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come interviene oggidi, la parte men nobile e meno importante era quella del poeta.

II.

Inutilmente Ottavio Rinuccini col gusto fine e castigato avea dato l'esempio di un melodramma dove le ragioni della musica e dell'apparato scenico non sopraffacevano la poesia. Dopo di lui i poeti scapestrarono trascinati dal reo gusto degli spettatori e dalla tirannide dei compositori di musica, e quanto più cadde in basso l'arte del poeta melodrammatico, tanto più numerosi ne furono i cultori ed i non sapidi frutti. Tutto il secolo XVII ne fu pieno da Aurelio Aureli, da Francesco Silvani, da Ottavio Tronsarelli, da Matteo Noris, da Filippo Acciaiuoli, dal Maggi, dal Martelli, dal Gigli sino a Silvio Stampiglia, a Pietro Pariati, ad Apostolo Zeno; il quale ultimo s'adoprò di rialzare a miglior sorte il dramma musicale rispettando la verisimiglianza negli intrecci e negli scioglimenti, spogliandosi dalla smodata turgidezza che il pazzo seicento aveva messo in moda, e togliendo quella incomposta mescolanza del serio col burlesco che all'azione scemava tanto di naturalezza e convenienza, e ai personaggi decoro. Dotto come era, lo Zeno derivò qualcosa dai classici greci e più di qualcosa dai tragici francesi Corneille e Racine, e, ad imitazione di quest'ultimo, scrisse anch'egli un'Ifigenia e un'Andromaca. Curioso poi che senza conoscere, a quel che pare, il teatro di Shakespeare, abbia composto un Amleto traendone l'argomento dalla stessa fonte da cui lo ricavò l'inglese, cioè Saxo grammatico. Nel 1718 lo Zeno, quasi cinquantenne, fu chiamato a Vienna come poeta e storiografo di Corte, con la provvisione di quattromila fiorini all' anno e l'obbligo di scrivere de' drammi per le grandi occasioni. Colà stette sino al 1729, tenuto in particolar stima e favore dall' imperator Carlo VI, al quale sembra che egli stesso additasse come proprio successore il giovine Metastasio.

III. - Da Felice Trapassi d'Assisi e da Francesca Galastri bolognese nacque Pietro Antonio Domenico Bonaventura in Roma addi 3 gennaio del 1698. La famiglia era in povero stato, ma la natura ne lo compensò privilegiandolo di fervidissimo ingegno e d'un cosí squisito senso dell'armonia che ancor fanciullo, può dirsi, destava l'ammirazione generale improvvi sando versi con singolare spontaneità su qualsifosse argomento e dove che s'abbattesse. Accadde un giorno che, passando Gian Vincenzo Gravina con l'abate Lorenzini per una via dove il giovinetto Trapassi, undicenne, improvvisava, questi li salutò con bel garbo nella sua improvvisazione per guisa che il Gravina, ammirato, volle donargli alcune monete ch'egli dignitosamente rifiutò. Allora il giurista e filosofo calabrese si fece condurre al padre di lui e in breve fu accordato che il gio. vinetto Pietro passerebbe sotto la disciplina e nella casa del Gravina. Il quale pose ogni studio nell'educarlo all'amore dei classici e delle leggi, lo affidò per alcun tempo all'istituzione filosofica del cugino suo Gregorio Caroprese di Scalea in Calabria, gli grecizzò il cognome in Metastasio, che poi sempre gli rimase e, morendo nel 1718, lo lasciò erede d'una sostanza di circa 15000 scudi (75000 lire). Sciolto dalla tutela severa del suo protettore, dotato d' una natura vivace e già chiaro in Roma per l'ingegno addimostrato e le prove fatte, il Metastasio si abbandonò a vita dissipata, cosi che in un paio d'anni si trovò aver dato fondo all'eredità senz'avere su che far assegnamento per l'avvenire. Recossi allora a Napoli e si allogò amanuense presso un avvocato Castagnola, il quale pare non fosse molto tenero delle facoltà poetiche del suo alunno. Comunque, anche colà corse ben presto la fama del giovine poeta, per forma che nel 1722, volendosi a corte festeggiare il natalizio dell' imperatrice Elisabetta Cristina, moglie di Carlo VI d'Austria, il viceré di Napoli cardinale d'Althann

mandò invitando il Metastasio a scrivere una cantata. Questi, temendo del suo arcigno avvocato, non si arrese se non alla promessa che sarebbe tenuto segreto il nome dell'autore. Cosi ebbero vita e trionfarono gli Orti Esperidi, che furono il primo passo della splendida carriera del nostro fortunato poeta.

