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L'anima semplicetta, che sá nulla,
Salvo che, mossa da lieto fattore,
Volentier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;

Quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,
Se guida o fren non torce il suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
Convenne rege aver, che discernesse
Della vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse ?
(Purgatorio, canto XVI.)

La legge, a cui prima accenna il poeta, è la legge morale, la quale è immutabile, e dura eterna. Ella deve essere fondamento alle leggi civili, perchè siano buone. L'inganno dell'anima semplicetta è nella elezione de'beni, avvenendole di pigliare i falsi per veri. Onde fa d'uopo darle la cognizione di quella legge, la quale, siccome è norma al giudicio, è freno alla volontà. Ove le leggi civili con essa si concordassero, molti mali sono nel mondo che non sarebbero. Ma perchè nel dettare quelle hanno parte le popolari o le tirannesche passioni, essendo viziato il principio loro, non possono in sè ritrarre la legge eterna. Alla obbedienza

espresso il concetto stesso: « E siccome peregrino, che va per una >> via, per la quale mai non fu, che ogni casa, che da lungi vede, » crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la » credenza all'altra, e così di casa in casa, tanto, che all'albergo >> viene; così l'anima nostra, incontanente, che nel nuovo e mai >> non fatto cammino di questa vita entra, dirizza gli occhi al ter>> mine del suo sommo bene, e però qualunque cosa vede, che >> paia avere in sè alcun bene, crede che sia esso. E perchè la sua >> conoscenza prima è imperfetta, per non essere sperta nè dottri»> nata, piccoli beni le paiono grandi, e però quelli comincia pri>> ma a desiderare. » - Convito, Trattato iv.

della quale dee stare ogni uomo: e a ciò lo dispone e lo aiuta l'educazione. Ora io non credo che fosse mestieri mai in altri tempi più che nei nostri di definire lucidamente e di conoscere a parte a parte le applicazioni, che dee la legge morale aver ne' costumi per la grandissima confusione, in cui ci hanno posto le temerarie dottrine degli scrittori, che servono alle passioni, la discordia negli uni accesa dalla superbia, negli altri dalla cupidità e dalla invidia, e la memoria di odii recenti e di antiche offese. Quindi l'ufficio dell'educare, già santo in sè, ora santissimo è divenuto, siccome quello che ha per suo fine di avvezzare gli uomini all'osservanza della morale. E se non fossi di ciò convinta, non parlerei di educazione trattando della nostra letteratura, anzi al tutto mi tacerei: chè, invero, dove a parlare non mi spronasse la carità, sarebbe grande stoltezza tormi alla quiete della mia solitaria e nascosa vita per patire poi forse ingiusti giudizii ed inique accuse. Solito premio a chi dice il vero. Ma essendo il primo di tutti i miei desiderii, che la licenza delle passioni sia contenuta, e che si veggan di nuovo tra noi fiorire le virtù proprie de' popoli cristiani e civili, paleso liberamente i pensieri miei, non cercando, non sperando e neppure desiderandone alcuna lode. La gloria è pe' sommi ingegni: chi scrive per obbedire alla sua coscienza, chi sa di non avere nè forti studii, nè mente adattata a questi, faccia, come può, il bene, nè ad altro guardi. E benchè poco egli possa fare, non tema che siano perdute le sue fatiche. Dio giudica le intenzioni: si contentano i savi del buon volere; ed umili e disadorne parole,

se dalla carità e dalla fede siano inspirate, possono forse esser seme di generosi pensieri e di forti affetti. Belli sono gli alberi distendenti freschissima ombra con gli ampii rami: bellissimi sono i fiori educati in chiuso giardino; ma non per questo è senza bellezza, nè vile, l'erba del campo, la quale con la vivacità del suo verde rallegra gli occhi, fornisce buono alimento alla greggia, dà riposato sedile agli affaticati.

