Sayfadaki görseller
PDF
ePub

Il sentimento della vendetta in Dante.

Il poema di Dante è la grande epopea della vita umana; ma, in particolar modo, rimane l'epopea del Medio Evo, che tutto in quelle eterne pagine rivive, nella sua torbida storia, nella sua fervida fede, nelle sue paurose superstizioni e fantastiche leggende, nelle sue lotte e nelle sue passioni, in tutta la sua vita, con tutta la sua coscienza.

L'uomo che inizia un'êra nuova nella storia della lingua, dell'arte, del pensiero e della vita nazionale, che in sè e nell'opera sua riassume il passato e schiude le porte all'evo moderno, si rivela pur sempre il fedele interprete del suo tempo, il figlio del suo secolo, di cui conserva il precipuo carattere e quindi anche le debolezze, gli errori, le colpe. E poichè nella prima cantica particolarmente vibra la grande anima passionale del poeta ed ivi specialmente egli trasporta e riflette i suoi tempi, le agitazioni e le lotte del suo spirito, è naturale che in essa, meglio che nel Purgatorio e nel Paradiso, si agiti e viva il fiorentino del Trecento, nella sua parte più umana, più reale, più drammaticamente vera.

Anima profondamente cristiana, fervente della fede più salda e sincera, che tutta l'arte sua ispira alle più sublimi idealità religiose, ossequente ai dogmi e ai precetti della Chiesa, cui venera come santa e divina, mentre pur persegue e fieramente condanna le vergogne di alcuni indegni vicari di Cristo, Dante dimostra tuttavia di dimenticare la pia massima dell'Evangelo - da lui stesso ricordata ed espressa nella mistica voce « Amate da cui male aveste », celebrante sulla cornice degli invidiosi esempi di carità fraterna - quando, cedendo alla passione dei tempi, gli erompe dall'animo, nella sua implacabile ferocia, il sentimento della vendetta.

Considerato sotto questo particolare aspetto, Dante non ci appare invero gran che migliore dei fiorentini del suo secolo, per quanto egli così superbamente disdegnasse e rinnegasse i deplorevoli costumi de' suoi malvagi concittadini da designare con fiero orgoglio se medesimo florentinus natione, non moribus. Questo singolare atteggiamento del suo spirito, questo sentimento, che in lui pure dominava così potente, della vendetta giusta e doverosa, imposta dalle leggi umane e permessa non solo, ma quasi voluta e prescritta da Dio, dovette indubbiamente, per non piccola parte, fornire ispirazione a Dante nell'immaginare le pene eterne dei dannati ed i castighi espiatori del purgatorio.

Il Medio Evo aveva notevolmente alterato il primitivo concetto della religione di Cristo e di un dio di pace, di grazia infinita, di amore aveva fatto, nelle età più fervidamente ascetiche e più ciecamente fanatiche, un dispensatore inesorabile di spaventosi, inenarrabili tormenti. Con la descrizione e rappresentazione terribile, raccapricciante dei castighi da Dio inflitti ai malvagi gli asceti ed i predicatori dei secoli di mezzo si proponevano appunto, come ci è dimostrato dagli esempi, di cui si valeva fra Jacopo Passavanti, di distogliere gli uomini dal peccato, di suscitare ne' cuori l'orrore delle vanità mondane, delle tentazioni terrene e delle umane colpe.

Il concetto stesso della divina giustizia viene, il più delle volte, da Dante espresso con la parola vendetta, sebbene essa possa sembrare assai poco conveniente a designare quella somma bontà, cui pure, sui balzi dell'Antipurgatorio, l'anima di Manfredi, non ostante i suoi orribili peccati, con tanta e così soave riconoscenza, confessa di dovere la sua salvezza (Purg., III, 122-23):

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei 1).

1) Nelle citazioni della Commedia avvertiamo di seguire il testo critico della Società Dantesca Italiana, a cura di Giuseppe Vandelli. - Firenze, Bemporad, 1921.

Così per citare soltanto alcuni luoghi tra i molti – nella sesta valle di Malebolge, dopo d'avere con raccapriccio contemplato la metamorfosi di Vanni Fucci, il ladro di Pistoja, che, nella gola trafitto da un serpente, s'accende e si riduce in cenere, la quale tosto si raccoglie per restituirgli le sembianze umane, il poeta erompe in quest'esclamazione (Inf. XXIV. 119-120):

Oh potenza di Dio, quant'è severa,

che cotai colpi per vendetta croscia!

Nella seguente bolgia de' consiglieri frodolenti, alla domanda di Dante che desiderava sapere quali spiriti si trovassero avvolti e chiusi in quella fiamma cornuta, che si moveva per la gola del fosso, Virgilio risponde (xxvi. 55-57): Là dentro si martira

Ulisse e Diomede, e così insieme

a la vendetta vanno come a l'ira;

a significare che, come i due eroi omerici con tante scellerate imprese avevano insieme provocato l'ira di Dio, così si trovavano ora accomunati e congiunti nella pena loro inflitta dalla divina giustizia.

