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all' onesto e al vero quanti per volontà di natura o per condizione di vita sono disposti a seguire l'esempio suo. Fate pertanto che ognuno sia buono in sè, e intenda a far buoni gli altri, e senza tumulti, senza sollevamenti di popolo, senza sangue vedrete il mondo quasi da sè medesimo pervenire a tranquillo stato, e otterrete quello che fu sempre da tanti affannosamente cercato indarno; perchè disgiunsero la libertà dalla religione, dalla carità la giustizia, dal dovere il diritto e l'uomo da Dio.

Con questa nobilissima verità, sotto allegorico velo significata, chiude il poeta la parte seconda della Divina Commedia. La lettura della quale ci lascia nell'animo meraviglia grandissima e riverenza verso il suo ingegno, conforto e speranza per l'avvenire. Conciossiachè la forza non può impedirci nè di emendare i nostri costumi, nè di risvegliare nei nostri petti la morta fede. Questa a noi manca, e per questa sola potremo avere altri tempi ed altra fortuna.

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LEZIONE NONA.

SOMMARIO.

1

Come gli antichi stimassero, che di natura sensibile fosse la felicità delle anime giuste dopo la morte. In che la riponga Dante. Come egli seguisse e poeticamente esponesse il sistema di Tolomeo.- Grandi difficoltà da lui vinte in questa terza cantica. Si - Verità, riprendono coloro che la giudicano inferiore alle altre. altezza, sublimità de' concetti in essa racchiusi. Sue grandi bellezze di stile e di fantasía. Quanto sian vere le opinioni di Dante Si tocca intorno alle cose, che fanno liberi e quieti gli Stati. della dottrina di lui e del meraviglioso poetico. -Utilità dello studio della Divina Commedia.

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Quando gli antichi descrissero la felicità degli Elisi, poco diversa da quella che l'uomo ricerca in terra la figurarono. Dissero, invero, che un' aria più della nostra sottile vi circolava,' e che quelli avevano il loro sole e le loro stelle: ma finsero che i guerrieri, come facevano essendo vivi, dell' armeggiare e del condurre cavalli si dilettassero, mentre i poeti dentro un boschetto di allori continuavano i loro canti, o traevano dalla lira armoniosi suoni.

Dante, informato dallo spirito e dalle dottrine del Cristianesimo, nella cognizione della verità e nell' amore ripose la beatitudine delle anime su nel Cielo :

E dei saver che tutti hanno diletto,

Quanto la sua veduta si profonda

Nel vero, in che si queta ogn' intelletto.

1 Virgilio, Eneide, lib. vi.

Quinci si può veder come si fonda
L'esser beato nell' atto che vede,

Non in quel ch' ama, che poscia seconda.
(Paradiso, canto XXVIII.)

Nell' uomo, allorchè fuori del corpo s'innalza a Dio, non si cancellano le qualità e le tendenze essenziali alla sua natura; ma di umane, ch' erano in prima, fatte divine si perfezionano; quindi per le stesse cagioni, onde sarà beato nel cielo, egli sopra la terra sarà felice. E per certo la cognizione del vero infinita, lucida, intera pe'giusti nel Paradiso, riempie l'animo dei viventi di tal diletto, comecchè qui l'abbiamo solo adombrata, che altro maggiore dal mondo speriamo indarno. Oltre a ciò, qualunque ha veduto l' ugualità originaria di tutti gli uomini, ha per ciascuno di essi affetto di riverenza e di carità. L'avere studiato le leggi dell' universo ci aiuta a meglio conoscere Dio: sicchè l'amore portato ad Esso si accresce per la sapienza, la quale rende più vivo in chi la possiede il senso della giustizia. E non sentiamo noi forse dentro di noi un insaziabile desiderio del vero? E che significa l'odio della menzogna, ingenito in tutti, se non che siamo fatti per quello, e quindi in lui solo può riposare la nostra mente? Pertanto io credo e sempre più la esperienza degli uomini e della vita in questa opinione mi riconferma, la sola felicità, che aver noi possiamo, venirci dalla carità e dalla scienza. Non solo dalla scienza speculativa, o da quella ch'è infaticabile indagatrice d'ogni segreto della natura, ma dall'altra, di cui Socrate favellava, allorchè per divino comandamento ci esortò a bene conoscere noi medesimi. Oh quanta man

