Ma che? Tu inorridisci, emostri in Qual istrice pungente, irti i capegli Al suon di mie parole? Ah! non è questo, Signore, il tuo mattin. Tu col cadente Solnon sedesti a parca mensa; e, al lume Dell'incerto crepuscolo, non gisti Jeri a corcarti in male agiate piume, Come dannato è a far l'umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio Di Semidei terreni, altro concesse Giove benigno e con altr' arti e leggi Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie, e le canore scene, E il patetico gioco, oltre più assai Producesti la notte; e stanco al fine, In aureo cocchio, col fragor di calde Precipitose rote, e il calpestio Di volanti corsier, lunge agitasti Il queto aere notturno, e le tenébre Con fiaccole superbe intorno apristi: Siccome allor che il siculo terreno Dall' uno all'altro mar rimbombar feo Pluto col carro, a cui splendeano innanzi Le tede de le Furie anguicrinite,
Così tornasti a la magion; ma quivi A novi studi ti attendea la mensa, Cui ricopríen pruriginosi cibi, E licor lieti di Francesi colli, O d' Ispani, o di Toschi, o l' Ongarese Bottiglia, a cui di verde edera Bacco Concedette corona, e disse: siedi De le mense reïna. Al fine il Sonno Ti sprimacciò le morbide coltríci Di propria mano; ove te accolto, il fido Servo calò le seriche cortine; E a te soavemente i lumi chiuse Il gallo, che li suole aprire altrui. Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi Non sciolga da' papaveri tenaci Morfeo prima che, già grande, il giorno Tenti di penetrar fra gli spiragli De le dorate imposte, e la parete Pingano a stento in alcun lato i raggi Del Sol, ch' eccelso a te pende sul capo. Or qui principio le leggiadre cure Denno aver del tuo giorno; e quinci io debSciorre il mio legno, e co' precetti miei Te ad alte imprese ammaestrar cantando. Già i valletti gentili udir lo squillo Del vicino metal, cui da lontano Scosse tua man col propagato moto, E accorser pronti a spalancar gli opposti Schermi a la luce; e rigidi osservaro, Che con tua pena non osasse Febo
Entrar diretto a saettarti i lumi. Ergiti or tu alcun poco; e sì ti appoggia A gli origlieri i quai lenti gradando, All' omero ti fan molle sostegno. Poi coll' indice destro lieve lieve Sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua Quel che riman de la Cimmeria nebbia; E de' labbri formando un picciol arco, Dolce a vedersi, tacito sbadiglia. Oh! se te in si gentile atto mirasse Il duro capitan, qualor tra l'armi, Sgangherando le labbra, innalza un grido, Lacerator di ben costrutti orecchi, Onde a le squadre vari moti impone; Se te mirasse allor, certo vergogna Avria di sè, più che Minerva il giorno, Che di flauto sonando, al fonte scorse Il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma già il ben pettinato entrar di novo Tuo damigello i' veggo. Egli a te chiede, Quale oggi più de le bevande usate Sorbir ti piaccia in preziosa tazza. Indiche merci son tazze e bevande : Scegli qual più desii. S'oggi ti giova Porger dolci a lo stomaco fomenti; Si che con legge il natural calore V'arda temprato, e al digerir ti vaglia · Scegli 'l brun cioccolatte, onde tributo Ti dà il Guatimalese e il Caribéo, Ch' ha di barbare penne avvolto il crine. Ma se noiosa ipocondría t'opprime; O troppo intorno a le vezzose membra Adipe cresce de' tuoi labbri onora La nettarea bevanda, ove abbronzato Fuma ed arde il legume, a te d' Aleppo Giunto e da Moka, che di mille navi Popolata mai sempre, insuperbisce.
Certo fu d'uopo, che dal prisco seggio Uscisse un regno, e con ardite vele, Fra straniere procelle e novi mostri, E teme e rischi ed inumane fami, Superasse i confin, per lunga etade Inviolati ancora; e ben fu dritto, Se Cortes e Pizzarro umano sangue Non istimar quel ch'oltre l'Oceáno Scorrea le umane membra; onde tonando E fulminando, al fin spietatamente Balzaron giù da' loro aviti troni Re Messicani, e generosi Incassi ; Poi che nuove così venner delizie, O gemma degli eroi, al tuo palato.
Cessi'l cielo però, che in quel momento, Che la scelta bevanda a sorbir prendi, Servo indiscreto a te improvviso annunzi
Il villano sartor, che, non ben pago D'aver teco diviso i ricchi drappi, Oso sia ancor con polizza infinita
A te chieder mercede (a): ahimè, chè fatto Quel salutar licore agro e indigesto Tra le viscere tue, te allor farebbe E in casa e fuori e nel teatro e al corso Ruttar plebeiamente il giorno intero!
