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per non vedervi l'operar della Provvidenza. Della quale ci dà il nostro poeta chiaro concetto, sicchè, seguitando le sue dottrine, possiamo trarne buon frutto a bene studiare la storia. La quale, senza la luce di Dio, è Caos di delitti, di atroci fatti, di ree passioni: però l'uomo, che guarda solo al succedersi degli eventi, e non ne indaga l'occulto fine provvidenziale, si spaventa, si sdegna, s'inorridisce, non sa intenderne la ragione, non vede a che siano ordinate tante ruine, tante guerre, tante sventure; e non sapendo come spiegare che la virtù sia depressa, elevato il vizio, e che la tirannide, la licenza, l'amor di parte, la stolta superstizione facciano il mondo tanto infelice, si crea nella mente una cieca forza, la chiama fatalità, e a lei s' inchina, nè già si accorge, che, mentre inalza sul trono il fato, ne scaccia Iddio.

L'Alighieri avea già veduto le verità, che furono poscia esposte dal Bossuet, onde a lui precorse, assegnando al sapiente volere di Dio ed alla sua intenzione di mantenere l'ordine e l'equilibrio nella dispensazione dei doni suoi, il sorgere e il decadere delle nazioni, la loro ignominia e la loro gloria. Dottrina è questa verissima e di efficace consolazione a chi vive in tempi di corruttela o di servitù. Dio buono perfettamente non vuole il male, onde quello, che reputiamo tale, non è, secondo l'altezza de' suoi consigli, purchè l' usiamo ad espiazione o ad emenda. E benchè il moto impresso da Dio a forze e a cagioni operanti su i casi umani non sia punto d'impedimento al libero arbitrio, pure Egli, che tutto sa e tutto vede, preordina il loro corso in tal guisa, che tutti per vie

diverse giungano al segno che fu pel nostro bene da Lui prefisso. Onde ci è di conforto il pensare che una sapientissima mente modera il mondo, la quale come ha segnato il cammino agli astri del cielo, così ha posto al genere umano determinate regole e certe leggi, per le quali la civiltà qua cade e poi là risorge, simile al sole, che, per nascondersi agli occhi nostri, non cessa di rallegrare in altri luoghi la terra della sua luce. Io credo che Dante, indignato e stanco delle fazioni, degli odii, delle vendette de' tempi suoi, levando il pensiero alla Provvidenza e in lei confidando, delle sue proprie e delle italiane sventure si consolasse, allorquando con tanto amore e con tanta ricchezza di fantasía cantava di lei in questi versi:

Colui, lo cui saver tutto trascende,

Fece li cieli, e diè lor chi conduce,
Sì che ogni parte ad ogni parte splende,
Distribuendo ugualmente la luce:

Similemente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,
Che permutasse a tempo li ben vani,

Di gente in gente e d'uno in altro sangue,
Oltre la difension de' senni umani:
Perchè una gente impera, ed altra langue,
Seguendo lo giudicio di costei,

Che è occulto, come in erba l'angue.
Vostro saver non ha contrasto a lei:

Ella provvede, giudica e persegue
Suo regno, come il loro gli altri Dei.
Le sue permutazion non hanno triegue:
Necessità la fa esser voloce;

Si spesso vien chi vicenda consegue.
Quest' è colei, ch'è tanto posta in croce

Pur da color, che le dovrian dar lode,
Dandole biasmo a torto e mala voce.
Ma ella s'è beata, e ciò non ode:

Con l'altre prime creature lieta
Volve sua spera, e beata si gode.

(Inferno, canto VII.)

