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Sospendendol dell' ala; e cauto attende
Pur, se la piuma si contragga o fume.
Altri un altro ne scote, e de le ceneri
Filigginose il ripulisce e terge.
Tali a le vampe dell' Etnéa fucina,
Sorridente la madre, i vaghi Amori
Eran ministri all'ingegnoso fabbro;
E sotto a i colpi del martel frattanto
L'elmo sorgea del fondator Latino.
All' altro lato con la man rosata
Como e di fiori inghirlandato il crine,
I bissi scopre, ove d' Idalii arredi
Almo tesor la tavoletta espone.
Ivi e nappi eleganti e di canori
Cigni morbide piume; ivi raccolti
Di lucide, odorate onde vapori;
Ivi di polvi, fuggitive al tatto,
Color diversi ad imitar d'Apollo
L'aurato biondo, o il biondo cenerino,
Che de le sacre Muse in su le spalle
Casca ondeggiando tenero e gentile.
Che se a nobile eroe le fresche labbra
Repentino spirar di rigid' aura
Offese alquanto, v'è stemprato il seme
De la fredda cucurbita; e se mai
Pallidetto ei si scorga, è pronto all' uopo,
Arcano a gli altri eroi, vago cinabro.
Nè quando a un semideo spuntar sul volto
Pustula temeraria osa pur fosse,
Multiforme di néi copia vi manca,
Ond' ei l'asconda in sul momento,
Più periglioso a saettar co i guardi
Le belle inavvedute, a guerrier pari,
Che, già poste le bende a la ferita,
Più glorioso e furibondo insieme,
Sbaragliando le schiere, entra nel folto.

ed esca

e) Vieni, o fior de gli eroi; vieni; e qual suole
Nel più dubbio de' casi alto monarca
Avanti al trono suo convocar lento
Di satrapi concilio, a cui nell'ampia
Calvizie de la fronte il senno appare;
Tal di limpidi spegli a un cerchio in mezzo
Grave t'assidi, e lor sentenza ascolta,
Un, giacendo al tuo pie, mostri qual deggia
Liscia e piana salir su per le gambe
La docil calza; un sia presente al volto;
Un dietro al capo; e la percossa luce
Quinci e quindi tornando, a un tempo solo
Tutto al giudizio de' tuoi guardi esponga
L'apparato dell' arte. Intanto i servi
A te sudino intorno; e qual, piegate
Le ginocchia in sul suol, prono ti stringa
Il molle piè di lucidi fermagli;

E qual del biondo crin, che i nodi eccede,

Su la schiena ondeggiante, in negro velo
1 tesori raccoglia; e qual già pronto
Venga spiegando la nettarea veste.
Fortunato garzone, a cui la Moda,
In fioriti canestri e di vermiglia
Seta coperti, preparò tal copia
D'ornamenti e di pompe! Ella pur jeri
A te dono ne feo. La notte intera
Faticaron per te cent' aghi e cento,
E di percossi e ripercossi ferri

Per le tacite case andò il rimbombo: Ma non in van; poi che di novo fasto Oggi superbo nel Bel Mondo andrai, entro l'invidia e lo stupore per Passerai de' tuoi pari, eguale a un dio,

E

Folto bisbiglio sollevando intorno.
(d) Volgi, o invitto campion, volgi tu pure
11 generoso piè dove la bella,

E de gli eguali tuoi scelto drappello
Sbadigliando t'aspetta all' alte mense.
Vieni; e, godendo, nell' uscire il lungo
Ordin superbo di tue stanze ammira.
Or già siamo all' estreme: alza i bei lumi
A le pendenti tavole vetuste,

Che a te de gli avi tuoi serbano ancora
Gli atti e le forme. Quei, che in duro dante
Strigne le membra, e cui sì grande ingombra
Traforato collar le grandi spalle,

