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temporanei a questi tre sommi, sorgono molti altri minori e poeti e prosatori, che scrivono con una lingua così mirabilmente soave e piana da disperare quaAunque provisi d'imitarli. Scrittori senza pretensione, le più volte inconsci del proprio valore, esprimono con una semplicità sublime ora le divote aspirazioni dell'animo, ora le facezie delle gioconde e sollazzevoli brigate; ora traducono le severe pagine di Sullustio, ora le sentenze concettose di Seneca, con quello stesso candore ed elegante incuria con cui poco dopo volgarizzeranno le Omelie di s. Gregorio, la sottile filosofia di s. Agostino nella Città di Dio, la poesia sublime della Bibbia; volteranno in volgare quella sodenne epopea della storia di Tito Livio, con quella fraseologia che usano narrando le vicende contemporanee nelle loro cronache; ma in qualsiasi scrittura hanno sempre una fisonomia propria ed originale, riescono ognora potenti e degni dei più accurati studii dei posteri. Pensando a questi splendori noi scusiamo volontieri, se non possiamo interamente approvare coloro i quali asserirono, che a volere scrivere italiano vero, non si dovevano appuntar gli occhi se non sul beato Trecento.

Ma le molteplici versioni dei Classici di Roma, e più di tutto l'entusiasmo della dotta e veneranda antichità risvegliato da Petrarca e Boccaccio, spianavano là via ad una nuova epoca, la quale incominciò e durò quasi per tutto il 1400, che potrebbe però a ragione chiamarsi Periodo dei grammatici. Era un trapasso naturalę. II Trecento scriveva bene quasi per ispirazione, e sentiva la bellezza dell'arte come per istinto; ma quali sono le leggi e quali le norme che governano le arti, e le fanno prosperare presso d'un popolo? Perchè mai le antiche lingue di Grecia e di Roma avevano toccata

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si alta cima di perfezione? Da queste domande nasceva una nobile gara di richiamare alla vita quelle opere d'arte dimenticate o smarrite nelle lunghe tenebre dell'Evo Mcdio, una lodevole pertinacia nello studiare quelle dotte lingue, una curiosità invincibile e felice di penetrare addentro nella storia, nelle credenze, nelle costumanze e nei riti di quei popoli, che avevano empiuto del proprio nome i secoli passati. Parea che i tempi stessi e le sventure altrui favorissero questa dotta inquietudine. Costantinopoli cadente sotto i colpi dei Maomettani, versava in Italia i tesori della greca letteratura; le Muse che ispiravano Omero e Pindaro, esulando fuor della terra nativa trovavano un asilo ospitale alla corte dei principi nostri; mentre una schiera di valorosi grammatici indigeni rovistava tutte le biblioteche d'Europa, per cercar codici e pergamene, e deciferare antichi manoscritti, non pensando nè a spese, nè a fatiche. Le indagini furono avventurose sino al miracolo.. mano a mano che era scoperto un nuovo tesoro, naturalmente si moltiplicavano i lumi, si destayano altre gare, si poteva sottilizzare con nuovo acume in quistioni filologiche, fino a dare all'Italia tutta l'apparenza d'una vera scuola. I principi, ossia che l'entusiasmo si fosse communicato anche a loro, ossia che avvisassero così di farsi perdonare o le fresche o le meditate tirannidi, aprivano le loro corti ai dotti, favorivano le accademie, spendevano in libri e biblioteche, moltiplicavano gli spettacoli, prodigavano gli onori, é prendevano una parte viva a quelle contese spesso, più che letterarie. Tuttavia nessuna protezione diede alle lettere cost rapido esplicamento, nè tanta certezza di rendere durevoli i frutti ottenuti, quanto una invenzione che rese per sempre memorando questo secolo, e che,

nata fuor d'Italia, pure potrebbe quasi dirsi francamente italiana. La stampa valse al mondo più che dieci secoli di civiltà non interrotta, perchè rese impossibile una nuova barbarie.

