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libro composto a difesa di spedizione contemporanea (la spedizione d'Arrigo); vale a dire, non sia un libro di circostanza, ma un libro che abbia tutto il carattere d'un lavoro teoretico, bene è stato dal Witte dimostrato. Ma se per gli argomenti da lui posti in campo si prova, che il libro è anteriore al 1310, non discende la conseguenza che sia pure anteriore al 1300, cioè anteriore non solo all'esilio di Dante, ma eziandio al suo priorato. Non starò qui a dir le ragioni, per le quali io credo non essere stato il Convito pubblicato da Dante prima del 1314; ma anco ammettendo col Witte che fosse pubblicato qualche anno innanzi, e convenendo con esso (nè qui v' ha principio di dubbio) che al Convito sia anteriore la Monarchia, non veggo la ragione per la quale non si possa a questo libro assegnare una data meno dal 1310 lontana di quello che il Witte vorrebbe. Ma dice il Witte la Monarchia dover esser anteriore anco al 1302, perciocchè in quest'anno essendo da papa Bonifazio stata pubblicata la bolla Unam Sanctam, il libro di Dante avrebbe dovuto essere una confutazione compiuta e salda delle ragioni addotte da sì eccelso avversario. Pure io osservo, che una confutazione diretta delle parole d'un pontefice non poteva convenire ad un buon cattolico com'era Dante, il quale, cominciando la battaglia contro coloro i quali, indotti da alcuno zelo inverso la Chiesa loro madre, la verità che qui si cerca non conoscono, protesta di voler usare tutta quella reverenza, la quale è tenuto usare il pio figliuolo inverso il padre, pio inverso la madre, pio inverso Cristo e la Chiesa e il pastore, e inverso tutti quelli che confessano la cristiana religione (III, 3). Dubita infatti lo stesso Witte, se l'autorità di papa Bonifazio avrebbe bastato a ritener Dante dalla dimostrazione delle sue idee. Ma come l'avrebbe ritenuto quand'egli avesse, com'ha di fatto, trattato teoricamente il subietto, rivolgendo i suoi argomenti e i suoi sillogismi contro i Decretalisti? E perchè v'era di mezzo una bolla, non poteva Dante, usando tutta la riverenza, siccom' egli protesta, confutare non direttamente il papa, ma in via di trattazione scientifica, le pretese de' cherici? Ma Dante, s' insisterà, avrebbe dovuto in un modo o in un altro confutare tutte e singole le ragioni da Bonifazio addotte. Ed io domanderò: era egli ciò necessario? era egli ciò indispensabile? E d'altra parte, se a Dante era ignota l'opera di san Tommaso, colla quale poteva sciogliere il nodo della questione, non poteva essergli ignota la bolla di Bonifazio? Ma il fatto si è che la bolla non gli era ignota; poichè nella Monarchia le allusioni ad essa non mancano, nè vi manca la confutazione del principio de' due gladii, portato in campo da Bonifazio: e questo

ch' io dico è tanto vero, che parve al Tosti, che Dante con quel suo libro non ad altro avesse mirato che a combattere quella bolla.

Nel pubblicare la Monarchia l'Alighieri, dice il Witte, sembra uno scrittore, il quale si presenti la prima volta al pubblico con un lavoro di qualche importanza, dicendo di sè stesso: Il nome mio ancor molto non suona. Ed infatti, generalmente parlando (il Witte prosegue), la Monarchia ci fa impressione di scritto meno del Convito maturo: il modo di ragionare è inceppato, e non privo di sofismi: l'autore cerca d'imporre al lettore mediante i nomi e il numero delle autorità

Veramente non saranno molti coloro, che di questo libro dell' Alighieri si formeranno un concetto, quale rispetto alle forme estrinseche se n'è formato il Witte, perocchè, riportandosi al secolo in cui fu scritto, ravviseranno in esso una dottrina non comune ed un acume non ordinario; e come tutti riconobbero il valore di Dante nelle scienze naturali, nelle mattematiche, nelle razionali e nelle teologiche, così da questo libro riconosceranno il valor suo nella civile filosofia. Donde vie più improbabile si renderà, che egli possa averlo dettato nella sua gioventù quando mancavagli, secondo che dice egli stesso nella Vita Nuova, quel corredo di scienza, che non s'acquista se non cogli anni, e con istudii continuati e severi. Le parole poi di Dante, acciocchè non fossi ripreso del nascoso talento, ho desiderio di dare a' posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri tentate, parmi che tutt'altro suonino che modestia e temenza propria di scrittor giovanile, e nella repubblica letteraria novello.

Comunque sia, a me par molto improbabile, che innanzi il 1300, quando Dante, conforme dice egli stesso, era guelfo,, quando per accomunarsi col popolo si faceva ascrivere all'arte degli speziali, quando ambiva e si procacciava gli officii civili della sua patria, guelfa siffatta, che Farinata esclamava (Inf. canto X, v. 83):

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egli impiegasse la sua penna in iscrivere un'opera, che, molto più che l'avere avversato la venuta di Carlo di Valois, gi avrebbe procurato le ire de' suoi concittadini. No: Dante non può aver rivolto le sue speculazioni politico-filosofiche alla scienza sociale, se non dopo aver passato una parte della sua vita in mezzo ai torbidi della sua patria ed alle contese