Fu di macchine autor; cinse d'invitte
Mura i Penati; e da le nere torri
Signoreggiando il mar, verso le aduste
Spiagge la predatrice Africa spinse.
Vedi quel magro, a cui canuto e raro
Pende il crin da la nuca; e l'altro, a cui
Su la guancia pienotta e sopra il mento
Sêrpe triplice pelo? Ambo s' adornano
Di toga magistral, cadente a i piedi.
L'uno a Temi fu sacro: entro a' licei
La gioventù pellegrinando ei trasse
A gli oracoli suoi ; indi sedette

Nel senato de' padri; e, le disperse
Leggi raccolte, ne fe' parte al mondo:
L'altro sacro ad Igea. Non odi ancora
Presso a un secol di vita il buon vegliardo
Di lui narrar quel che da' padri suoi
Nonagenari udì, com' ei spargesse
Su la plebe infelice oro e salute,

Pari a Febo suo nume? Ecco quel grande,
A cui sì fosco parruccon s' innalza
Sopra la fronte spaziosa, e scende
Di minuti botton serie infinita
Lungo la veste. Ridi? Ei novi aperse
Studi a la patria; ei di
aita

perenne

I miseri dotò; portici e vie
Stèse per la cittade; e da gli ombrosi
Lor lontani recessi a lei dedusse
Le pure onde salubri; e ne' quadrivi
E in mezzo a gli ampli fòri alto le fece
Salir scherzando a rinfrescar la state,
Madre di morbi popolari. Oh coine
Ardi a tal vista di beato orgoglio,
Magnanimo garzon! Folle! A cui parlo?
Ei già più non m'ascolta : odiò que' ceffi
Il suo sguardo gentil; noia lui prese
Di sì vieti racconti ; e già s'affretta
Giù

per le scale impaziente. Addio, De gli uomini delizia, ec.

IL MERIGGIO.

ARDIRÒ ancor tra desinari illustri Sul meriggio innoltrarmi umil cantore; Poi che troppa di te cura mi punge, Signor, ch'io spero un di veder maestro E dittator di graziosi modi

All' alma gioventù, che Italia onora.

Tal fra le tazze e i coronati vini,
Onde all'ospite suo fe' lieta pompa
La Punica Regina, i canti alzava
Jopa crinito e la Regina intanto
Da' begli occhi stranieri iva beendo
L'oblivion del misero Sichèo.

E tale allor che l'orba Itaca in vano
Chiedea a Nettun la prole di Laerte,
Femio sudía co' versi e con la cetra
La facil mensa rallegrar de' Proci,
Cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli
E i petrosi licori e la consorte
Invitavano al pranzo. Amici or piega,
Giovin Signore, al mio cantar gli orecchi,
Or che tra nuove Elise e novi Proci,
E tra fedeli ancor Penelopée,
Ti guidano a la mensa i versi miei. [do,

Già dal meriggio ardente il Sol fuggen-
Verge all'occaso; e i piccioli mortali,
Dominati dal tempo, escon di novo
A popolar le vie ch'all' oriente
Volgon ombra già grande. A te null' altro
Dominator, fuor che te stesso, è dato.

Al fin di consigliarsi al fido speglio
La tua Dama cessò. Quante uopo è volte
Chiedette e rimandò novelli ornati;
Quante convien, de le agitate ognora
Damigelle or con vezzi, or con garriti
Rovesciò la fortuna; a sè medesma, [que;
Quante volte convien, piacque e dispiac-
E, quante volte è d'uopo, a sè ragione
Fece e a' suoi lodatori. I mille intorno
Dispersi arnesi al fin raccolse in uno
La consapevol del suo cor ministra ;
Al fin velata d'un leggier zendado
" È l'ara tutelar di sua beltate;

E la seggiola sacra un po' rimossa,
Languidetta l'accoglie. Intorno ad essa
Pochi giovani eroi van rimembrando
I cari lacci altrui; mentre da lungi,
A altra intorno, i cari lacci vostri
Pochi giovani eroi van rimembrando.

