco, non per l'effetto che ne procedette. Chẻ un anno avanti, Gian Giorgio Trissino, novatore impenitente, avea pubblicato un'opera che destò ben altra commozione nel mondo letterario. Quest'opera era la famosa sua tragedia, Sofonisba, stampata con parecchie innovazioni ortografiche che, in fondo, non erano del tutto contro ragione. Posto che nella nostra lingua l'o e l'e hanno suono quando aperto e quando chiuso, e la l'ha a volte dolce ed a volte. aspro, egli proponeva che questi diversi suoni venissero contraddistinti da segni speciali, ricorrendo per tal bisogna all'alfabeto greco. L'w doveva prendere il posto dell'ò aperto, l'ɛ quello dell'è pure aperto, e la Z quello della z dolce, rimanendo alle nostre e, o, z, il valore di e ed o strette e z aspra (1). Il Trissino sostenne questa sua riforma, non priva in tutto

(1) Anche del suo poema fu fatta un' edizione con coteste innovazioni alfabetiche. La Italia liberata dai Gotthi del TRISSINO, stampata in Roma per Valerio e Luigi Dorici, MDCXLII. Eccone il cominciamento:

DIVINS Apollo, e vwi celesti Muse,
Ch'avete in guardia i glwriwsi fatti,
E i bei pensier de le terrene menti,
Piacciavi di cantar per la mia lingua,
Cume quel giustw, ch'wrdinò le leggi,
Tolse all'Italia il grave et asprw giwgw
De li empi Gotthi, che l'avean tenuta
In dura servitú pressw a cent'anni:
Per la cui libertà fu mwlta guerra,
Multw sangue si sparse e mwlta gente
Passò nanz' il suw dí ne l'altra vita,
Cume permesse la divina altezza.
Ma dite la cagiwn, che 'l mosse prima
A far sí bella e glwriwsa impresa.

di opportunità in un'epistola intorno alle lettere nuovamente aggiunte alla lingua italiana, indirizzata a Clemente VII, e stampata parimente nel 1524 (1). Se ne levò uno scandalo: tutti, e specialmente e più accanitamente i Toscani, gli si avventarono contro con ogni maniera d'invettive e di contumelie; e anche l'argutissimo Firenzuola tirò giù un' epistola dileggiatrice, ma sconclusionata, intorno al discacciamento delle nuove lettere nuovamente aggiunte alla lingua toscana. Toscana? Altri avversari del Trissino, come il Martelli, rispondendo alla sua epistola, scrissero senz'altro fiorentina; ma il Trissino aveva scritto ITALIANA, inde irae. Non erano soltanto le nuove lettere che si volevano combattere, ma specialmente l'italianità della favella; e cosi nacque la famosa controversia della lingua, che tenne in fermento tutti i letterati del secolo, e nella quale immiserirono anche i migliori ingegni, sostenendo i pochi che doveva dirsi italiana, i più o toscana o fiorentina o, fin'anco, sanese.

Il Trissino ebbe un bell'arrovellarsi a rispondere a' suoi contradditori, pubblicando nel 1529 il dialogo del Castellano, in cui s'ingegna di spiegare e ravvalorare la sua tesi, e dando anche fuori una sua traduzione anonima dell'operetta dantesca De vulgari eloquentia, dove si sostiene che il volgare cardinale, aulico, illustre e cortigiano è di tutte le città d'Italia, e pare non sia di niuna. Come l'abbiam visto sfortunato ne' suoi tentativi d'arte, cosi fu tale nella critica filologica. Tra che non fu voluto in niun modo approvare dalla massima parte di quelli che allora erano o si tenevano i sopracciò nelle cose letterarie; tra ch'egli non seppe sostenere la disputa con quella forza di argomenti che la bontà della

(1) Trovasi anche tra le Prose del Firenzuola nella Collezione economica classica del Sonzogno.

