con cui ne parla, e la qualità delle immagini ch'egli impiega narrando come la vide, e quanto ne udi. Sono esse tutte soavi e gentili, quali il poeta non usò mai favellando d'altri dannati. Per dire come le due ombre compagne andassero a lui, adopera questa graziosa comparazione: Quali colombe dal disio chiamate, Con l'ali aperte e ferme, al dolce nido (Inferno, canto v.) Le parole di Francesca sono dolci e pietose, convenevoli all'alto suo grado e all'indole sua, atte a farci compassionare la sua sventura. Imperocchè, mentre intendono a dimostrare che per quasi fatale necessità i cuori gentili sono sottoposti all'amore, ci danno fede essere stato questo in lei tanto grande, quanto mai in donna che fosse al mondo: Amor, che a cor gentil ratto s'apprende, Che mi fu tolta, e 'l modo ancor m'offende. Mi prese del costui piacer sì forte, Più vivamente la forza della passione è ritratta in Francesca, quando ella dice accennando al cognato: Questi, che mai da me non fia diviso. Affetto di tenerezza quasi infinita è in queste brevi parole. Pare da esse che l'eternità de'tormenti non ispaventasse la infelicissima donna, poichè le assicurava in eterno la compagnia del suo amante. Tali bellezze si sentono, ma la lingua è impotente a significarle. Imperocchè versi, siccome quelli, furono dettati dal cuore, ed il cuore soltanto può giudicarne. Volete vedere come il poeta, lasciato il modo di dipingere le persone e gli affetti che molto a quello dal Correggio poi adoperato si rassomiglia, sappia delineare immagini fiere con tanta forza, con quanta non n'ebbe mai Michelangelo? Leggete i versi, ne' quali con istorica verità egli tratteggia Filippo Argenti, che rabbioso tra i morti, come tra i vivi « In sè medesmo si volgea co'denti: » ponete mente alla descrizione dell'ombra del Mosca, il quale avea 1 l'una e l'altra man mozza, Levando i moncherin per l'aura fosca, (Inferno, canto XXVIII.) Degna del Buonarroti è la pittura dell'angiolo che dal cielo scende all'inferno, per vincere l'oltracotanza de' diavoli, i quali contendevano a Dante l'entrata della loro città: E già venía su per le torbid' onde Un fracasso d'un suon pien di spavento, Impetuoso per gli avversi ardori, 1 Canto VI. E fa fuggir le fiere ed i pastori. Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l'acqua si dileguan tutte, Ahi quanto mi parea pien di disdegno ! Il poeta tiene da prima sospesa la mente del leggitore, facendogli argomentare che dallo straordinario fracasso effetti pure straordinarii doveano uscire. Poi con una evidente comparazione determina il suo concetto: il quale già per sè pauroso, mentre si rimanea indefinito, genera in chi legge il terrore, con l'immagine di spaventevole forza, quale si è quella del turbine. Poi l'altra comparazione che tosto segue, dalla viltà de' demonii ci pone in luce quanto la potenza dell'angiolo sia terribile: ch' egli sia veramente messo del cielo si scorge dalla maniera, con cui vince ogni ostacolo senza usare alcuno de' mezzi che sono proprii dell'uomo. Non ha bisogno di ponte o di navicella per valicare lo Stige; anzi passando su quella sozza palude neppure si bagna i piedi: e le migliaia dei congiurati demonii atterriti fuggono innanzi a lui, sicchè al solo tocco della sua verga s'apre la porta difesa prima da quelli con tanto sforzo. In questa bellissima descrizione non è una sola parola che sia di troppo: l'armonia del verso risponde alla qualità delle idee, e il quadro dal poeta delineato è di tale evidenza, che ti sembra di veder veramente ciò ch'egli narra. A tutti i suoi personaggi conserva Dante il carattere loro proprio, facendo diguitosamente parlare Pier Delle Vigne, prestando dolce facondia a Brunetto, a Guido di Montefeltro favella accorta, e persuasiva ad Ulisse: mentre dà basso linguaggio a Maestro Adamo falsario, al bugiardo Sinone, al bizzarro Stricca e ad altri di simil lega. Con la medesima verità, con la quale dipinge l'indole umana, ritrae le cose e gli avvenimenti. È osservazione giustissima di Longino, risultare il sublime da pochi tratti che colpiscono fortemente la fantasía. Quindi sublime è quella iscrizione che sopra la porta dell'Inferno pone il poeta: Per me si va nella città dolente, Per me si va nell'eterno dolore, La somma Sapienza e il primo Amore. (Inferno, canto III.) La forza dello spaventoso concetto racchiuso in quella va sempre crescendo di grado in grado: la porta apre il passo ad una città ripiena di gran dolore, e questo non avrà termine mai; e lo patisce chi per sua colpa ha perduto il cielo. Dio stesso fece quel luogo a supplizio de' maledetti; essi non hanno speranza alcuna, imperocchè eterni saranno i loro tormenti. Tutte le idee del poeta ci avevano già commossa la fantasía: quella della eternità delle pene ci rende attoniti e ci atterrisce. Da ciò si vede quanto maggiore efficacia sia nei concetti che sono presi dall'ideale, che non in quelli, i quali si formano dal sensitivo, e che rappresentano un pensiero ben definito. Il non so che d'incerto, di misterioso, d'incomprensibile che porta in sè stessa la voce eterno, im pressiona la nostra immaginativa più fortemente che non farebbe una descrizione, in cui sono parole esprimenti idee entrate per mezzo dei sensi nell' intelletto. Che ciò sia vero, ci sarà chiaro se confrontiamo il passo di Dante sopra allegato con quello del sesto libro dell' Eneide di Virgilio, nel quale viene dipinta assai vivamente la tenebrosa grotta d'Averno: 1 Spelunca alta fuit, vastoque immanis hiatu, << Era un' atra spelonca, la cui bocca Fin nel baratro aperta, ampia vorago 1 |