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parte dell' impero non prevalesse, non perchè calesse loro delle libertà e franchigie de' Comuni, ma perchè ne veniva abbassata la loro potenza, ed infrenata l'ambizione di viepiù estenderla. Clemente IV, di nazione francese, eletto papa sul principio del 1265, nemico come gli altri suoi predecessori della famiglia sveva, offerse (quasichè i troni della terra fossero stati suoi) la corona di Puglia e di Sicilia a Carlo d'Angiò conte di Provenza, e dichiarò crociata la guerra, che costui, ambizioso di conquistare il regno, mosse ben tosto a Manfredi. Passando per Lombardia, Romagna, le Marche e pel ducato di Spoleto, poichè non avrebbe potuto per Toscana occupata da' Ghibellini, giunse Carlo a Roma, e nel 6 gennaio del 1266 prese la corona, e coi suoi Provenzali, e con una squadra di 400 prodi cavalieri guelfi, ch' erano degli esuli di Firenze, entrò subitamente nel regno. A Benevento nel 26 febbraio si attaccò fra i due re la memorabil battaglia, nella quale Manfredi perse la vita.

Venuto così nobil reame in potere di Carlo, il quale (com'era ben naturale) serbavasi amico al pontefice, la parte guelfa cominciò a rialzare, abbassando quella de' Ghibellini. Già il popolo di Firenze mostrava desiderio di cose nuove, e cominciava a fare assembramenti, precursori di prossimi disordini, quando coloro che reggevano la repubblica credettero d' ovviare a questo inconveniente, proponendo che a riformare il governo in modo equo per ambe le parti, si chiamassero uomini che non fossero più ghibellini che guelfi. Era da poco innanzi cominciato in Italia un ordine di cavalieri di Santa Maria, detti frati gaudenti, i quali faceano professione di proteggere le vedove e i pupilli, e d'intromettersi fra i nemici a far pace. Due di costoro chiamaron dunque a Firenze, e furono Loderingo degli Andalò Catalano de' Malavolti, ambedue bolognesi; e ad essi, siccome a due potestà, diedero in mano il governo. Forse le intenzioni loro furon buone, quantunque il nostro Poeta li cacci nell' Inferno fra gl' ipocriti ; ma le novità che per essi furono nel governo introdotte, e particolarmente quella di dare alle corporazioni

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DANTE. Vita.

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delle sette arti (che poi furon dette maggiori) un console e un capitano col gonfalone, fecero sì che il potere del popolo, che intimamente era guelfo, montasse tropp' alto, e non pótesse più esser tenuto in bilancia da quello de' nobili, che generalmente erano ghibellini. Questi pertanto, vedendo il pericolo a cui si trovavano esposti, stimolarono tanto il conte Guido Novello da Poppi, capitano della taglia ghibellina, mostrandogli come sarebb' egli stato il primo ad esser tagliato a pezzi, che egli mandò ordine a' confederati che fornissero le genti di che eran in obbligo. Millecinquecento cavalieri giunsero in breve in Firenze, che uniti ai seicento Tedeschi che stavano col capitano, e aiutati dalle forze delle famiglie ghibelline, fra cui principali erano secondo il solito i Lamberti e gli Uberti (Farinata era morto), fecero una massa di genti considerevole. Vennero dunque alle mani; ma dal serraglio, ch' erasi fatto presso le case de' Tornaquinci, difendendosi il popolo bravamente, fu preso il conte da timore, nè dando ascolto ad alcun conforto che gli fosse dato, lasciò vilmente l'impresa. Il popolo si mostrò questa volta assai moderato, poichè data licenza a' due frati, e chiamati due Orvietani ad esercitar l'uno l' officio di potestà, l'altro di capitano, riammise nel principio del 1267 tutti i fuorusciti di qualunque parte si fossero; e paci e nozze e feste rallegrarono per alquanti giorni la città. Ma di breve durata fu l' allegrezza e la pace: chè i più notevoli tra' Guelfi, amando più sè che la patria, e non comportando di vedersi negli ufficii pubblici accomunati coi Ghibellini, con atto che sente a un tempo di viltà e di perfidia, andarono a re Carlo rappresentando che, se egli avesse voluto mandare a Firenze una mano di suoi soldati, la parte ghibellina sarebbe rimasta in tutto abbattuta, ed essi avrebbon dato opera ch' ei fosse nominato signore della città. Il quale considerando di quanta importanza fosse l'aver amicizia con altri potentati d'Italia, senza por tempo in mezzo mandò a Firenze il conte Guido di Monforte con ottocento cavalieri francesi. Gli sventurati Ghibellini sentendo questa venuta, e considerando che, quand' an

che avessero resistito al primo assalto, non avrebbon potuto resistere al secondo, dacchè grande era la potenza del re, e più grande aveala fatta la vittoria contro Manfredi, la notte precedente alla Pasqua di resurrezione, in che giunse la squadra francese, abbandonarono tutti la città.

