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Dante e Virgilio.

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Al canto quarto dell'Inferno 11) è descritta la dimora eternale dei savii e degli eroi, quale, nelle Stanze Vaticane, Raffaello dipinge la scuola d'Atene.

Entro la magnificenza delle architetture, sull'ombrata prateria, procede. Ed IN LOCO APERTO, LUMINOSO « ED ALTO » Sosta la nobile schiera dei virtuosi non nati alla fede cristiana, rassegnati alla più inquietudine del << desìo senza speranza ».

Un tacito accoramento accompagna, nel pacato aere, i pensieri solenni: «E DISÌAR VEDESTE SENZA FRUTTO TAI CHE SAREBBE LOR DISÌO QUETATO, CH'ETERNALMENTE È DATO PER LOR LUTTO. IO DICO D'ARISTOTILE E DI PLATO E DI MOLT'ALTRI... E RIMASE TURBATO ».

Così parla in Virgilio la penetrante tristezza dell'irreparabile, quando l'onesto pensiero corre allo stato felice, incolpevolmente non raggiunto.

Una meditabonda gravità sovrasta a questi antichi.

Le ombre illustri dei poeti maggiori accolgono Dante con « SALUTEVOL CENNO », ammettendolo nella loro schiera. Virgilio, paternamente, se ne compiace: E IL MIO MAESTRO

SORRISE DI TANTO ».

La scena ha la prestanza delle cose indefinibili; l'imponenza magnanima sentita da Raffaello in queste terzine che risuonano dal profondo dei secoli, spandendo le blandizie di un'estetica religiosa: « COSÌ VIDI ADUNAR LA BELLA SCUOLA DI QUEL SIGNOR DELL'ALTISSIMO CANTO, CHE SOVRA GL'ALTRI, QUAL AQUILA VOLA ».

1) Inf., iv, 70-150.

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Al xxi canto del Purgatorio, non più Raffaello. Goldoni. Vengono in mente le scene del Ventaglio, nei momenti che col dialogo al proscenio, si incrociano le strizzatine d'occhi, le spinte di curiosità, gli accenni maliziosi della controscena. Nel salire al Paradiso terrestre, Virgilio e Dante incontrano Stazio, un poeta latino del primo secolo, cantore della odiosa storia di Edipo e di Giocasta, nato sessant'anni dalla morte di Virgilio.

Stazio ignora il nome dei due estemporanei compagni, ma, ciarliero ed espansivo per la contentezza di aver fornito al Purgatorio il suo scotto di pentimento, esce ne' fatti suoi e dice della « DIVINA FIAMMA » che gli si accese in leggere Virgilio, soggiungendo con entusiasmo che per esser vissuto di là al tempo di questi, si sarebbe fatto contento di una più lunga dimora costaggiù. Qui, s'indovina la istintiva mossa di Dante; ma Virgilio fa cenno che stia zitto; Dante, involontariamente, sorride. Stazio lo sorprende e se ne sconcerta; Virgilio se la gode e finisce che Stazio si butta per abbracciar Virgilio che è ombra e, ombra egli stesso, passano a traverso l'uno dell'altro 1).

Raffaello e Goldoni: divina commedia.

Divina incominciò a dirla Boccaccio e tutti dopo di lui. Commedia la intitolò Dante, come quella che all'aspro incominciare fa seguire il lieto fine, a differenza della tragedia che termina in catastrofe; quale, nell'Eneide il colpo d'asta che abbatte Turno. « Così CANTA LA MIA TRAGEDIA IN ALCUN LUOGO; BEN LO SAI TU CHE LA SAI TUTTA QUANTA », dirà Virgilio, per farci sapere che Dante l'aveva a mente.

Il fine della Commedia è tanto lieto, da sublimarsi in gloria di amore e Dante vi adopera quel volgare, dice lui << TROVATO PER DIRE D'AMORE »; ed ei lo fece illustre ed è davvero e tutta la nostra lingua.

Commedia, adunque, la quale colorisce la interna gravità del pensiero con i mutevoli aspetti del patetico o del comico, spontaneamente emergenti; e ne adorna la dignità

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famigliare e buona. Condiscendente, un poco melanconica; propria di coloro che sono lungamente vissuti e molte cose videro: per ciò tanto sanno indulgere, avendo prossimo sentore del di là; la patriarcale bonomia dell'amabile vecchietto, come nei personaggi goldoniani che, a detta di Manzoni, fanno sorridere e si fanno benvolere.