suetudine, quanto amore da lei deriva! Essa fiacca l'orgoglio, inspira la compassione, e ci mostra essere sogno, che si dilegua, l' umana allegrezza, se muova dal senso o pigli alimento da pravi affetti. Dante conobbe il pregio di essa, e la reputò necessaria all'acquisto del vero eterno. Onde innanzi di ritrarre la felicità della mente che già quello possiede ed in lui si bea, volle costringerci a contemplare l'anima nostra, quale è corrotta dal vizio, e poscia purificata dal pentimento. Trapassa quindi a cantare la sempiterna allegrezza del Paradiso, posto al di sopra di tutti i cieli, sede di tutti i giusti, regno d'Iddio. E benchè gli spiriti degli eletti si mostrino a lui dentro il sole, o dentro i pianeti, pure ivi essi non hanno la loro stanza: sono tutti raccolti nel cielo empireo, secondo quello che a Dante insegna Beatrice:

tutti fanno bello il primo giro,

E differentemente han dolce vita,
Per sentir più e men l' eterno spiro.
Qui si mostraro, non perchè sortita
Sia questa spera lor, ma per far segno
Della celestial c' ha men salita.

(Paradiso, canto IV.)

Campeggia, siccome abbiamo di già notato, nella cantica terza l'intelligenza. Nè vi è l'immaginazione per questo poco gagliarda, o languido e scolorito l' affetto. Il sensibile vi è dall' intelligibile superato, perchè la natura del tèma lo richiedeva. La maggior parte delle svariate comparazioni, che l'abbelliscono, è tratta dall' armonía e dalla luce: le fantasie del poeta sono leggiere, anzi aeree e luminose. Le passioni dell' uomo

vi sono dipinte, non turbolente ed audaci come nel mondo; ma tutte pietà, tenerezza, amore. Lo sdegno stesso si accende nella carità e nello zelo della giustizia. L'ideale e il reale v'è misto in guisa, che il verosimile vi s'intreccia al meraviglioso, e le rimembranze del mondo, di cui nel cielo un' eco lontana si ripercote, ci danno dolcezza simile a quella, che noi proviamo, udendo i suoni di musicali strumenti e di umane voci, che nel notturno silenzio indistinti e confusi ci porta il vento.

Nel descrivere la forma, l'ordine e il moto del cielo seguita Dante il sistema di Tolomeo;1 onde vi descrive nove circoli, o nove sfere che si aggirano con diversa rapidità. Ciascuna di esse riceve l'impulso dal primo mobile, il quale per ciò dal poeta viene chiamato il cielo velocissimo. Iddio gli comunica il movimento, che da lui si propaga ai cerchii minori:

La natura del moto che quïeta

Il mezzo, e tutto l' altro intorno move,
Quinci comincia come da sua mèta.

E questo cielo non ha altro dove

Che la mente divina, in che s'accende
L'amor che il volge e la virtù ch'ei piove.
Luce ed amor d'un cerchio lui comprende,
Sì come questo gli altri; e quel precinto
Colui che il cinge solamente intende.

L'astronomo egiziano dètte il suo nome a questo sistema: esso però fu prima di lui, forse dai Pitagorici, immaginato. Lo abbiamo da questo passo di Cicerone: « Novem tibi orbibus, vel >> potius globis, connexa sunt omnia, quorum unus est cœlestis >> extimas, summus ipse Deus, arcens et continens ceteros, in quo >> infixi sunt qui volvuntur stellarum cursus sempiterni, etc. » — Della Repubblica, lib. vi.

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