Ma durante il periodo faticoso, non però senza gloria, di questo o entusiasmo o idolatria dell'antichità, la lingua e la letteratura creata da Dante, parea che fossero se non dimenticate affatto, almeno tenute in assai minor pregio. Dante venerava gli antichi, ma con ragione aveva creduto che senza rinégare l'arte di quei sommi, le moderne lettere dovevano improntarsi d'una fisonomia propria, più conveniente anche ai popoli rifatti dalla civiltà nuova. Petrarca e Boccaccio senza forse avvedersene, spinsero le lettere per una via diversa; e gli altri poi con minore accorgimento si avvisarono di poter rifare l'antichità stessa, e respingere il mondo sino ad Augusto e a Pericle. Era un errore perdonabile, ma fecondo di effetti lontani e perniciosi. Vi fu un momento in cui l'erudizione pesante, e le-sottigliezze filologiche affaticarono le ali del genio, che domanda di essere libero; e se gli studii classici dovevano fruttificare per l'avvenire, inaridirono in quel primo entusiasmo la vena degli autori di questo secolo. Leggendo alcune scritture volgari voi credereste di essere ricondotti oltre l'època del secondo Federigo, e solo nell'ultimo periodo di questa età incominciossi a rinfrescare la lingua di Dante e di Petrarca. Lorenzo il Magnifico con un intelletto superiore a quello de' suoi coevi, mentre piacevasi di questo dotto commovimento, e argutamente sillogizzava anch'esso nei convegni dell'Accademia platonica, restaurava il culto della nuova lingua del si, e apparecchiava i trionfi dell'epoca del figliuolo, il quale con questi auspizii iniziava il Cinquecento.

A vero dire io non ho gran fede nella protezione

dei Mecenati; ma la letteratura quale fu nel Cinquecento, ne aveva bisogno. La libertà o era già estinta, o si spegneva mano a mano; e uno sfrenato ritorno al culto del paganesimo indeboliva quella fede religiosa che aveva ispirata la divina Commedia. Coll'indebolimento del pensiero cristiano scomparivano anche le maschie virtù che ne sono la natural conseguenza; il popolo e i dotti divenivano pagani d'intelletto e di cuore; bastivi insomma il ricordare che questo fu il secolo che sofferse la tirannia dello sporco Aretino. Ciò nonpertanto non sono difficili a rinvenirsi le cagioni degli splendori letterarii di questo secolo, quando da una parte si rammenti qual grande retaggio di erudizione letteraria avesse ereditato dal Quattrocento, e dall' altra la crescente invenzione della stampa, Ia scoperta d'un nuovo mondo fatta da un Italiano, e la stessa riforma di Lutero nell' Europa settentrionale, che fu per sè medesimo sciagurato avyenimento, ma diede colla battaglia delle opinioni energia nuova agli intelletti. Non è da stupire per tanto se il secolo di Dante fu per un tempo, ed è forse ancora da molti per il torto giudizio di quell'epoca posposto a quello di Leon decimo, perocchè le bellezze delle forme esterne sono comprese da tutti, e pochi o possono o vogliono penetrare nella midolla delle cose. Del resto la bellezza era tutt'altro che solo apparente. Dall' epopea solenne al grazioso epigramma, dalla storia grave alla epistola famigliare, tutti i generi furono tentati e felicemente in questo secolo. Ariosto scrisse il suo poema immortale, ed è appena secondo a Dante; Machiavelli le sue prose robuste, e può pareggiarsi a Tucidide e a Tacito; e non scelgo che i due nomi più grandi fra la schiera quasi innumerevole degli scrittori. Il Balbo notò con ragione che da Pericle e da Ottaviano in poi

non erasi mai più veduto un secolo di maggior coltura letteraria, e di più sinistra e rovinosa politica. Ma questa distrusse quella, come era inevitabile, imperocchè quanto è feconda la libertà, tanto è sterile di sua natura la tirannia e la servitù. Questi effetti pe-. stiferi si videro e si aggravarono sul secolo seguente.

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Ma la seconda metà del Cinquecento lascia già yedere qualche segno della decadenza delle lettere e delle arti, che formarono la gloria pura della prima. Ciò non parrà strano pensando che gli uni erano gli eredi della passata libertà, gli altri si spossavano sotto la tirannide presente. Una moltitudine di scrittori paras-~ siti, di poeti adulatori occupavano il seggio di quei grandi, cui si studiavano indarno d'imitare, traducendone le bellezze nelle pagine loro, condannate alla dimenticanza, malgrado le lodi contemporanee, e gli onori prodigați. I valorosi, che abbondarono ancora tanto. da non lasciare vedere il male, volendo riagire, non, si astennero dallo sbrigliare le immaginazioni; quindi a poco a poco le ampolle ei traviamenti del Seicento.. Questo trapasso è tanto forte, che sembrerebbe favoloso, se da un canto la ragione non ci aiutasse a trovarne le cause, e dall' altro la storia non ce ne ren-> desse sicuri colle sue testimonianze. Niuno crederebbe ad una deviazione tanto grossolana, se i concetti, le metafore, le arguzie disgraziate dei Seicentisti non ci › fossero tramandati a centinaia dalle poesie e dalle prose di autori che scambiavano il gonfio col sublime, le sottigliezze col brio. La fantasia che è potente ausiliaria se ubbidiente alla ragione, divenuta regina, costrinse a delirare anche i più saggi ed avveduti. Marini divenne il capo della sciagurata scuola poetica,' che diffuse i suoi guasti a tutti i generi di letteratura.

Questa inquietudine delle condizioni presenti, que

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