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Nei primi versi di questo sonetto segue il poeta la dottrina platonica, e ad essa pur si conforma nelle canzoni che scrisse intorno agli occhi di Laura, le quali sono modello di lirica poesía. Nei versi composti dopo la morte di quella dipinge la forza del dolore con mirabile verità. Chi non la scorge in questo sonetto? Quanta invidia io ti porto, avara terra, Che abbracci quella cui veder m'è tolto, E mi contendi l'aria del bel volto, Dove pace trovai d'ogni mia guerra! Quanta ne porto al ciel, che chiude e serra E si cupidamente ha in sè raccolto Lo spirto dalle belle membra sciolto, E per altrui sì rado si disserra! Quanta invidia a quell' anime che 'n sorte Hann' or sua santa e dolce compagnia, La qual io cercai sempre con tal brama! Quant'alla dispietata e dura Morte,

Ch' avendo spento in lei la vita mia,

Stassi ne' suoi begli occhi, e me non chiama!

(Sonetto XXXII.)

La commossa immaginazione e il ricordevole sen

timento dettarono al poeta quest' altro:

Gli angeli eletti e l'anime beate
Cittadine del cielo, il primo giorno,
Che Madonna passò, le fûr intorno
Piene di maraviglia e di pietate.
Che luce è questa, e qual nova beltate?
Dicean tra lor; perch'abito sì adorno
Dal mondo errante a quest' alto soggiorno
Non sali mai in tutta questa etate?
Ella contenta aver cangiato albergo,
Si paragona pur coi più perfetti;
E parte ad or ad or si volge a tergo

Mirando s' io la seguo, e par ch'aspetti:
Ond' io voglie e pensier tutti al ciel ergo;
Perch' io l'odo pregar pur ch'i' m' affretti.
(Sonetto LXXIV.)

Se non temessi di troppo moltiplicare le citazioni, prenderei in esame canzoni e sonetti della seconda parte del Canzoniere, per dimostrare come vi sia palese la forza di una passione che al tempo non cede e vince la morte. Ma non potendo soverchiamente allungare questa Lezione, ricordo soltanto che nel Petrarca l'affetto è vero, quando egli prende l' inspirazione più dal suo cuore che dall' ingegno. Alcune volte abusa di questo; onde ha concetti freddi per arte, o troppo sottili. Chiunque è di sano giudizio non può lodare certe antitesi e certe metafore mal condotte, e false alle volte. Mi spiace che il poeta, facendo allusione al nome della sua donna, la chiami il suo verde Lauro, o L'aura sua dolce, e con motti arguti mostri lo studio dove il lettore cerca l'affetto.

Queste cose io noto, affinchè i giovani sappiano che nei classici tutto non è da imitare. Pertanto sceverando nelle opere loro le parti bellissime dalle altre che della imperfezione umana son testimonio, cercheremo di fuggire gli scogli dove essi ruppero, da loro imparando a far che la fantasía sia libera, non licenziosa; ardita, non temeraria.

Chi si pone a paragonare le rime del Petrarca con quelle di Dante, ammira in queste la sobrietà de' concetti che nelle prime desidera spesso invano. Non so se ciò derivi dalla qualità dell'affetto più intenso nell'Alighieri, o dalla natura della sua mente che ricchis

sima essendo fu temperante. Forse l'esempio dei Provenzali condusse il Petrarca a certe lascivie d'ingegno, che in parte guastano la bellezza delle sue rime. Se non sapessi che quegli compose il sonetto che qui trascrivo, tu crederesti che l'Achillini o il Marini l' avesse dettato:

diosi:

1

Passa la nave mia colma d'obblio

Per aspro mare a mezza notte il verno
Infra Scilla e Cariddi; ed al governo
Siede 'l signor, anzi 'l nemico mio.
A ciascun remo un pensier pronto e rio

Che la tempesta e 'l fin par ch'abbia a scherno:
La vela rompe un vento umido eterno

Di sospir, di speranze e di desio.