Ma non attenda già, ch' altri lo annunzi, Gradito ognor, benchè improvviso, il dolce
Mastro, che i piedi tuoi, come a lui pare, Guida e corregge. Egli all' entrar si fermi Ritto sul limitare; indi, elevando Ambe le spalle, qual testudo, il collo Contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
Inchini 'l mento, e con l'estrema falda Del piumato cappello il labbro tocchi.
Non meno di costui facile al letto
Del mio Signor t'accosta, o tu, che addestri
A modular con la flessibil voce Teneri canti; e tu che mostri altrui, Come vibrar con maestrevol arco Sul cavo legno armonïose fila.
Nè la squisita a terminar corona Dintorno al letto tuo manchi, o Signore, Il precettor del tenero idioma,
Che da la Senna, de le Grazie madre, Or ora a sparger di celeste ambrosia Venne all'Italia nauseata i labbri. All' apparir di lui l'itale voci Tronche cedano il campo al lor tiranno; E a la nova ineffabile armonía
De' soprumani accenti, odio ti nasca [bra, Più grande in sen contro a le impure lab- Ch'osan macchiarsi ancor di quel sermo- Onde in Valchiusa fu lodata e pianta [ne, Già la bella Francese; ed onde i campi All' orecchio de i Re cantati furo
Lungo il fonte gen til de le belle acque(1): Misere labbra, che temprar non sanno Con le galliche grazie il sermon nostro, Si che men aspro a' dilicati spirti, E men barbaro suon fieda gli orecchi!
Or te questa, o Signor, leggiadra schiera Trattenga al novo giorno; e di tue voglie, Irresolute ancora, or l'uno, or l'altro Con piacevoli detti il vano occúpi; Mentre tu chiedi lor, tra i lenti sorsi Dell'ardente bevanda, a qual cantore Nel vicin verno si darà la palma
(1) ALAMANNI, La Coltivazione del Riso.
Sopra le scene; e s'egli è il ver che rieda L'astuta Frine, che ben cento folli Milordi rimandò nudi al Tamigi; O se il brillante danzator Narcisso Tornerà pure ad agghiacciare i petti De' palpitanti italici mariti.
Poi che così gran pezzo a' primi albori Del tuo mattin teco scherzato fia, Non senz' aver licenziato prima L'ipocrita Pudore, e quella schifa, Cui le accigliate, gelide matrone Chiaman Modestia ; al fine, o a lor talento, O da te congedati, escan costoro. Doman si potrà poscia, o forse l'altro Giorno, a' precetti lor porgere orecchio, Se meno ch'oggi a te cure dintorno Porranno assedio. A voi divina schiatta, Vie più che a noi mortali, il ciel concesse Domabile midollo entro al cerébro; Si che breve lavor basta a stamparvi Novelle idee. In oltre a voi fu dato Tal de' sensi e de' nervi e de gli spirti Moto e struttura, che ad un tempo mille Penetrar puote e concepir vostr' alma Cose diverse; e non però turbarle, O confonder giammai, ma scevre e chiare Ne' loro alberghi ricovrarle in mente.
Il vulgo intanto, a cui non dessi il velo Aprir de' venerabili misteri, Fie pago assai, poi che vedrà sovente Ire e tornar dal tuo palagio i primi D'arte maestri; e con aperte fauci Stupefatto berà le tue sentenze.
Ma già vegg'io, che le ozïose lane Soffrir non puoi più lungamente, e in vano Te l'ignavo tepor lusinga e molce; Però che or te più glorïosi affanni Aspettan l' ore a trapassar del giorno.
Su dunque, o voi del primo ordine servi, Che de gli alti Signor ministri al fianco Siete incontaminati; or dunque voi Al mio divino Achille, al mio Rinaldo L'armi apprestate. Ed ecco in un baleno I tuoi valletti a' cenni tuoi star pronti. Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste La serica zimarra, ove disegno Diramasi Chinese; altri, se il chiede Più la stagione, a te le membra copre Di stese infino al piè tiepide pelli. Questi al fianco ti adatta il bianco lino, Che sciorinato poi cada, e difenda I calzonetti; e quei, d'alto curvando Il cristallino rostro, in su le mani Ti versa acque odorate, e da le mani
In limpido bacin sotto le accoglie. Quale il sapon, del redivivo muschio Olezzante all'intorno; e qual ti porge Il macinato di quell' arbor frutto, Che a Rodope fu già vaga donzella, E chiama in van, sotto mutate spoglie, Demofoonte ancor, Demofoonte. L'un di soavi essenze intrisa spugna, Onde tergere i denti, e l'altro appresta Ad imbianchir le guance util licore.