Il marito gentil queto sorride A le lor celie; o s'ei si cruccia alquanto, Del tuo lungo tardar solo si cruccia. Nulla però di lui cura te prenda Oggi, o Signore; e s'egli a par del vulgo Prostrò l'anima imbelle, e non sdegnosse Di chiamarsi marito, a par del vulgo Senta la fame esercitarg!' in petto Lo stimol fier de gli ozïosi sughi, Avidi d' esca; o s'a un marito alcuna D'anima generosa orma rimane, Ad altra mensa il piè rivolga; e d'altra Dama al fianco s'assida, il cui marito Pranzi altrove lontan, d'un'altra a lato, Ch' abbia lungi lo sposo e così nuove Anella intrecci a la catena immensa, Onde, alternando, Amor l'anime annoda.

Ma, sia che vuol, tu baldanzoso innoltra
Ne le stanze più interne. Ecco, precorre
Per annunciarti al gabinetto estremo
Il noto stropiccio de' piedi tuoi.
Già lo sposo l'incontra. In un baleno
Sfugge dall' altrui man l'accorta mano
De la tua Dama; e il suo bel labbro intanto
T'apparecchia un sorriso. Ognun s'ar-
retra;

Chè conosce i tuoi dritti; e si conforta
Con le adulte speranze, a te lasciando
Libero e scarco il più beato seggio.
Tal colà, dove infra gelose mura
Bizanzio ed Ispaán guardano il fiore
De la beltà, che il popolato Egéo
Manda e l'Armeno e il Tartaro e il Circasso
Per delizia d'un solo, a bear entra
L'ardente sposa il grave Munsulmano.
Tra 'l maestoso passeggiar gli ondeggiano
Le late spalle, e sopra l'alta testa
Le avvolte fasce; dell' arcato ciglio
Ei volge intorno imperioso il guardo;
E vede al su' apparire umil chinarsi,
E il piè ritrar l' effeminata, occhiuta
Turba, che sorridendo egli dispregia.

Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera
Si dispongan tue grazie ; e a la tua Dama,
Quanto elegante esser più puoi, ti mostra.
Tengasi al fianco la sinistra mano
Sotto il breve giubbon celata; e l'altra
Sul finissimo lin posi, e s'asconda
Vicino al cor; sublime alzisi 'l petto;
Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei
Piega il duttile collo; a i lati stringi
Le labbra un poco; ver lo mezzo acute
Rendile alquanto; e da la bocca poi,
Compendiata in guisa tal, se n'esca

Un non inteso mormorio. La destra
Ella intanto ti porga, e molle caschi
Sopra i tiepidi avorii un doppio bacio.
Siedi tu poscia; e d'una man trascina
Più presso a lei la seggioletta. Ognuno
Tacciasi; ma tu sol curvato alquanto,
Seco susurra ignoti detti, a cui
Concordin vicendevoli sorrisi,
E sfavillar di cupidette luci,

Che amor dimostri, o che lo finga almeno.
Marimembra, o Signor, che troppo nuo-
Ne gli amorosi cor lunga e ostinata [ce
Tranquillità. Sull' oceáno ancora
Perigliosa è la calma: oh quante volte
Dall'immobile prora il buon nocchiere
Invocò la tempesta! e sì crudele
Soccorso ancor gli fu negato; e giacque
Affamato, assetato, estenuato,

Dal velenoso aere stagnante oppresso,
Tra l'inutile ciurma al suol languendo.
Però ti giovi de la scorsa notte
Ricordar le vicende, e con obliqui
Motti pungerl' alquanto : o se, nel volto
Paga più che non suole, accor fu vista
Il novello straniere, e co' bei labbri
Semiaperti aspettar, quasi marina
Conca, la soavissima rugiada

De' novi accenti; o se cupida troppo
Col guardo accompagnò di loggia in loggia
Il seguace di Marte, idol vegliante
De' femminili voti, a la cui chioma
Col lauro trionfal s' avvolgon mille
E mille frondi dell' Idalio mirto.

Colpevole o innocente, allor la bella
Dama improvviso adombrerà la fronte
D'un nuvoletto di verace sdegno
O simulato; e la nevosa spalla
Scoterà un poco; e premerà col dente
L'infimo labbro; e volgeransi al fine
Gli altri a bear le sue parole estreme.
Fors' anco rintuzzar di tue querele
Saprà l'agrezza; e sovvenir faratti
Le visite furtive a i tetti, a i cocchi
Ed a le logge de le mogli illustri
Di ricchi cittadini, a cui sovente,
Per calle, che il piacer mostra, piegarsi
La maestà di cavalier non sdegna.

