Sayfadaki görseller
PDF
ePub

scegliere le voci, in cui quelli spiccano in viva luce, a fuggire i construtti contorti, i modi o barbari o vili, e a dare con le metafore ben condotte lume alle idee. Quindi si appartenne sempre ai poeti il dirozzare le lingue e il farle acconce ai forti, ai teneri, ai maestosi, ai soavi affetti. E sebbene coloro, che scrissero prima dell' Alighieri, non avessero nè l'ingegno, nè il gusto e la fantasia, per cui le parole diventano somiglianti nei loro effetti ai colori nella pittura, pure si studiarono di nobilitare l'idioma ch' era parlato dal volgo. Però Dante chiamava aulica, cortigiana ed illustre la lingua adoperata dai rimatori in Italia, la quale, egli aggiunge: è di tutte le città d'Italia, e non pare che › sia in alcuna, con la quale tutti i nostri volgari » s'hanno a misurare, ponderare, paragonare. »1

1

Egli è in vero gran pregio ad una nazione avere una lingua che, assicurata dalle inevitabili variazioni indotte nel suo parlare dal volgo, permanga stabile fondamento di civiltà. E dove un popolo sia caduto a tale bassezza, ch' ei più non avendo nè proprie sue leggi, nè stato suo proprio, patisca la signoria di esterni padroni, non dovrà stimare impossibile di avere un giorno le divise sue parti congiunte insieme, finchè conserva l'unità della lingua e l'unità della religione. Ma quella avere non si potrebbe dove la lingua si rimanesse in balia della plebe, la quale, come si è detto, l'altera, la corrompe, la muta per ignoranza, o per le voci che prende dai forestieri, massime quando soggiace al loro dominio. È ufficio pertanto degli scrit

1 Volg. Eloq., lib. 1, cap. xvI.

tori serbarla monda d'ogni bruttura, e rispettarla ed amarla come memoria dolcissima del passato, e cagione e mezzo di sperata grandezza per l'avvenire. A questo ufficio non mancò l'Alighieri fino dal tempo, in cui della luce che raggiare doveva la lingua nostra vedevasi solo un fioco barlume. Quindi a farla nobile e illustre si affaticò con argomenti dimostrativi, e più con l'esempio. Nel che seguiva il natural corso della sua mente. La quale riducendo sempre alla sintesi le idee particolari, questa voleva nell' arte, nella religione, nella politica. Onde, com' egli fu sempre cattolico di ragione e di sentimento, come pensava che a riformare l'Italia e il mondo in uno solo si dovesse riunire l'autorità da molti allora violentemente usurpata, così voleva che avessero gl' Italiani una lingua sola. Certo ove meglio fosse stata studiata l' indole dell' ingegno e della sapienza di Dante, indole sempre armoniosamente sintetica, niuno avrebbe avuto l' audacia di porlo tra i novatori in politica e in religione. Se il riso in cose si gravi non fosse colpa, sarebbe in vero da ridere su coloro, che, profanando la memoria del gran poeta, pretendono di provare ch' ei partecipasse agli errori, onde poi sorse la setta de' protestanti, e che con certe liberissime sue dottrine precorresse a quelle de' socialisti. Temerità irreverente è questa: arte ipocrita di malvagi, che ardiscono di abusare i nomi più santi per coonestare perverse o stolte opinioni.

Ma l'unità della favella sarebbe stata indarno per lungo tempo desiderata, ove Dante non l'avesse da sè formata con arte maravigliosa, eleggendo tra i voca

boli dei dialetti parlati nelle varie città d'Italia i più eleganti, i più efficaci, i più vivi; fissando il senso di alcune voci, rinnovellandolo in altre, e dando al nostro volgare con metafore pittoresche, con modi brevi, con rapide construzioni chiarezza, nervo, abbondanza, varietà quasi infinita di forme, innumerevoli gradazioni di colorito. Il che non solo si scorge nella bellezza dei versi suoi, ma nel divario che corre tra questi e quelli dei poeti che il precedettero. Ne' quali, dove più, dove meno, brillando alcun poco d'oro, è molto di mondiglia ed anzi di fango, sicchè nè l'animo, nè l'orecchio ne sono dilettati. Eccone in prova alcuni versi di Federigo II:

Valor su l'altre avete,
E tutta conoscenza:
Null' uomo non potria
Vostro pregio contare,
Di tanto bella siete.
Secondo mia credenza
Donna non è che sia
Alta, sì bella e pare,
Nè ch'aggia insegnamento
Di voi, donna sovrana.