Assai pensasti a te medesmo: or volgi Le tue cure per poco ad oltro obbietto, Non indegno di te. Sai che compagna, Con cui divider possa il lungo peso Di quest' inerte vita, il ciel destina Al giovane Signore. Impallidisci? No, non parlo di nozze : antiquo e vieto Dottor sarei, se così folle io dessi A te consiglio. Di tant' alte doti Tu non orni così lo spirto e i membri, Perchè in mezzo a la tua nobil carriera Sospender debbi'l corso; e fuora uscendo Di cotesto a ragion detto Bel Mondo, In tra i severi di famiglia padri Relegato ti giacci, a un nodo avvinto, Di giorno in giorno più penoso; e fatto Stallone ignobil de la razza umana. [ce, D'altra parte il Marito, ahi quanto spia- E lo stomaco move a i dilicati
Del vostr' Orbe leggiadro abitatori, Qualor de' semplicetti avoli nostri. Portar osa in ridicolo trionfo La rimbambita Fe, la Pudicizia, Severi nomi! E qual non suole a forza In que' melati seni eccitar bile, Quando i calcoli vili del castaldo, Le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi Di que' si dolci suoi bambini, altrui Gongolando ricorda; e non vergogna Di mischiar cotai fole a peregrini Subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti Da volgar fren concetti, onde s'avviva Da' begli spirti il vostro amabil Globo! Pera dunque chi a te nozze consiglia. Ma non però senza compagna andrai, Che fia giovane dama, e d'altrui sposa; Poi che si vuole inviolabil rito Del Bel Mondo, onde tu se' cittadino.
Tempo già fu, che il pargoletto Amore Dato era in guardia ahsuo fratello Imene; Poi che la madre lor temea, che il cieco, Incanto Nume perigliando gisse Misero e solo per oblique vie; E che bersaglio agl' indiscreti colpi
Di senza guida e senza freno arciero, Troppo immaturo al fin corresse il seme Uman, ch'è nato a dominar la terra. Perciò la prole mal secura all'altra In cura dato avea, si lor dicendo:
Ite, o figli, del par; tu, più possente, « Il dardo scocca; e tu, più cauto, il guida « A certa meta. » Così ognor compagna Iva la dolce coppia; e in un sol regno, E d'un nodo comun l'alme stringea. Allora fu che il Sol mai sempre uniti Vedea un pastore ed una pastorella Starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte; E la suora di lui vedeali poi Uniti ancor nel talamo beato, Ch'ambo gli amici Numi a piene mani, Gareggiando, spargean di gigli e rose. Ma che non puote anco in divino petto, Se mai s'accende, ambizïon di regno? Crebber l' ali ad Amore a poco a poco, E la forza con esse: ed è la forza Unica e sola del regnar maestra. Perciò a poc' aere prima; indi più ardito A vie maggior fidossi; e fiero al fine Entrò nell' alto, e il grande arco crollando E il capo, risonar fece a quel moto Il duro acciar, che la faretra a tergo Gli empie, e gridò: Solo regnar vogl' io. Disse, e volto a la madre: « Amor adunque, « Il più possente in fra gli Dei, il primo « Di Citerea figliuol, ricever leggi; «E dal minor german ricever leggi, [re Vile alunno; anzi servo? Or dunque Amo« Non oserà, fuor ch' una unica volta, « Ferire un' alma, come questo schifo « Da me vorrebbe? E non potrò giammai, «Da poi ch'io strinsi un laccio, anco slegarlo
« A mio talento; e, qualor parmi, un altro Stringerne ancora? E lascerò pur ch'egli « Di suoi unguenti impeci a me i miei dardi, «Perchè men velenosi e men crudeli « Scendano a i petti? Or via, perchè non togli
<< A me dale man mie quest' arco, e queste << Armi da le mie spalle; e ignudo lasci, « Quasi rifiuto de gli Dei, Cupido
<< Oh il bel viver che fia, qualor tu solo Regni in mio loco! Oh il bel vederti, las« Studiarti a torre da le languid'alme [so! « La stanchezza e'l fastidio, espander gelo « Di foco in vece! Or, genitrice, intendi • Vaglio, e vo' regnar solo. A tuo piacere
<< Tra noi pârti l'impero ; ond' io con tece
«Abbia omai pace, e in compagnia
« Me non trovin mai più le umane genti. Qui tacque Amore; e minaccioso in atto, Farve all' Idalia Dea chieder risposta. Ella tenta placarlo; e pianti e preghi Sparge, ma in vano; onde a'due figli volta, Con questo dir pose al contender fine : « Poi che nulla tra voi pace esser puote, « Si dividano i regni. E perchè l' uno a Sia dall' altro germano ognor disgiunto, « Sieno tra voi diversi e 'l tempo e l'opra. « Tu, che di strali altero a fren non cedi, « L'alme ferisci, e tutto il giorno impera; « E tu, che di fior placidi hai corona,
Le salme accoppia, e coll' ardente face Regna la notte. » Ora di qui, Signore, Venne il rito gentil, che a' freddi sposi Le tenebre concede, e de le spose Le caste membra; e a voi, beata gente Di più nobile mondo, il cor di queste, E il dominio del di, largo destina. Fors' anco un di più liberal confine Vostri diritti avran, se Amor più forte Qualche provincia al suo germano usurpa. Così giova sperar. Tu volgi intanto
A' miei versi l'orecchio; ed odi or, quale Cura al mattin tu debbi aver di lei, Che, spontanea o pregata, a te donossi Per tua Dama quel dì lieto, che a fida Carta, non senza testimoni, furo A vicenda commessi i patti santi E le condizion del caro nodo.