Felice te, se mesta e disdegnosa
La conduci a la mensa, e s'ivi puoi
Solo piegarla a comportar de' cibi
La nausea universal! Sorridan pure
A le vostre dolcissime querele
I convitati, e l'un l'altro percota
Col gomito maligno: ah, nondimeno,

Come fremon lor alme; e quanta invidia
Ti portan, te veggendo unico scopo
Di si bell' ire! Al solo sposo è dato
Nodrir nel cor magnanima quïete;
Mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto
Docil fidanza ne le innocue luci.

Oh tre fïate avventurosi e quattro,
Voi del nostro buon secolo mariti,
Quanto diversi da' vostr' avi! Un tempo
Uscía d'Averno con viperei crini,
Con torbid' occhi irrequieti, e fredde
Tenaci branche un indomabil mostro,
Che ansando e anelando intorno giva
A i nuziali letti, e tutto empiea
Di sospetto e di fremito e di sangue.
Allor gli antri domestici, le selve,
L'onde, le rupi alto ulular s'udiéno
Di femminili strida; allor le belle
Dame, con mani incrocicchiate e luci
Pavide al ciel, tremando, lagrimando,
Tra la pompa feral de le lugúbri
Sale, vedean dal truce sposo offrirsi
Le tazze attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia! Il tuo furor medesmo
Oltre l'alpi, oltre 'l mar destò le risa
Presso a gli emoli tuoi, che di gelosa
Titol ti diero; e t'è serbato ancora
Ingiustamente. Non di cieco amore
Vicendevol desire, alterno impulso;
Non di costume simiglianza or guida
Gl'incauti sposi al talamo bramato;
Ma la Prudenza co i canuti padri
Siede, librando il molt' oro e i divini
Antiquissimi sangui : e allor che l'uno
Bene all'altro risponde, ecco Imenéo
Scoter sua face, e unirsi al freddo sposo,
Di lui non già, ma de le nozze amante,
La freddissima vergine, che in core
Già volge i riti del Bel Mondo, e lieta
L'indifferenza maritale affronta.
Così non fien de la crudel Megera
Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene
Contenda or pur le desïate porte
A i gravi amanti, e di feminee risse
Turbi Oriente. Italia oggi si ride
Di quello, ond' era già derisa : tanto
Puote una sola età volger le menti!

Ma già rimbomba d'una in altra sala
Il tuo nome, o Signor; di già l'udiro
L'ime officine, ove al volubil tatto
Degl' ingenui palati arduo s'appresta
Solletico, che molle i nervi scota,

E varia seco voluttà conduca
Fino al core dell' alma. In bianche spoglie

S'affrettano a compir la nobil opra
Prodi ministri ; e lor sue leggi dêtta
Una gran mente, del paese uscita,
Ove Colbert e Richelieu fur chiari.
Forse con tanta maestade in fronte
Presso a le navi, ond' llio arse e cadéo,
Per gli ospiti famosi il grande Achille
Disegnava la cena: e seco intanto
Le vivande cocean su i lenti fochi
Patroclo fido, e il guidator di carri
Automedonte. O tu, sagace mastro
Di lusinghe al palato, udrai fra poco
Sonar le lodi tue dall' alta mensa.
Chi fia che ardisca di trovar pur macchia
Nel tuo lavoro? Il tuo Signor farassi
Campion de le tue glorie : e male a quanti
Cercator di conviti oseran motto
Pronunciar contro te! chè sul cocente
Meriggio andran peregrinando poi
Miseri e stanchi, e non avran cui piaccia
Più popolar con le lor bocche i pranzi.