Adunque Carlo fu gridato signore di Firenze per dieci anni, ed egli vi mandò d' anno in anno suoi vicarii a governarla, insiem con dodici cittadini, deputati a ciò dal Comune, e chiamati buonuomini, i quali esercitavan press' a poco quell'officio stesso, che poc' anzi gli anziani. Ma i Ghibellini, riavutisi dal primo sbigottimento, non si dieron per vinti, e nel contado presero a fare aspre guerricciuole, delle quali la più ostinata fu quella sostenuta dal castello di Poggibonzi, per vincere il quale fu d'uopo di tutto lo sforzo di Carlo medesimo, che a tale oggetto nell' agosto del 1267 recossi in Toscana. Pure caduto Poggibonzi, ecco che nuova speranza ai Ghibellini rifulse. Corradino, figlio di Corrado e nipote a Manfredi, ardendo di riconquistare quel regno che (com'egli dicea) il conte di Provenza aveagli usurpato, moveva alla volta d'Italia. Giunse infatti a Trento, e di là per Verona e Pavia calossi alla riviera di Genova; donde imbarcatosi venne del mese di maggio 1268 a Pisa. Da Pisa, rifiutata la battaglia, cui verso Lucca pareva l' invitasse l'esercito de' Guelfi toscani, mosse alla volta di Siena, ove giunse in breve passando per Poggibonzi, che, rompendo i patti fatti con re Carlo, gli aperse le porte. Da Siena proseguendo il viaggio, e distruggendo per via, a Laterina, un corpo di soldati francesi, che gli s' era posto alla coda, giunse a Roma, e poi a' confini del regno; ma a Tagliacozzo negli Abruzzi, attaccata il 23 d'agosto battaglia con Carlo, vincitore dapprima, restò alla fine perdente, più per l'astutezza del cavaliere Alardo di Valleri, che pel valore dell' esercito francese: 20 ed egli stesso, lo sventurato giovinetto, venne a man del nemico. Il quale, consultato papa Clemente, ed avutone in risposta: vita Corradini mors Caroli, mors Corradini vita Caroli, il fece decapitare sulla piazza del mercato di Napoli:

atto barbaro e feroce, e solo degno di quel provenzale orgoglioso e superbo.

Piena fu allora la preponderanza del partito guelfo, al quale per amore o per forza si ridussero bentosto tutte le città di Toscana, tranne Pisa e Siena, ed altresì qualche castello, come quello di Poggibonzi. Del quale volendo i Fiorentini vendicarsi per la rotta fede, mandaron genti a dare il guasto al paese e i Sanesi, venuti a liberare i loro vicini da quella molestia, restarono pienamente sconfitti in vicinanza di Colle, lasciandovi morto Provenzano Salvani, loro principale cittadino e condottiero. Ciò avvenne nel luglio del 1269. Gregorio X, transitando nel 1273 per Firenze, s' adoperò perchè fra' Ghibellini e i Guelfi si facesse pace; e già da' rettori della città n' avea ricevuto formale promessa, quand' essi minacciando di morte i legati de' Ghibellini, che a tal uopo s'eran recati a Firenze, e costringendoli a dileguarsi, ruppero bruttamente la data fede: onde il papa tutto sdegnato lasciò incontanente la città, lanciandole contro l'interdetto. Nè da questo la prosciolse nemmen quando due anni appresso tornando dal concilio di Lione ripassò per essa, accresciutasi in lui l'indignazione per avere i Fiorentini senza giusta cagione assaliti i Pisani: ond' eglino si doveron perciò restare sotto le censure ecclesiastiche sino a che non fu fatto pontefice Innocenzio V, cioè sino al principio del 1276. Niccolò III, successore di lui, amando anch' egli che cessassero una volta le discordie in Firenze, vi mandò suo legato con amplissime facoltà il cardinal Latino Frangipani; il quale tanto s'adoperò, che ne' primi mesi del 1280 la pace e la concordia, non solamente tra Guelfi e Ghibellini, ma eziandio tra alcune famiglie guelfe che avean preso ad osteggiarsi, fu finalmente fermata. Al governo della città invece di dodici Buonuomini ne furon messi quattordici, otto guelfi e sei ghibellini, sotto un capitano del popolo.

Ma ai Guelfi non potea uscir dell'animo la gelosia per tanto tempo nutrita inverso i Ghibellini, e parea loro che, per la forma data al governo dal cardinal Latino, avessero

troppa parte nelle pubbliche faccende. Il perchè nel 1282 vollero che il governo della repubblica risedesse in sei cittadini (uno per seștiere) detti priori delle arti, così chiamati, perchè a quell' ufficio non potea venir eletto chi alle arti non appartenesse, o non si fosse ascritto: dalla qual nuova forma di governo venne ad alterarsi notevolmente quella della cittadinanza, confondendosi e mescolandosi gli ordini, sì perchè molte famiglie nobili si fecion di popolo, affine di poter partecipare al reggimento; si perchè molte cambiaron di nome e di stemma; e sì perchè altre pure ne vennero di contado o a farsi di popolo anch' esse, o a formare una novella nobiltà allato all' antica. La qual confusione degli ordini civili disapprova pure il nostro Poeta dicendo (Paradiso, canto XVI, v. 67):

Sempre la confusion delle persone

Principio fu del mal della cittade,

Come del corpo il cibo che s'appone.

Nonostante che l'isola di Sicilia si fosse ribellata a Carlo ne' famosi vespri siciliani, e si fosse data al re Pietro d'Aragona, e nonostante che Carlo, combattendo per ricuperarla, fosse stato sconfitto, pure il partito guelfo non veniva punto rimettendo della sua animosità, poichè i Fiorentini, veduto l'abbassamento de' Pisani dopo l'infausta battaglia della Meloria, si diedero a formare una lega ad esterminio di essi : pericolo peraltro in che i Pisani non incorsero, mediante gli artifizii usati dal conte Ugolino della Gherardesca per istornarlo. Ma morto Carlo, ed il suo figlio maggiore trovandosi prigione del re Jacopo d' Aragona, e altresì vacando la sede pontificia, i Ghibellini rialzarono alquanto la testa; e impadronitisi d'Arezzo, ne diedero la signoria al vescovo Guglielmo degli Ubertini, schietto Ghibellino, ed atto più a maneggiare la spada che il pastorale. Il quale non contento di signoreggiare quell' importante città, e di essersi assicurato con la confederazione di tutti coloro, che teneano parte ghibellina in Toscana, si volse eziandio agli appoggi di fuori, e

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