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni

Bagna e rallenta le già stanche sarte,
Che son d'error con ignoranza attorto.
Celansi i duo miei dolci usati segni;

Morta fra l'onde è la ragion e l'arte:
Tal ch' incomincio a disperar del porto.
(Sonetto CXXXVII.)
Esso è una imitazione dell' ode di Orazio,1 nella

Pongo qui in nota quest' ode ad utile documento degli stu

« O navis, referent in mare le novi
Fluctus! O quid agis? Fortiter occupa
Porlum. Nonne vides ut

Nudum remigio latus?

Et malus celeri saucius Africo,

Antennæque gemant? ac sine funibus
Vix durare carinæ

Possint imperiosius

Equor? Non tibi sunt integra lintea,
Non di, quos iterum pressa voces malo.
Quamvis Pontica pinus,

Silvæ filia nobilis,

FERRUCCI, Lezioni. — I.

23

quale sotto l'allegoria di una nave battuta dalla tempesta vien figurata la romana repubblica, e il suo agitarsi tra le nemiche fazioni. Il poeta latino si attiene alla verità: non così fece il Petrarca. E per fermo, che vogliono significare il vento delle speranze, la nebbia di sdegno, le sarte attorte di errore con ignoranza? Sono queste maniere improprie di favellare, studiate e false. Ed io ho voluto toccarne, perchè nella nostra letteratura si sono introdotte da qualche tempo, e ne corrompono la naturale schiettezza. Nè l'esempio degli eccellenti scrittori vale a scusarle; chè la bizzarría e la stranezza saranno sempre ed in tutti da biasimare.

Abbiamo già ricordato come il Petrarca con vanità fanciullesca fino all' ultima sua vecchiezza traesse vanto dal non avere mai letto Dante. Pure ne' suoi Trionfi volle imitarlo, o forse senza espresso consiglio ne calcò l'orme. Chè prese anch' egli a soggetto del piccolo suo poema la vita umana: ma quanto rimase indietro al sommo poeta! Se ne togliamo il secondo capitolo del terzo Trionfo, in cui Laura apparisce in sogno al suo amante, il quale è caldo di amore, tenero e dignitoso, gli altri non sono che storiche nar

Iactes et genus et nomen inutile:
Nil pictis timidus navita puppibus
Fidit. Tu, nisi ventis

Debes ludibrium, cave. »

(Libro 1, ode xiv.)

Non è parola ed immagine in questi versi che nel senso proprio non si convengano ad una nave; nè alla divisa repubblica nel figurato. Orazio stette dentro ai confini dalle leggi del bello segnati all' arte il Petrarca li oltrepassò, e quindi fu nella sua allegoría artificioso, non vero.

razioni assai scolorite, o fredde enumerazioni di nomi. Pareva che nei Trionfi del Tempo e della Divinità per la natura del tèma dovesse il poeta spiegare più in alto il volo: ma in essi come negli altri si manifesta, quanto il suo ingegno in alcune parti fosse inferiore a quello di Dante. I concetti non v'hanno mai la grandezza che pur dovrebbero avere; le rime in un luogo sono sforzate, sforzano in altre il pensiero. Osservo ciò, affinchè i giovani non confidino troppo di sè medesimi, ed abbiano fede nelle parole di Orazio, il quale nell'Arte poetica dice sapientemente:

Sumite materiam vestris, qui scribitis, æquam
Viribus, et versate diu quid ferre recusent,

Quid valeant humeri.

Non tutti gl' ingegni sono atti ugualmente alle stesse. cose; però chi assume un carico troppo grave per le sue spalle ne resta oppresso. Al che molto non badano gli scrittori, bramosi più della lode che della gloria. Facile è conseguire la prima; chè il popolare giudicio, spesso corrotto, non è sempre misura del vero bello. In quanto alla gloria poi è da sapere che i posteri soli ne sono dispensatori. Onde il meritarla è di pochi, essendo quelli liberi dall' amore e dall'odio nel giudicare. Nè speri mai gloria chi non seguita le tendenze della natura, non facendo mai l' uomo bene ciò ch'egli fa contro lei.

Se il Petrarca mostrò alla prova di non essere fatto per argomenti d' indole astratta ed universale, diè chiaro segno di avere fantasía e mente acconcia alla lirica, quando prese a cantare di patria e di libertà. Nobilissime sono le sue canzoni al Papa, a Cola

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