Tra gli esempi di umiltà esaltata che, nel primo girone del Purgatorio, le anime dei superbi, avanzando curve sotto i gravi macigni, sono costrette ad ammirare, con mirabile arte divina effigiati sul suolo, rifulge particolarmente la gloria di Traiano, magnificato nella sua carità magnanima di commuoversi alle lagrime della vedovella, da lui implorante vendetta per il figlio ucciso; ed anche qui vendetta suona come giustizia, onde il mite imperatore soggiunge a quella madre <di lacrime atteggiata e di dolore» (Purg. x. 91-93):

Or ti conforta, ch'ei convene

ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene.

Ugo Capeto, dopo la fiera rampogna rivolta a' suoi corrotti ed indegni discendenti, invoca su di essi il castigo di Dio con le parole (Purg. xx. 94-96):

O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,

fa dolce l'irá tua nel tuo secreto?

In questo medesimo girone, dopo aver osservato la pena riservata agli avari, distesi bocconi al suolo con le mani e i piedi legati, il poeta si conduole « a la giusta vendetta » (XXI. 6); e la medesima espressione ritroveremo ancora in non pochi luoghi del Paradiso, come, ad esempio, là ove, nel cielo di Mercurio, Beatrice spiega la duplice natura di Cristo e la ragione della morte di Lui, che fu giustizia espiatrice, in quanto Egli era uomo, ed, in pari tempo, offesa somma all'unigenito figliuolo di Dio (Par. vii. 49-51):

Non ti dee oramai parer più forte,
quando si dice che giusta vendetta
poscia vengiata fu da giusta corte.

La vendetta di Dio! Anche per Donato Velluti, l'autore della Cronica domestica, per citare qualche altra testimonianza sincrona, vendetta è la giustizia divina; e così per tutto il Trecento. Non altrimenti dimostra di intendere lo stesso Boccaccio, là dove scrive: vendetta daddovero da lasciarsi fare al nostro Signore Iddio (Decam. viii. 7).

Ma, lasciando per ora di discorrere del concetto della divina giustizia, quale si rivela in Dante, conformemente all'indole de' suoi tempi, vediamo piuttosto di analizzare quel particolare sentimento di vendetta privata e personale che anima ed accende il poeta in parecchi episodî della Commedia, sentimento che, più di una volta, viene da lui liberamente manifestato ed espresso senza scrupoli e senza riguardi, con la massima sincerità e schiettezza, ritraendo tutta la passione potente ed irrefrenabile che gli trabocca dal cuore.

Dante è anzitutto un potente soggettivista; l'anima sua, sovrabbondante di vigorìa ottimamente già ebbe a notare

[ocr errors]

il Cipolla 1) si trasfonde volentieri all'esterno e tanta è la forza dello spirito del poeta che investe tutte le cose, in cui gli accade di incontrarsi; la soggettività di Dante si rivela e si tradisce in tanti luoghi della Commedia e persiste a dispetto di quella stessa serena ed imparziale oggettività che << il cantore della rettitudine » si propone. Egli è un grande giustiziere che, erigendosi ad interprete e quasi ministro della giustizia divina, giudica e manda» al pari del suo Minosse, personaggi antichi e contemporanei, come, d'altra parte, assolve od esalta spiriti variamente giudicati od anche dalla comune opinione palesemente condannati, riserbandosi la piena sovranità di quel mondo evocato dalla sua possente fantasia ed obbedendo non di rado a criterii assolutamente personali, ad impulsi non sempre ragionevoli, nè encomiabili.

[ocr errors]

Così Francesca e Paolo sono bensì dannati dalla divina giustizia, ma non già, si direbbe, dal poeta, nel cui cuore vibrava tanto senso di umanità; la sua mal celata simpatia e pietà per la moglie colpevole di Gianciotto Malatesta potè, pertanto, ad alcuno sembrare ingiusta ed eccessiva, nè par temerario affermare che, ove essa non fosse stata violentemente spenta dal pugnale del tradito consorte, forse l'ospite riconoscente di Guido Novello da Polenta, colui che alla corte di Ravenna trovò l'ultimo e più sicuro rifugio l'avrebbe collocata, accanto a Cunizza ed a Raab, nel cielo degli spiriti amanti.

Ma chi oserebbe chiedere al poeta ragione del suo giudizio? Pretendere dal poeta la serenità ed imparzialità che devono esser proprie dello storico sarebbe cosa vana e, per di più, irragionevole; sarebbe come voler rilevare le tante incoerenze e palesi contradizioni che nell'opera di Dante si riscontrano, quasi che nel libero campo dell'arte creatrice si dovesse esser tenuti a render conto rigoroso di quanto l'immaginazione produce. Se l'arte, in genere, e la poesia, in ispecie, dovessero essere con siffatti criterii intese e giu

1) CARLO CIPOLLA: Di alcuni luoghi autobiografici nella Divina Commedia in Atti dell'Accademia delle Scienze. Anno 1893.

« ÖncekiDevam »