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delle fazioni. Nella storia delle scienze sociali (dice il Carmignani nella sua bella dissertazione sulla Monarchia) è "incontrovertibile il fatto, che le teorie politiche nacquero " sempre in circostanze, le quali spinsero l'ingegno umano "ad indagare per qual modo i diritti o dell' individuo o della " società possano mettersi in salvo da una forza che minacci » d'annichilarli e distruggerli. "Ammettendo anco che Dante nella sua gioventù, quando pure andava a Campaldino a combattere i ghibellini, ravvolgesse nella mente i principii della fazione imperiale, e verso quelli si sentisse inclinato; non parmi possibile ch'ei potesse allora professarli apertamente, e tanto meno scrivere un libro, in cui fino all' entusiasmo, come dice lo stesso Witte, riducendo que' principii a sistema di social convivenza, rovesciasse i fondamenti delle forme politiche della sua patria. E credibile e verosimile (dice il

Carmignani) che Dante, dichiaratosi contrario all'intervento " di straniero potere nelle cose pubbliche del suo paese, già " senza questo intervento felice e tranquillo, attribuisse le " commozioni che lo agitarono al parteggiare de' suoi con» cittadini per i due grandi poteri rivali, che sotto specie di protezione aspiravano a farsene arbitri e dominatori. " Era questa dualità che l' Alighieri voleva escludere; e reputando inevitabile e necessaria la forza d'uno de' due po» teri a comprimere le rivalità tra paese e paese, allora vi" vissime e micidiali, egli in questa veduta dichiaravasi per la monarchia universale. "

Deferente inverso le opinioni altrui, e pronto a ricredermi delle proprie, ove mi se ne mostri l'erroneità, io credo frattanto che la Monarchia sia stata scritta da Dante anteriormente al Volgar Eloquio, al Convito e alla prima cantica della Commedia, ma non già innanzi il suo esilio.

Fiorentino

SOPRA LA MONARCHIA DI DANTE,

TRADOTTA DA LUI DI LATINO IN LINGUA TOSCANA.

A BERNARDO DEL NERO ED ANTONIO DI TUCCIO MANETTI, Cittadini fiorentini.

Dante Alighieri per patria celeste, per abitazione fiorentino, di stirpe angelico, in professione filosofo-poetico, benchè non parlasse in lingua greca con quello sacro padre de' filosofi, interpetre della verità, Platone, nientedimeno in spirito parlò in modo con lui, che di molte sentenzie platoniche adornò i libri suoi; e per tale ornamento massime illustrò tanto la città fiorentina, che così bene Firenze di Dante, come Dante di Firenze si può dire. Tre regni troviamo scritti dal nostro rettissimo duce Platone: uno de'beati, l'altro de' miseri, e il terzo de' peregrini. Beati chiama quelli, che sono nella città di vita restituiti; miseri, quelli che per sempre ne sono privati; peregrini, quelli che fuori di detta città sono, ma non giudicati in sempiterno esilio. In questo terzo ordine pone tutti i viventi, e de' morti quella parte, che a temporale purgazione è deputata. Questo ordine platonico prima segui Virgilio; questo segui Dante dipoi, col vaso di Virgilio beendo alle platoniche fonti. E però del regno de' beati, de' miseri e de' peregrini, di questa vita passati, nella sua Comedia elegantemente trattò. E del regno de' peregrini viventi nel libro da lui chiamato Monarchia: ove prima disputa dovere essere uno giusto imperadore di tutti gli uomini; di poi aggiunge questo appartenersi al popolo romano; ultimo pruova che detto imperio dal sommo Iddio, sanza mezzo del papa, dipende. Questo libro composto da Dante in lingua latina, acciò che sia a' più de' leggenti comune, Marsilio vostro, dilettissimi miei, da voi esortato, di lingua latina in toscana tradotto a voi dirige; poichè l'antica nostra amicizia e disputazione di simili cose intra noi frequentata richiede, che prima a voi questa traduzione comunichi, e voi agli altri di poi, se vi pare, ne facciate parte.

DE MONARCHIA

LIBER PRIMUS.

De necessitate monarchiæ.

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§ I. Omnium hominum, quos ad amorem veritatis natura superior impressit, hoc maxime interesse videtur, ut quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi pro posteris laborent, quatenus ab eis posteritas habeat quo ditetur. Longe namque ab officio se esse non dubitet, qui publicis documentis imbutus, ad rempublicam aliquid adferre non curat: non enim est lignum, quod secus decursus aquarum fructificat in tempore suo; sed potius perniciosa vorago, semper ingurgitans, et nunquam ingurgitata refundens. Hæc igitur sæpe mecum recogitans, ne de infossi talenti culpa quandoque redarguar, publicæ utilitati non modo turgescere, quin imo fructificare desidero, et intentatas ab aliis ostendere veritates. Nam quem fructum ferat ille, qui theorema quoddam Euclidis iterum demonstraret? qui ab Aristotele felicitatem ostensam, reostendere conaretur? qui senectutem a Cicerone defensam, resumeret defensandam? Nullum quippe; sed fastidium potius illa superfluitas tædiosa præstaret. Cumque inter alias veritates occultas et utiles, temporalis monarchiæ notitia utilissima sit, et maxime latens, et propter non se habere immediate ad lucrum ab omnibus intentata; in proposito est, hanc de suis enucleare latibulis: tum ut utiliter mundo pervigilem, tum et ut palmam tanti bravii primus in meam glo

1 Qui, ed anco altrove, la voce repubblica non indica una forma speciale di governo, ma la cosa pubblica, lo stato. Infatti gl'imperatori romani, e fin Giustiniano,

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chiamaron sempre repubblica lo stato sul quale dominarono.

2 È una tirata contro i giureconsulti e decretalisti, dei quali parla aspramente in appresso.

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