Ripigliando il filo del mio discorso dico, che vide il nostro poeta assai chiaramente per quale cagione l'anima giovinetta corra al piacere. In questa, siccome in altre dottrine, segui Platone. A dipingere poi la battaglia interna tra la ragione e l'affetto, tra le idee prime e le altre venute in noi dagli oggetti esterni, così sapientemente cantava:

La divina bontà, che da sè sperne

Ogni livore, ardendo in sè sfavilla
Sì, che dispiega le bellezze eterne.
Ciò che da lei senza mezzo distilla

Non ha poi fine, perchè non si muove
La sua impronta, quand' ella sigilla.
Ciò che da essa senza mezzo piove

Libero è tutto, perchè non soggiace
Alla virtude delle cose nuove.
Più l'è conforme, e però più le piace;

Chè l'ardor santo, che ogni cosa raggia,
Nella più simigliante è più vivace.
Di tutte queste cose s'avvantaggia

L'umana creatura, e, s' una manca,
Di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato è quel che la disfranca,
E falla dissimile al sommo bene,
Perchè del lume suo poco s' imbianca.
(Paradiso, canto VII.)

Adunque nell' uomo è naturale amore del bene, ma è pur da natura, ch' egli sostenga fatiche e combattimenti nel porlo in atto: essendochè le passioni, le quali nascono in lui da instintivi appetiti, lo tirano spesso fuori della via retta e lo tengono assai dubbioso su quello, che deve o non deve fare. Se dall'ingenito amore del bene egli fosse necessariamente portato alle opere buone, non sarebbe merito alcuno nella virtù: e dove non potesse domare le sue passioni, non saría giusto che patisse la pena de' falli suoi. Però Dio gli fece un nobilissimo dono dandogli

.. della volontà la libertate,
Di che le creature intelligenti,
E tutte e sole fûro e son dotate.

(Paradiso, canto v.)

In altro luogo espone il poeta la stessa dottrina, aggiungendovi alcune idee, le quali mostrano in che consista l'ufficio della virtù, e come con instancabili sforzi possa l'uomo riuscire a piegare al bene la sua corrotta natura:

Lo cielo i vostri movimenti inizia,

Non dico tutti; ma, posto ch'io 'l dica,
Lume v'è dato a bene ed a malizia,

E libero voler che, se fatica

Nelle prime battaglie col ciel dura,

Poi vince tutto, se ben si notrica. >>

(Purgatorio, canto XVI.)

Secondo l'uso che noi facciamo di questo lume, buone o malvage saranno adunque le nostre azioni. E perchè la forte mente di Dante non si spaventava delle quistioni difficili sopra le altre in filosofia, dopo FERRUCCI, Lezioni. — I.

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aver posta la dottrina del libero arbitrio, pone anche quella della prescienza divina, insegnandoci come questa non sia mai a quello d'impedimento. E lo dice in modo così poetico da farne meravigliare chi legge :

La contingenza, che fuor del quaderno
Della vostra materia non si stende,
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
Necessità però quindi non prende,

Se non come dal viso in che si specchia
Nave che per corrente giù discende.

(Paradiso, canto XVII.)

Da quanto abbiamo sin qui discorso, parmi evidente correre grandissima somiglianza tra le dottrine platoniche e le dantesche. Ma l'Alighieri per essere rischiarato dal lume della celeste rivelazione doveva spingersi con la mente molto più innanzi del greco filosofo. E così fece, e prese a sua guida un uomo mirabile per sapienza e per santità. È questi san Bonaventura da Bagnoregio, il quale, filosofando, fu idealista. Se non che la sua viva immaginazione e il suo ferventissimo amor d' Iddio lo rivolsero al misticismo, che è l'ultimo grado delle dottrine ideali.

È già noto essere il fine di quello l'unione dell'anima umana col suo creatore per mezzo dell' estasi e dell' amorosa contemplazione. Ma l'odio del vizio, il pentimento, l'emenda, la purgazione, sono, per così dire, gli anelli della catena che uniscono l'uomo a Dio: e quegli per questi deve passare prima di avere in sè tanto amore da potere per esso trasumanarsi. Il poema di Dante, siccome più chiaramente poi mostreremo, percorre tutti questi diversi gradi, e il fine di esso è

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