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troppo abbonda; onde la vita di tanti viziosa o stolta. Di quanto frutto sia il diligente studio dei Greci, lo scrivere del Leopardi ne diede esempio. E s'ei non potè ritrarci dalla stolida imitazione de' forestieri, se le suc prose e i suoi versi non ebbero in tutti l'effetto, che pur dovevano avere per la efficacia e bellezza loro, di ciò è da incolparsi la qualità dei giudizii e dei sentimenti proprii di lui. Da intollerabili mali nel corpo e nell'animo travagliato, vedeva in tutto il riflesso del suo dolore; e s'ei fu vero in sè, avendo scritto ciò che sentiva, non fu vero rispetto all' universale: onde nella solitudine, in cui per forza dei tempi e della fortuna visse come uomo, ei si rimase e forse rimarrà sempre come scrittore. Ma se alcuno, dotto e ingegnoso al pari di lui, prendesse a cantare di quegli affetti e di quelle idee, che sono nella mente e nel cuore di tutti, rinnovellando con la greca schiettezza la nostra lingua, egli saria gran poeta e gran prosatore, e avrebbe virtù persuasiva su gli studiosi; i quali, lasciate le strane gonfiezze e le vanità puerili degli stranieri, darebbero gloria a sè ed all'Italia.

Mi piace allegare in esempio di quanta grazia sia la musa italiana, quando è abbellita dalla greca semplicità, alcune stanze di una canzone, nella quale il Leopardi piange la morte di carissima giovinetta, con quell' affetto, con che ognuno, com' egli, l'avrebbe pianta, se avesse perduta la vita dell'amor suo. Il poeta favella a Silvia: ricorda il tempo, in cui la vedeva e ne fu riamato. Queste pietose memorie sono soggetto di versi, forse i più belli di quanti abbia mai inspirati grande sventura:

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Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quïete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all' opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

(Canto XXI.)

Leggendo questa canzone ci sembra leggere un idillio di Mosco; tale n'è la soavità ed il candore. E tutte le volte che la poesia ci commove, ci diletta, c' intenerisce, vedremo che questi effetti sono prodotti da lei, perchè semplice e vera nel sentimento è pur semplice, ma elegante, nel suo dettato. Addurrò in prova di ciò che affermo questo sonetto, nel quale il Petrarca dipinge il dolore di Laura al vederlo da lei partirsi per lungo viaggio:

Quel vago impallidir che 'l dolce riso
D'un'amorosa nebbia ricoperse,
Con tanta maestade al cor s'offerse,
Che gli si fece incontro a mezzo 'l viso.
Conobbi allor sì come in paradiso

Vede l'un l'altro; in tal guisa s'aperse
Quel pietoso pensier, ch'altri non scerse,
Ma vidil' io, ch' altrove non m' affiso.
Ogni angelica vista, ogni atto umile

Che giammai in donna, ov' amor fosse, apparve,
Fora uno sdegno a lato a quel ch'i' dico.
Chinava a terra il bel guardo gentile,

E tacendo dicea (com' a me parve):
Chi m'allontana il mio fedele amico?

(Sonetto LXXXIV.)

Di uguale spontanea grazia è il seguente:

Lieti fiori e felici, e ben nate erbe,
Che Madonna, pensando, premer suole;
Piaggia ch' ascolti sue dolci parole,
E del bel piede alcun vestigio serbe;
Schietti arboscelli e verdi frondi acerbe;
Amorosette e pallide viole;

Ombrose selve, ove percote il Sole,
Che vi fa co' suoi raggi alte e superbe;

O soave contrada, o puro fiume,

Che bagni 'l suo bel viso e gli occhi chiari,
E prendi qualità dal vivo lume;
Quanto v'invidio gli atti onesti e cari!

Non fia in voi scoglio omai che per costume
D'arder con la mia fiamma non impari.
(Sonetto CXI.)

L'uomo è da natura portato a parlare con gli altri di quello che lo perturba. Ma non sempre ci è aperto un animo, in cui possiamo versare la piena della passione che in noi trabocca. Però i poeti cercarono confidenti del secreto loro dolore ancor nelle cose, che sono prive di senso. Cosi fece il Petrarca nei versi sopra citati, in altri, e in modo speciale nella canzone, la quale incomincia: « Chiare, fresche e dolci acque, ec. » Non la trascrivo, perchè qualunque ha buon gusto ed amore del bello dee averla scolpita nella memoria, essendo la più soave del Canzoniere. Ricorderemo però, che se dall'uso che hanno i poeti d'indirizzarsi alle piante, ai fiumi, ai campi, alle stelle, come se li potessero udire, nascono nuovi concelli e patetiche fantasie, si vuole in esso andare a rilento. Imperocchè non ogni stato dell'anima lo comporta: è verosimile solo nella passione. Perció i petrarchisti, che lo adoperarono fuori di luogo, riuscirono freddi; e freddo sempre sarà colui, che a fare sembrar più vivi di quel che sono i suoi sentimenti, li esprime con le figure adattate solo ai gagliardi moti del cuore.

Quando il debole affetto è significato, siccome il forte, l'esagerazione delle parole offende il lettore, il quale accusa il poeta o di falso giudicio o di poca

fede. La maggior parte degli scrittori dei tempi nostri non proporziona il concetto con il dettato. Pochi ora sono atti a sentire intense passioni, ammollito il cuore, siccome il corpo, nell'ozio di vita inutile ed infingarda. Pure i moderni a dipingere passioncelle impiegano le più ardite figure della eloquenza, i tratti più risentiti che usassero mai i poeti del tempo antico a rappresentare affetti e pensieri, nei quali si trasfondeva la loro vita. L'esagerato non guasta soltanto nelle lettere e nelle arti il delicatissimo fiore della bellezza: esso corrompe i costumi, e fa che la umana conversazione sia una continua menzogna, e spesso una turpe scuola d'ipocrisia.

Dirò schiettamente la mia opinione. E perchè tacerla, quando io non cerco la grazia de' miei lettori, ma scrivo solo per mettere in luce il vero? L'esagerazione è vizio speciale del nostro secolo: essa s'insinua nell'anima vergine dei fanciulli sin dalle fasce. Noi, noi madri, con tanti vezzi, con tante delicature e lusinghe ve la poniamo. La nostra lode per essi è senza misura: e quasi il materno amore da sè non balzasse fuori dei nostri petti, noi ci serviamo di ampollose parole a manifestarlo. E degli uomini e delle cose mal giudicando, avvezziamo i nostri figliuoli al falso e all'esagerato. La buona, la vera, la solida educazione non si fa con le carezze studiate, nè con le iperboli dell'affetto. Essa vuole il candore, il buon senso e una franca severità. La vita non è un romanzo; e però quelle, cui spella l'ufficio d'indirizzarla negli altri al suo proprio fine, non debbono mai pigliare per guida la fantasia, non farsi sorde alla voce della ragione. Pretendere che

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