causa gli avrebbe potuto somministrare, egli fu sopraffatto dal numero e dall'autorità. Allora fu un incalzarsi di dialoghi de' più riputati maestri in letteratura, intesi tutti quanti a soffocare la già fioca voce dell'ardito scrittore vicentino. Il Giambullari pubblicò nel 1546 il Gello (1) (dal nome del Gelli cui era dedicato); poi Claudio Tolomei nel 1555 il Cesano, scritto fin dal 1535. Contro di costui si scagliò furiosamente il padovano Hieronimo Mutio (questo egli credeva scrivere italiano!) il quale se la prese anche col Varchi, autore dell'Ercolano pubblicato, postumo, nel 1570 (2), scrivendogli contro una sua velenosa Varchina, dove non gli risparmia niuna specie d'invettive e motteggi. Cosi il grande affare della favella, che trastullò in quisquilie i numerosi accademici Umidi, Inferrigni e Infarinati, recò per tutto frutto un feroce accapigliarsi degli scontrosi controversisti, a' quali possiamo aggiungere i molti che allora per altre ragioni letterarie, o per gelosie od ire private, si straziarono a vicenda, rendendosi tristamente famosi; come l'Aretino, Niccolò Franco, Lodovico Domenichi, Anton Francesco Doni, Lodovico Castelvetro, e finalmente Annibal Caro, non men maligno forse, ma più fortunato di tutti, perché venne a capo di cattivarsi meglio l'attenzione del pubblico con la famosa Apologia contro il Castelvetro, che aveva criticata una sua canzone, tutta adulazioni alla casa di Francia. Quest' apologia è invero una scrittura piena di sali e di brio e, a non considerare gli eccessi dell'invettiva, è anche un bel modello di eloquenza polemica.

V. In mezzo a siffatte misere lotte risorsero le Accademie. Nel 1540 molti letterati, usi di raccogliersi presso Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino, vennero in pensiero di for

(1) Trovasi con le Lezioni nella Collezione milanese del Silvestri. (2) Ristampato piú volte e finalmente nella Bibl. class. econ. Sonzogno.

mare un'Accademia. Detto, fatto: s'institui l'Accademia degli Umidi, che tosto fu voluta magnificamente proteggere da Cosimo granduca, e per costui opera si cambiò in Accademia fioren. tina, con sede in Palazzo Vecchio. Se non che Anton Francesco Grazzini, che n'era stato un de' più caldi fautori e v'avea preso il soprannome di Lasca, indispettito per varie cagioni, si fece promotore di un altro sodalizio, che sorse nel 1582, e fu l'Accademia della Crusca, ancora vivente, fondata con l'intento di vagliare la lingua, separando la crusca dalla buona farina. Anima di questa Accademia fu Leonardo Salviati (l'infarinato), tristamente famoso per la guerra accanita, che insieme a Bastiano de' Rossi (l'inferrigno) aveva al povero Tasso. Esempio sciagurato ad una miriade d'accademie simili, che come gramigna germogliarono tosto per tutt'Italia, la Crusca nelle sue tornate si veniva baloccando in vuoti cicalecci intorno ai più frivoli argomenti. Ma non sarebbe giustizia il non riconoscere che ad essa spetta il merito d'aver tentato con buoni criteri una legislazione della nostra lingua, e d'essersi fin d'allora travagliata attorno all'opera immane del dizionario.

mossa

E qui, a proposito d'accademie e di accademici, potremmo scrivere parecchie pagine non prive di curiosità, affastellando aneddoti e solleticose e piccanti notizie d'ogni maniera; ma noi crediamo dover lasciare tutto ciò alle vecchie storie letterarie, perché ne pare non doversi dar pregio d' importante fatto letterario ad ogni cicalata (1) accademica e ad ogni nomignolo bizzarro, onde a quegli accademici perditempo piaceva ribattezzarsi.

(1) La cicalata era un discorsetto elegante, pieno d'arguzie e di frizzi, ma vuoto di contenuto, che nei banchetti accademici soleva recitare alcuno dei commensali a sollazzo della brigata. Alla vuota diceria si davano risibili argomenti, come le lodi del finocchio, dei fichi, dell'ipocondria, della terzana, o mostrar se fu prima l'ovo o la gallina.

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