Imbandita è la mensa. In piè d'un salto
Alzati, e porgi, almo Signor, la mano
A la tua Dama; e lei, dolce cadente
Sopra di te, col tuo valor sostieni;
E al pranzo l'accompagna. I convitati
Vengan dopo di voi ; quindi 'l marito
Ultimo segua. O prole alta di numi,
Non vergognate di donar voi anco
Pochi momenti al cibo: in voi non fia
Vil opra il pasto; a quei soltanto è vile,
Che il duro, irresistibile bisogno
Stimola e caccia. All' impeto di quello
Cedan l'orso, la tigre, il falco, il nibbio,
L'orca, il delfino, e quant' altri mortali
Vivon quaggiù; ma voi con rosee labbra
La sola Voluttade inviti al pasto;
La sola Voluttà, che le celesti
Mense imbandisce, e al néttare convita
I viventi per sè Dei sempiterni.

Forse vero non è ; ma un giorno, è fama, Che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi Fur Plebe e Nobiltade. Al cibo, al bere, All'accoppiarsi d' ambo i sessi, al sonno Un istinto medesmo, un egual forza Sospingeva gli umani; e niun consiglio, Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess' ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm' antri, Il medesimo suolo offrieno loro

Il riposo e l'albergo, e a le lor membra

I medesmi animai le irsute vesti.
Sol' una cura a tutti era comune,
Di sfuggire il dolore; e ignota cosa
Era il desire a gli uman petti ancora.

L'uniforme de gli uomini sembianza Spiacque a' Celesti; e a variar la Terra Fu spedito il Piacer. Quale già i numi D'Ilio su i campi; tal l'amico Genio," Lieve lieve per l' aëre labendo, S'avvicina a la Terra; e questa ride Di riso ancor non conosciuto. Ei move; E l'aura estiva del cadente rivo E de i clivi odorosi a lui blandisce Le vaghe membra, e lenemente sdrucciola Sul tondeggiar de i muscoli gentile. Gli s' aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi; E, come ambrosia, le lusinghe scorrongli Da le fraghe del labbro; e da le luci Socchiuse, languidette, umide fuori Di tremulo fulgore escon scintille, Ond'arde l'aere, che, scendendo, ei varca.

Al fin sul dorso tuo sentisti, o Terra, Sua prim' orma stamparsi ; e tosto un lento Fremere soavissimo si sparse

Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte
Di natura le viscere commosse;
Come nell' arsa state il tuono s'ode,
Che di lontano mormorando viene,
E col profondo suon di monte in monte
Sorge e la valle e la foresta intorno

:

Muggon del fragoroso alto rimbombo; Finchè poi cade la feconda pioggia, Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe Ravviva, riconforta, allegra e abbella.

Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo Viventi, a cui con miglior man Titáno Formò gli organi illustri, e meglio têse, E di fluido agilissimo inondolli! Voi l'ignoto solletico sentiste Del celeste motore. In voi ben tosto Le voglie fermentår, nacque il desío. Voi primieri scopriste il buono, il meglio; E con foga dolcissima correste A possederli. Allor quel de' due sessi, Che necessario in prima era soltanto, D'amabile e di bello il nome ottenne. Al giudizio di Paride voi deste Il primo esempio: tra feminei volti A distinguer s'apprese; e voi sentiste Primamente le grazie. A voi tra mille Sapor fur noti i più soavi. Allora Fuil vin preposto all' onda; e il vins' elesse Figlio de' tralci più riarsi, e posti A più fervido Sol ne' più sublimi

Colli, dove più zolfo il suolo impingua.
Così l'uom si divise e fu il Signore
Da i volgari distinto, a cui nel seno
Troppo languir l'ebeti fibre, inette
A rimbalzar sotto i soavi colpi
De la nova cagione, onde fur tocche;
E quasi bovi, al suol curvati, ancora
Dinanzi al pungol del bisogno andaro;
E tra la servitute e la viltade

E'l travaglio e l'inopia a viver nati,
Ebber nome di Plebe. Or tu, Signore,
Che feltrato per mille invitte reni
Sangue racchiudi, poi che in altra etade
Arte, forza o fortuna i padri tuoi
Grandi rendette; poi che il tempo al fine
Lor divisi tesori in te raccolse :
Del tuo senso gioisci, a te da i numi
Concessa parte : e l'umil vulgo intanto,
Dell' industria donato, ora ministri
A te i piaceri tuoi, nato a recarli
Su la mensa real, non a gioirne.