Una cotal novità nell'andamento dell'opera, la sobrietà tersa e fluente del verso, una certa sentimentalità leggermente appassionata che si diffondeva per tutte le scene, rivelavano senza dubbio un ingegno provetto in quell'arte; onde la prima attrice Marianna Benti Bulgarelli si pose nell'animo un'invincibile curiosità di sapere chi fosse l'autore di quel capolavoro, e tanto ella fece che in breve ebbe a sẻ il Metastasio e riusci a strappargli la confession del segreto. Questo fu il principio di un'amicizia calda e costante che avvinse l'attrice al Metastasio per tutta la vita di lei. Ella gl'inspirò la Didone e lo guidò nel comporla; ella lo accolse ne' suoi convegni, dove s'adunava il meglio dei poeti, dei letterati e dei musici che fossero allora in Napoli. Quando poi di Napoli passò a Roma, condusse con sé il giovine poeta, il quale s'allogò nella casa di lei e lei ebbe inspiratrice amorosa, consigliatrice sollecita e fedele, e partecipe ammirata de' suoi trionfi, sinché non gli venne, il 27 di settembre del 1729, l'invito di recarsi a Vienna in qualità di poeta di corte. Lusingato nell'amor proprio e nelle sue alte aspirazioni il poeta, non istette molto in forse se accettare o no l'onorevole offerta; ne fece soltanto una questione di stipendio, domandando qualcosa più de' tremila fiorini assegnatigli. Nẻ la Romanina, nonostante la profonda affezione che aveva posta nel giovine, dette ascolto alla propria passione; ma, tutto data al bene di lui, facendosi lieta delle superbe speranze che quel distacco gli apriva, confortando il proprio dolore col pensiero degli splendidi trionfi che nel nuovo e più

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alto arringo a lui si ripromettevano, soffocò nell'anima l'angoscia n del distacco, anzi con forza più che muliebre s'adoprò ella stessa a vincere le riluttanze del poeta, mosse invero più da ostentazione che da sincerità d'affetto. Parti egli adunque per Vienna la primavera del 1730, accompagnato dai voti della Bulgarelli che non lo dimenticò mai, soventissimo gli scrisse, visitatrice non gradita si propose d'andarlo a trovare e finalmente, morendo quattr' anni di poi, lo designava erede della sua non iscarsa sostanza, lasciandone però usufruttuario il marito. Il Metastasio, mediocremente addolorato della perduta amica, rinunciò all'eredità; di che fu da alcuni biasimato, da moltissimi levato a cielo. In fondo era il meno ch'egli potesse fare; specie trattandosi d'un'eredità di là da venire, mentr'egli avea florido stato ed emolumenti lauti, senza famiglia del proprio e non molto disposto a largheggiare col fratello rimasto a Roma, il quale, punto amante del lavoro e inetto a guadagnare, deplorò amaramente quella rinuncia.

Stette il poeta a Vienna tutto il rimanente della vita allogato presso una famiglia Martinez, alla quale lasciò poi tutto il suo. Condusse vita metodica e semplice, benché non gli mancassero alte amicizie fra cui quella della principessa d'Althann, con la quale si volle che segretamente si fosse sposato. Gli ultimi suoi lustri furono poco fecondi per l'arte. L'Attilio Regolo composto nel 1740 fu veramente l'ultimo suo capolavoro; d'allora cominciò ad esaurirsi la vena della sua ispirazione, e precipitò poi addirittura dopo il 55, quando mori la d'Althann. In quest'ultimo periodo egli sembrò confortarsi de' suoi dolori, de' suoi acciacchi, delle sue disillusioni (Vienna non aveva interamente appagate le sue giovanili ambizioni) con gli studi eruditi. Si univa con più amici a leggere e commentare Orazio e per sollazzo ne traduceva l'Arte poetica, e dell'Arte poetica d'Aristotele faceva un estratto cor

redandolo di proprie osservazioni, le quali meriterebbero d'esser più note di quel che non sono, perché egli fu dei primi a discutere liberamente e con sani criteri la famosa dottrina delle unità aristoteliche. Moltissime sono le lettere che egli scrisse da Vienna nei quarantadue anni che vi rimase, poiché, affabile e cortese, ebbe molte amicizie e molte corrispondenze. E benché non eletto né dovizioso per la lingua, né vigoroso di stile, il suo epistolario è assai utile e dilettevole a leggersi per la molteplice pittura dei luoghi, dei costumi, delle persone e delle cose, non meno che per la vivacità franca e spigliata e la schietta bonarietà delle impressioni e dei sentimenti. In esso si rivela tutto il Metastasio, che fu un facilone secondo che l'indole del secolo comportava, ma ebbe animo retto e gentile e si mantenne onesto e nella vita e nell'arte. Mori il 12 aprile del 1782 e fu deposto nella chiesa di S. Michele a Vienna. Nel 1854 gli fu poi nella chiesa dei Minoriti nella stessa città eretto un monumento con la semplice iscrizione:

A Pietro Metastasio.

IV. Come appena si vide libero di sé stesso, il giovane vivace usci dalla cerchia di studi un po' angusta e gretta in cui l'aveva tenuto il suo protettore e si dié a' suoi autori prediletti, Tasso, Marini ed Ovidio. A quattordici anni aveva composto il Giustino, tragedia a tipo classico tratta dal poema del Trissino, ch'era tanto ammirato dal Gravina; ma in età matura si dolse che altri glie lo pubblicasse, perché scritto « quando l'auto<< rità del mio illustre maestro (scriveva poi egli stesso) non << permetteva ancora all'ingegno mio di un passo dilungarsi << dalla religiosa imitazione dei Greci, e quando l'inesperto mio <«< discernimento era ancor troppo inabile a distinguere l'oro

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