Già la Dama gentil, de' cui be' lacci Godi avvinto sembrar, le chiare luci Col novo giorno aperse; e suo primiero Pensier fu dove teco abbia piuttosto A vegliar questa sera; e consultonne Contegnosa lo sposo, il qual pur dianzi Fu la mano a baciarle in stanza ammesso. Or dunque è tempo, che il più fido servo E il più accorto tra i tuoi mandi al palagio Di lei, chiedendo se tranquilli sonni Dormio la notte, e se d'imagin liete Le fu Morféo cortese. E' ver, che jeri Sera tu l'ammirasti in viso tinta Di freschissime rose; e più che mai Vivace e lieta uscio, teco del cocchio; E la vigile tua mano per vezzo Ricusò sorridendo, allor che l'ampie Scale sali del maritale albergo. Ma ciò non basti ad acquetarti; e mai Non obliar si giusti ufici. Ahi quanti Genii malvagi tra 'l notturno orrore
Godono uscire, ed empier di perigli La placida quiete de' mortali!
Potria, tolgalo il cielo, il picciol cane Con latrati improvvisi i cari sogni Troncare a la tua Dama; ond' ella, scossa Da subito capriccio, a rannichiarsi Astretta fosse, di sudor gelato
E la fronte bagnando, e il guancial molle. Anco potria colui, che si de' tristi, Come de' lieti sogni è genitore, Crearle in mente, di diverse idee In un congiunte, orribile chimera; Onde agitata in ansioso affanno Gridar tentasse, e non però potesse Aprire a i gridi tra le fauci il varco. Sovente ancor ne la trascorsa sera La perduta tra 'l gioco aurea moneta, Non men che al Cavalier, suole a la Dama Lunga vigilia cagionar; talora Nobile invidia de la bella amica, Vagheggiata da molti; e talor breve Gelosía n'è cagione. A questo aggiugni Gl'importuni mariti, i quali in mente Ravvolgendosi ancor le viete usanze, Poi che cessero ad altri il giorno, quasi Abbian fatto gran cosa, aman d'Imene Con superstizion serbare i dritti, E dell'ombre notturne esser tiranni, Non senz' affarno de le caste spose, Ch'indi preveggon tra poch' anni il fiore De la fresca beltade a sè rapirsi.
Or dunque ammaestrato a quali e quanti Miseri casi espor soglia il notturno Orror le Dame, tu non esser lento, Signore, a chieder de la tua novelle. Mentre che il fido messaggier si attende, Magnanimo Signor, tu non starai, Ozioso però. Nel dolce campo Pur in questo momento il buon cultore Suda, e incallisce al vomere la mano, Lieto, che i suoi sudor ti fruttin poi Dorati cocchi e peregrine mense. Ora per te l'industre artier sta fiso A lo scarpello, all' asce, al subbio, all'ago; Ed ora a tuo favor contende o veglia Il ministro di Temi. Ecco, te pure, Te la toilette attende : ivi i bei pregi De la natura accrescerai con l'arte; Ond' oggi, uscendo, del beante aspetto Beneficar potrai le genti, e grato Ricompensar di sue fatiche il mondo (b). Ma già tre volte e quattro il mio Signore Velocemente il gabinetto scorse Col crin disciolto e su gli omeri sparso;
Quale a Cuma solea l'orribil maga, Quando agitata dal possente Nume Vaticinar s'udía. Così dal capo Evaporar lasciò de gli olii sparsi Il nocivo fermento, e de le polvi, Che roder gli potrien la molle cute, O d'atroce emicrania a lui le tempia Trafigger anco. Or egli, avvolto in lino Candido, siede. Avanti a lui lo specchio Altero sembra di raccor nel seno L'imagin diva; e stassi a gli occhi suoi Severo esplorator de la tua mano, O di bel crin volubile architetto. Mille dintorno a lui volano odori, Che a le varie manteche ama rapire L'auretta dolce, intorno a i vasi ugnendo Le leggerissim' ale di farfalla.