Ecco, la Dama tua s'asside al desco :
Tula man le abbandona ; e mentre il servo,
La seggiola avanzando, all' agil fianco
La sottopon, sì che lontana troppo
Ella non sia, nè da vicin col petto
Prema troppo la mensa : un picciol salto
Spicca, e chino raccogli a lei del lembo
Il diffuso volume. A lato poscia
Di lei tu siedi a cavalier gentile

Il fianco abbandonar de la sua Dama
Non fia lecito mai, se già non sorge
Strana cagione a meritar, ch' egli usi
Tanta licenza. Un Nume ebber gli antichi,
Immobil sempre, e ch'a lo stesso padre
De gli Dei non cedette, allor ch' ei venne
Il Campidoglio ad abitar, sebbene
E Giuno e Febo e Venere e Gradivo
E tutti gli altri Dei da le lor sedi,
Per riverenza del Tonante, usciro.

Indistinto ad ognaltro il loco sia
Presso al nobile desco; e s'alcun arde
Ambizioso di brillar fra gli altri,
Brilli altramente. Oh come i varii ingegni
La libertà del genial convito
Desta ed infiamma! Ivi il gentil Moteggio,
Maliziosetto svolazzando intorno,
Reca sull' ali fuggitive ed agita
Ora i raccolti da la fama errori
De le belle lontane; ora d'amante
O di marito i semplici costumi;
E gode di mirare il queto sposo
Rider primiero, e di crucciar con lievi
Minacce in cor de la sua fida sposa

I timidi segreti. Ivi abbracciata
Co' festivi Racconti intorno gira
L'elegante Licenza: or nuda appare,
Come le Grazie; or con leggiadro velo
Solletica vie meglio, e s' affatica

Di richiamar de le matrone al volto
Quella rosa gentil, che fu già un tempo
Onor di belle donne, all' Amor cara,
E cara all' Onestade. Ora ne' campi
Cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi
A le rozze villane il viso adorna.

Già s'avanza la mensa. In mille guise
E di mille sapor, di color mille
La variata eredità de gli avi
Scherza ne' piatti, e giust' ordine serba.
Forse a la Dama di sua man le dapi
Piacerà ministrar, che novo pregio
Acquisteran da lei. Veloce il ferro,
Che forbito ti attende al destro lato,
Nudo fuor esca; e come quel di Marte,
Scintillando lampeggi: indi la punta
Fra due dita ne stringi, e chino a lei
Tu il presenta, o Signore. Or si vedranno
De la candida mano, all' opra intenta,
I muscoli giocar soavi e molli;
E le grazie, piegandosi dintorno,
Vestiran nuove forme, or da le dita,
Fuggevoli scorrendo; ora sull'alto
De' bei nodi insensibili aleggiando;
Ed or de le pozzette in sen cadendo,
Che dei nodi al confin v' impresse Amore.
Mille baci, di freno impazienti,
Ecco, sorgon dal labbro a i convitati ;
Già s' arrischian, già volano, giàun guardo
Sfugge da gli occhi tuoi, chei vanni audaci
Fulmina ed arde, e tue ragion difende.
Sol de la fida sposa, a cui se' caro,
Il tranquillo marito immoto siede;
E nulla impression l'agita e scuote
Di brama o di timor; però che Imene
Da capo a piè fatollo. Imene or porta
Non più serti di rose avvolti al crine,
Ma stupido papavero, grondante
Di crassa onda Letéa: Imene e il Sonno
Oggi han pari le insegne. Oh come spesso
La Dama dilicata invoca il Sonno,
Che al talamo presieda, e seco invece
Trova Imenéo; e stupida rimane,
Quasi al meriggio stanca villanella,
Che tra l'erbe innocenti adagia il fianco
Queta e sicura, e d'improvviso vede
Un serpe ; e balza in piedi inorridita;
E le rigide man stende; e ritragge
Il gomito, e l'anelito sospende;

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