L'uomo è così imperfetto, che, quando con la sua mente s'inalza a sublimi speculazioni, spesso col cuore rimane avvinto alla terra: onde non ha negli affetti e quindi ne' suoi costumi la libertà, che per mezzo dei lunghi studii possiede nell' intelletto. Del che, per tacer di altri, possiamo recare in esempio Periandro e Seneca. Il primo, comecchè tanto dotto da meritare fra i sette savi della Grecia onorato luogo, vinto dall'ambizione divenne tiranno della sua patria: non arrossi l'altro di farsi complice di Nerone, ora con adulatrici parole, ora con silenzio da schiavo. E se a questi esempii di viltà di filosofi illustri nel tempo antico volessi aggiungerne uno de' tempi moderni, potrei allegare quello di Bacone da Verulamio, cui tornò vana la sublimità dell'ingegno per la bassezza del cuore: onde a salire in alto tradi gli amici, e perduto il regal favore non ebbe vergogna, per riacquistarlo, di avvilire sè ed il suo nome con turpissime adulazioni. Dante però fu libero nella vita, com'era libero nel pensiero: si che neppure le cose, che a tutti sembrano desiderabili e care, ebbero forza sul suo giudizio. Quindi fu spregiatore magnanimo non solo delle ricchezze, ma della nobiltà e della gloria, come si vede da molti luoghi del Convito

Libro IV, Trattato iv.

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e della Divina Commedia. E a me pare che l'ultimo grado della sapienza sia nel fare della gloria la stima che si conviene, ma nulla più. Essendochè nell' operar grandi cose l'uomo non dee tanto ricercare la fama del nome suo, quanto l'adempimento dell'obbligo che noi abbiamo di coltivare l'ingegno e di usarne in vantaggio altrui. Se dalle tue fatiche tu speri lode, e solo per questo perduri in esse, ti farai servo delle opinioni volgari e per tua colpa sarai privato della quasi divina consolazione, che prova il savio, facendo il bene per solo amore del bene, sciolto ugualmente dalla speranza, dall'ambizione, dalla cupidità, dal timore, e a Dio e a sè stesso, non ai mutabili incerti giudizii umani, chiedendo il premio del suo operare. Vera pertanto noi dovremo stimare quella dottrina che seguì Dante in filosofia: imperocchè al modo stesso, con cui si giudica della bontà di un terreno dai frutti da esso portati, la bontà di una dottrina si prova dalla qualità de' costumi di chi la tenne.

La parte filosofica della Divina Commedia meno dell' altre è fra noi pregiata, forse perchè dimanda dottrina e studio ad essere intesa. Ella però, a mio parere, ha somma bellezza, vedendosi in essa intrecciato con raro accordo il sensibile e l'ideale, fatte evidenti idee astratte, poetizzato il ragionamento, e con nuove fantasie dichiarate quistioni di grande difficoltà, senza che l'astrusería del soggetto impedisca al poeta di dilettare i suoi leggitori. E certo diletto assai vivo prenderà sempre dai filosofici versi dell'Alighieri chiunque

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Purgatorio, canto x1; Paradiso, canto xv.

ha mente gagliarda per meditare su gli assoluti principii, e sentendo il bello tanto più lo ama e lo gusta, quanto è più in alto la sua cagione, ed è più dura la prova vinta dall' arte. Pochi degli antichi poeti avevano osato di pigliare dalle filosofiche verità il tèma dei versi loro, e niuno fra essi può sostenere il paragone con l'Alighieri. Conciossiachè, se trattarono di morale, lo fecero con brevi sentenze, non in maniera scienziale, o fra le dottrine de' filosofi scelsero quelle che non s'inalzavano sopra il mondo delia materia, siccome fece Lucrezio, poeta nobilissimo invero, anzi maraviglioso per concisione e vigore di stile, per una certa ornata semplicità, in cui si riflette la maestà dell'antica Roma. Ma per la natura delle dottrine da lui cantate, tanto è lontano dall'altezza dell'Alighieri, quanto l'inerte dio di Epicuro è diverso dal Dio provvido e perfettissimo de' Cristiani, quanto la creazione del mondo fatta in virtù di onnipotente parola è diversa da quella, ch'ebbe principio, secondo affermo Lucrezio, dall' accozzarsi di atomi errauti pel vasto spazio. A più gran volo inalzossi Virgilio filosofando, allorchè parla della gran mente, onde hanno tutte le cose la vita e il senso, con quel suo stile, nel quale ogni parola è una immagine, ed ogni concetto è viva pittura:

Principio cœlum ac terras, camposque liquentes,
Lucentemque globum lunæ, titaniaque astra
Spiritus intus alit, totamque infusa per artus
Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.
Inde hominum pecudumque genus, vilæque volantum,
Et quæ marmoreo fert monstra sub æquore pontus.
Igneus est ollis vigor et cœlestis origo

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