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mo, che l'uomo fosse quello che prima parlasse. Ne cosa inconveniente mi pare il pensare, che così eccellente azione della generazione umana prima dall'uomo, che dalla femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primieramente il parlare da Dio, subito che l'ebbe formato. Che voce poi fosse quella che parlò prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto: ed io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, ovvero per modo d' interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e dalla ragione aliena, che dall' uomo fosse nominato cosa alcuna prima che Dio; conciò sia che da esso, ed in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazione dell' umana generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu; così è ragionevol cosa, che quello che fu davanti, cominciasse da allegrezza: e conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio, ma tutto in Dio, ed esso Dio tutto sia allegrezza, conseguente cosa è che'l prima parlante dicesse primieramente, Dio. Quindi nasce questo dubbio, che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu, devette esser a Dio je se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che pare contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio rispondemo, che ben può l'uomo aver risposto a Dio, che lo interrogava, nè per questo Dio aver parlato in quella loquela, che dicemo. Qual è colui, che dubiti, che tulte le cose che sono non si pieghino secondo il voler di Dio, da cui è fatta, governata, e conservata ciascuna cosa? E conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura inferiore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine; non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse? e perchè no? Laonde ed a questa, e ad alcune altre cose crediamo tale risposta bastare.

CAPUT V.

Ubi, et cui primum homo locutus sit.

Opinantes autem (non sine ratione tam ex superioribus, quam inferioribus sumpta), ad ipsum Deum primitus primum hominem direxisse locutionem, rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox, postquam afflatus est ab animante virtute, incunctanter fuisse locutum : nam in homine sentiri humanius credimus, quam sentire, dummodo sentiatur, et sentiat tamquam homo. Si ergo faber ille, atque perfectionis principium et amator, afflando, primum hominem omni perfectione complevit, rationabile nobis apparet, nobilissimum animal non ante sentire quam sentiri cœpisse. Si quis vero fatetur contra objiciens, quod non oportebat illum loqui, cum solus adhuc homo existeret, et Deus omnia sine verbis arcana nostra discernat, etiam ante quam nos; cum illa reverentia dicimus, qua uti oportet, cum de æterna voluntate aliquid judicamus, quod licet Deus sciret, imo præsciret (quod idem est quantum ad Deum), absque locutione conceptum primi loquentis, voluit tamen et ipsum loqui; ut in explicatione tantæ dotis gloriaretur ipse, qui gratis dotaverat. Et ideo divinitus in nobis esse, credendum est, quod actu nostrorum affectuum ordinato1 lætamur : et hinc penitus eligere possumus locum illum, ubi effutita est prima locutio: quoniam si extra paradisum afflatus est homo, extra; si vero intra, intra fuisse locum primæ locutionis convicimus.

1 Per atto ordinato de' nostri affetti intende quella misura e convenien

za, ch' è in ordine alla moralità delle azioni umane.

CAPITOLO V.

Dove, ed a cui prima l'uomo abbia parlato.

Giudicando adunque (non senza ragione tratta così dalle cose superiori, come dalle inferiori), che il primo uomo drizzasse il suo parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò subito, che fu dalla virtù animante ispirato: perciò che nell' uomo crediamo, che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito, e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio ed amatore, inspirando, il primo uomo con ogni perfezione compì, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sentito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni, che non era bisogno che l'uomo parlasse, essendo egli solo; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne; ora (con quella riverenzia, la quale devemo usare ogni volta, che qualche cosa dell'eterna volontà giudichiamo) dico, che avvegna, che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, nondimeno volle che esso parlasse; acciò che nella esplicazion di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea donato, se ne gloriasse. E perciò devemo credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto dei nostri affetti, ce ne allegriamo: e quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori la prima favella: perciò che se fu animato l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori: se der tro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare.

CAPUT VI.

Sub quo idiomate primum locutus est homo, et unde fuit auctor
hujus operis.

Quoniam permultis ac diversis idiomatibus negotium exercitatur humanum, ita quod multi multis non aliter intelliguntur per verba, quam sine verbis; de idiomate illo venari nos decet, quo vir sine matre, vir sine lacte, qui neque pupillarem ætatem, nec vidit adultam, creditur usus. In hoc, sicut etiam in multis aliis, Petramala civitas amplissima est, et patria majori parti filiorum Adam. Nam quicunque tam obscenæ rationis est, ut locum suæ nationis delitiosissimum credat esse sub Sole, huic etiam præ cunctis proprium vulgare licebit, idest maternam locutionem, præponere: et per consequens credere ipsum fuisse illud, quod fuit Adæ. Nos autem, cui mundus est patria, velut piscibus æquor, quamquam Sarnum' biberimus ante dentes, et Florentiam adeo diligamus, ut quia dileximus, exilium patiamur injuste, ratione magis, quam sensu, scapulas nostri judicii podiamus. Et quamvis ad voluptatem nostram, sive nostræ sensualitatis quietem, in terris amœnior locus, quam Florentia non existat, revolventes et poetarum, et aliorum scriptorum volumina, quibus mundus universaliter, et membratim describitur, ratiocinantesque in nobis situationes varias mundi locorum, et eorum habitudinem ad utrumque polum, et circulum æquatorem, multas esse perpendimus, firmiterque censemus, et magis nobiles, et magis delitiosas et regiones et urbes, quam Thusciam et Florentiam, unde sum oriundus et civis; et plerasque nationes, et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti, quam Latinos. Redeuntes igitur ad

1 Il dir che Pietramala, piccolo e povero paese della Romagna toscana, fosse una città vastissima e popolatissima, pare che fosse a' tempi di Dante un proverbio ironico, come è oggi quello di Peretola; per esempio: costui ha viaggiato molto;

ha visto anche Peretola.

2 Anche nelle Egloghe e nelle epi. stole, l'Arno è da Dante detto latinamente Sarnus. Così il Malespini dice che quando i Romani vennero qua con Silla, l'Arno chiamavasi Sarno.

CAPITOLO VI.

Di che idioma prima l'uomo parlò, e donde fu l'autore
di quest'opera.

Ora perchè i negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non sono altrimente intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che nacque senza mudre, e senza latle si nutri, e che ne pupillare età vide nè adulta. In questa cosa si come in altre molte, Pielramala è amplissima città, e patria della maggior parte dei figliuoli di Adamo. Però qualunque si ritruova essere di così disonesta ragione, che creda che il luogo della sua nazione sia il più delizioso che si trovi sotto il Sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio vulgare, cioè la sua materna locuzione, a tutti gli altri; e conseguentemente credere essa essere stata quella di Adamo. Ma noi, a cui il mondo è patria, si come a' pesci il mare, quantunque abbiamo bevuto acqua d'Arno avanti che avessimo denti, e che amiamo tanto Fiorenza, che per averla amata, patiamo ingiusto esiglio, nondimeno le spalle del nostro giudizio più alla ragione che al senso appoggiamo. E benchè secondo il piacer nostro, ovvero secondo la quiete della nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza; pure rivolgendo i volumi de' poeti e degli altri scrittori, nei quali il mondo universalmente e particularmente si descrive, e discorrendo fra noi i varii siti dei luoghi del mondo, e le abitudini loro tra l'uno e l'altro polo e'l circolo equatore, fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città essere più nobili e deliziose che Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilettevole, e più utile sermone, che gli Italia

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