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oltre a fare un lavoro, nuovo nell'ordine e nella forma, poteva farlo eziandio più esteso di quello che il Pelli stesso avrebbe potuto fare. Se adunque questo mio libro contiene tutto quello che il Pelli raccolse, tranne le cose evidentemente erronee, quelle di lieve importanza e le estranee al subietto, non è peraltro un lavoro modellato su quello di lui, o di qualunque altro biografo dell' Alighieri. Io non do una nuda raccolta di memorie, non do una vita del nostro Scrittore in quel largo significato che oggi suol darsi a titoli consimili, ma do una storia della vita di Dante, compilata sui documenti, e scritta (per quanto mi ha consentito l'ingegno) con quella critica, la qual si richiede in lavori siffatti. Certamente, che parlando d'un personaggio, che fu non solo sommo poeta, ma altresì illustre cittadino e sapiente magistrato, bisogna rappresentar l'uomo nel suo secolo; ma nella storia del secolo non dee l'uomo scomparire la sua figura, siccome la principale in un dipinto, dee campeggiare convenientemente, e non rimanere affogata dagli accessorii. Ond' è, che della storia de' secoli decimoquarto e decimoquinto ne pongo nel mio libro solamente quel tanto, che fa di mestieri a dar cognizione di quegli ordinamenti civili e di quelle cause, onde furon prodotti gli avvenimenti, dei quali o fu parte, o in mezzo ai quali trovossi involto il nostro Alighieri.

Scrivendo il Baldinucci la vita di Giotto, e riportando di quel grande artista alcuni minuti particolari, dà la ragione del suo operato con dire, esser egli stato sempre di parere, che ogni piccolissima appartenenza a memorie di uomini celebratissimi debba aversi in gran pregio. Così ho creduto dovere far io;

e così pure crederono dover fare altri biografi, quantunque ai minuti particolari della vita di Dante ne inframettessero alquanti, che nulla han che vedere

con esso.

Non ho voluto impacciarmi in questioni puramente letterarie: chè a mettersi in questo pelago vi sarebbe stato da empiere de' volumi; ma ho impreso ad esporre e risolvere le questioni storiche, non peraltro tutte, ma solamente quelle cui puossi a buon dritto dare un tal nome, perocchè molte non sono che o capricciosi enunciati, o deduzioni erronee. Mi sono studiato con ogni diligenza di riuscire storico fedele e senza parte; ed in quelle controversie antiche e moderne, che durano ancora intorno alcuni punti di questo argomento, io non ho portato alcun mio preconcetto, ma ho cercato risolverle in quel modo, che più parevami conforme a verità: ond' è che invito il lettore a non trascurare le illustrazioni a ciascun capitolo apposte, non essendo esse semplici citazioni, ma ampliazioni e schiarimenti delle controversie medesime.

Piacemi nutrir la speranza che, essendo oggi in tanta venerazione la memoria di questo grande Italiano, e studiandosi con tanto ardore e con tanta diligenza non solo la Divina Commedia, ma tutte le altre opere sue, possa incontrare nel pubblico un qualche favore questa storia della vita di lui.

Febbraio, 1861.

STORIA DELLA VITA

DI

DANTE ALIGHIERI.

CAPITOLO PRIMO.

Della stirpe di Dante e della sua nobiltà.
I Frangipani e gli Elisei.

L'origine delle antiche famiglie, eziandio delle più cospicue, è quasi sempre involta nelle incertezze e ne' dubbii, per difetto di memorie sicure e di documenti autorevoli. Varii biografi del nostro Poeta hanno creduto poter dire, che egli discendesse dalla nobilissima stirpe romana de' Frangipani, la quale fu nominata così per un atto generoso fatto da uno di essa in tempo di carestia, somministrando gratuitamente il pane alla plebe affamata.1 Ed aggiungono che uno di questa schiatta, appellato Elisone o Eliseo, e che diede quindi origine alla famiglia degli Elisei, portossi a Firenze insiem con quell' Uberto, che il buon Malispini racconta essere stato qua inviato da Giulio Cesare.3

Altri, non risalendo tant' alto, dicono che quest' Elisone o Eliseo venne qua con Carlo Magno, quando questo imperatore riedificò Firenze, da Attila re degli Unni distrutta.* Ma tutti questi racconti, come ben s'intende, son favole; perchè è

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falso che Giulio Cesare inviasse qua quèll' Uberto; è erroneo che Attila distruggesse Firenze, poichè non passò mai l' Appennino quegli che, non già la distrusse, ma la malmenò fu Totila re de' Goti; onde Carlo Magno non ebbe a riedificarla: bensì ampliolla, e le si mostrò benevolo.

Quello peraltro che vuolsi bene notare si è, che Dante stesso pregiavasi d'essere di famiglia nobile, e veramente credevasi discendere da uno di quei romani, che colonizzarono Firenze. Nel quindicesimo dell' Inferno, per bocca di Brunetto Latini, dic' egli di sè stesso:

La tua fortuna tanto onor ti serba,

Che l'una parte e l'altra avranno fame
Di te, ma lunge fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame

Di lor medesme, e non tocchin la pianta,
Se alcuna sorge ancor nel lor letame,
In cui riviva la sementa santa

Di quei Roman, che si rimaser quando
Fu fatto il nido di malizia tanta.

L'allusione qui è chiara: la pianta venuta su dal seme latino, e ch' ei non vuol che si tocchi dalle bestie fiesolane, cioè dai Fiorentini discesi da Fiesole, non è che lui stesso. E notisi anche il modo con che significa questo concetto, dal quale traspare chiaramente, andar egli altero della sua nobile origine. Nel sedicesimo del Paradiso, il tritavo di Dante Cacciaguida parla di sè stesso così:

Gli antichi miei ed io nacqui nel loco,

Dove si trova pria l'ultimo sesto

Da quel, che corre il vostro annual gioco.
Basti de' miei maggiori udirne questo:
Chi ei si furo, ed onde venner quivi,
Più è tacer, che ragionare onesto.

6

Il principio dell' ultimo sestiere, cioè di Por' san Pietro, era in quel punto della via odierna de' Calzaiuoli, donde per di sotto comincia il Corso, e per di sopra si va in Mer

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