Dopo il vuoto abbraccio, i due romani discorrono. Virgilio già sapeva dell'ammirazione di Stazio; ma nulla più; e neanche della sua conversione al cristianesimo 1).

Stazio, che ha carpito il Paradiso, finisce in una triste figura, nel cospetto di questa brava gente.

Come gli sia riuscito di cavarsela con qualche anno di Purgatorio, male si spiega. Costui fece il sornione e fu codardo. Lo dice da sè, tanto è svergognato: PER PAURA, CHIUSO CRISTIAN FUMMI ». E tace il meglio: che imperversava Domiziano ed egli questuava le buone grazie dell'imperatore, adulandone la maestà serena, il mite sguardo e lodandone le felici imbandigioni: mihi felices epulas mensæque dedisti ». Questo Publio Papinio Stazio, co' suoi tre nomi, mi piace poco. Oh, davvero: tre nomi e parecchie faccie, è roba che si trova facilmente in commercio; roba vendereccia: coi nomi, le faccie e le svariatissime coccarde.

« Tenni per ancòra d'ogni burrasca da dieci a dodici coccarde in tasca. Quante cadute, si son vedute! Ma capofitti cascaron gli asini; noi, valentuomini siam sempre ritti... 2) », ad eccezione del collo che tengono torto e del parlare fra il ti vedo e non ti vedo, serpeggiante dalla loggia alla sacristia. E quando proprio occorre dire « si o no scappano. Robaccia.

Dante deve essere rimasto male a trovarsi fra piedi questo rifiuto dell'inferno; nè gli dimostra gran premura; anzi, giunto in Paradiso e fuor della soggezione di Virgilio, più non ci bada. Nel frangente, lo supporta, perchè Virgilio ne ha l'onore di profeta. Col suo cenno: « QUANDO

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DICESTI SECOL SI RINNOVA! » Stazio alluse ad una notissima egloga virgiliana, che ebbe fama di aver annunziato la nascita di Gesù.

Vediamone:

L'ultima giunge delle etadi, quella che la Sibilla profetò di Cuma; or nasce già, dei secoli dal grembo, un nuovo e grande ordine di fati. Già la Vergine appar. Saturnii tempi muovon dall'alto ciel nuova progenie col nascente fanciul, che d'auree genti, non più di ferro, farà lieto il mondo. Per te, fanciul, disperse le vestigia saranno del peccato. Iddii, eroi alla tua culla pronubi staranno della da te largita pace all'orbe. Rintuzzato il velen, morto il serpente, oh, veh felici l'epoche future!

Che se di nostra prima colpa antica, traccia n’avanzi sì che l'uomo torni su navi a ritentar, oppur da mura di munite città prove di guerra; se un altro Achille ad un altr'Ilio accorra, la triste età tu, fatto uomo, chiudi, di Celesti, o progenie. Allor le Parche trarran su gli anni di concordia i fili.

Ed or apprendi, o fanciullin, dal riso a conoscer la madre; ed a me tanto spirto conceda ancor l'ultima vita, che i tuoi fasti onorar possa 'l mio canto.

Questi, sono i luoghi più significativi dell'egloga famosa; e li ho messi insieme cercando di seguire la lettera; ma Virgilio non si traduce senza profanare l'espressivo vigore di arte, la seducente infiltrazione del verso, dove pensieri ed imagini cantano sulle parole in accenti di sirena.

Ad ogni modo, ecco un inconsapevole pagano, che, intorno al neonato di un suo protettore, chiama a raccolta l'Olimpo. E la Vergine, per lui significa probabilmente Astrea: la giustizia; il primo peccato è forse il fratricidio di Romolo. Ma è pur vero che la remota Palestina prepara intanto l'avvento del fanciullo, della celeste progenie.

Inconscie o meditate, qui aleggiano parole del Mistero che preoccupa allora i pensierosi, presaghi di un imminente, formidabile svolto di storia.

Anche i due ciechi del vangelo di Mattia si accorsero che Gesù passava: « Et audierunt quia Jesus transiret ».

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