La vostra cera umana

Mi dà conforto e facemi allegrare.
Allegrare mi posso, donna mia.

Il segretario di Federigo, Pier delle Vigne, uomo famoso per dottrina, per improvvisa indegnità di fortuna, e più ancora pe' versi dell' Alighieri, poetỏ

Vedi Inferno, canto XIII.

1

anch'esso in rime volgari, adoperando uno stile, che parmi in ugual modo lontano dalla rozzezza e viltà del linguaggio plebeo, e dalla grazia del poetico e dell'illustre :

Amore, in cui i' vivo ed ho fidanza,

Di voi, bella, m' ha dato guiderdone.
Guardomi infin che venga la speranza,
Pure aspettando buon tempo e stagione,
Com' uom ch'è in mare ed ha speme di gire,
Quando vede lo tempo ed ello spanna,

E giammai la speranza non lo inganna :
Così farà, Madonna, il mio venire.

La vita dell' imperatore Federigo fu da fieri accidenti sempre agitata, e corse in mezzo a continue guerre, essendo egli principe ambizioso e superbo, avverso naturalmente alla libertà, onde stette sull'armi per opprimerla, per contrastare all'autorità della Chiesa, o per umiliare l'orgoglio de' suoi baroni. Non trascurò tuttavia di coltivare gli studii e gli ebbe in onore: onde (come scrive un antico) « la gente che » aveva bontade veniva a lui da tutte le parti, e

l'uomo (cioè Federigo) donava molto volentieri e » mostrava belli sembianti: e a lui venivano trova» tori e belli parlatori. » All' esempio di lui Manfredi ed Enzo, suoi figli, disfogarono i loro amori in versi italiani. E chiunque ricorda siccome questi, caduto combattendo in potere de' Bolognesi, finisse poscia la vita in dura prigione, non potrà leggere senza pietà questi versi:

Ecco pena dogliosa

Che nello cor m' abbonda,

E spande per li membri,

Sì che a ciascun ne vien soverchia parte.
Giorno non ho di posa,

Come nel mare l'onda:

Core, che non ti smembri?

Esci di pene e dal corpo ti parte:

Ch' assai val meglio un'ora

Morir, che ognor penare!

Sfortunato giovine! Bello della persona, prode nell'armi, baldanzoso di regali speranze, avvezzo ai favori della fortuna, dovè invidiare ogni più misera condizione, poichè gli mancava il sommo de' beni, la libertà. Nelle mute e deserte sale di quel palagio, ch' era suo carcere divenuto, ripensando i tornei, le danze, l'armi, i cavalli, e la sua presente miseria paragonando con la passata felicità, ei si sentiva da disperato dolore stringere il cuore; ma la Musa scendeva allora vicino a lui, e destandogli nella mente cari pen sieri, se non giugneva a racconsolarlo, facevagli almeno per alcun tempo la sua sciagura dimenticare. Tanto è vero che i dolci studii ci sono di pietoso conforto in ogni fortuna, e che in essi ritrova quiete l'animo stanco.

Primi furono i Siciliani a cantare nella volgare favella: i Toscani, anzi quanti avevano allora in Italia gentilezza di cuore e di fantasia, presero a seguirne l'esempio; ma i più con effetto poco felice, per non essersi dipartiti del tutto dal favellare plebeo. Però Dante afferma che i detti di Bonagiunta da Lucca, di Guittone d' Arezzo, di Gallo pisano, di Mino Mocato sanese e di Brunetto fiorentino non son cortigiani, pertinenti, cioè, alla lingua aulica e illustre, ma propri

« ÖncekiDevam »