Tu chiedi in prima a lui, qual più gli aggrada [do Sparger sul crin: seil gelsomino, o il bion- Fior d'arancio piuttosto, o la giunchiglia, O l'ambra, prezïosa a gli avi nostri. Ma se la Sposa altrui, cara al Signore, Del talamo nuzial si duole, e scosse Pur or da lungo peso il molle lombo; Ah! fuggi allor tutti gli odori, ah! fuggi, Chè micidial potesti a un sol momento Più vite insidïar. Semplici siéno
I tuoi balsami allor; nè oprarli ardisci Pria che su lor deciso abbian le nari Del mio Signore, e tuo. Pon mano poscia Al pettin liscio, e coll'ottuso dente Lieve solca i capegli; indi li turba Col pettine e scompiglia: ordin leggiadro Abbiano al fin da la tua mente industre.
Io breve a te parlai; ma, non pertanto, Lunga fia l'opra tua; nè al termin giunta Prima sarà, che da più strani eventi Turbisi e tronchi a la tua impresa il filo. Fisa i lumi a lo speglio; e vedrai quivi Non di rado il Signor morder le labbra Impaziente, ed arrossir nel viso. Sovente ancor, se artificiosa meno Fia la tua destra, del convulso piede Udrai lo scalpitar breve e frequente, Non senza un tronco articolar di voce; Che condanni e minacci. Anco t'aspetta Veder talvolta il mio Signor gentile Furiando agitarsi; e destra e manca Porsi nel crine; e scompigliar con l'ugna Lo studio di molt' ore in un momento. Che più? Se per tuo male un di vaghezza D'accordar ti prendesse al suo sembiante L'edificio del capo, ed oblïassi
Di prender legge da colui, che giunse [re, Pur jer di Francia: ahi quale atroce folgo- Meschino! allor ti pendería sul capo! Chè il tuo Signor vedresti ergers' in piedi ; E versando per gli occhi ira e dispetto, Mille strazi imprecarti ; e scender fino Ad usurpar le infami voci al vulgo, Per farti onta maggiore; e di bastone Il tergo minacciarti; e violento Rovesciare ogni cosa, al suol spargendo Rotti cristalli e calamistri e vasi E pettine ad un tempo. In cotal guisa, Se del Tonante all'ara, o de la Dea Che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo, Tauro spezzava i raddoppiati nodi, E libero fuggía, vedeansi al suolo Vibrar tripodi, tazze, bende, scuri, Litui, coltelli; e d'orridi muggiti Commosse rimbombar le arcate volte; E d'ogni lato astanti e sacerdoti Pallidi all'urto e all'impeto involarsi Del feroce animal, che pria sì queto Gía di fior cinto, e sotto a la man sacra Umiliava le dorate corna.
Tu non pertanto coraggioso e forte Soffri, e ti serba a la miglior fortuna. Quasi foco di paglia è il foco d'ira In nobil cor. Tosto il Signor vedrai Mansuefatto a te chieder perdono; E sollevarti oltr' ogni altro mortale Con preghi e scuse, a niun altro concesse ; Onde securo sacerdote allora l'immolerai, qual vittima, a Filauzio, Sommo nume de' Grandi; e, pria d'ognal- Larga otterrai del tuo lavor mercede. [tro, Or, Signore, a te riedo. Ah! non sia colpa Dinanzi a te, s'io travïai col verso, Breve parlando ad un mortal, cui dêgni Tu degli arcani tuoi. Sai, che a sua voglia Questi ogni di volge e governa i capi De' più felici spirti; e le matrone, Che da' sublimi cocchi alto disdegnano Volgere il guardo a la pedestre turba, Non disdegnan sovente entrar con lui In festevoli motti, allor ch' esposti A la sua man sono i ridenti avorii Del bel collo, e del crin l'aureo volume. Perciò accogli, ti prego, i versi miei Tuttor benigno; ed odi or, come puossi L'ore a te render grazïose, mentre Dal pettin creator tua chioma acquista Leggiadra, o almen non più veduta forma.
Picciol libro elegante a te dinanzi Tra gli arnesi vedrai, che l'arte aduna
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