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zarro, d'orrido aspetto, d'indole quasi selvaggia. Pe'suoi conforti ordinarono i Fiorentini ch'egli pubblicamente insegnasse la lingua, e quindi la greca letteratura. Ebbe alle prime pochi discepoli: ne aumentò il numero in breve, e ne trasse cominciamento la scuola, cui diedero tanto onore nel secolo susseguente il Poliziano e il Ficino. La Toscana di questo al Boccaccio va debitrice. Grandissimo beneficio, se ripensiamo essersi sull'esempio dei Greci formati i grandi scrittori, che resero poscia immortale il nome italiano. Perchè non basta, a vedere come s'imprima nelle immagini e ne'concetti il tipo del bello, studiare nei Latini; avendo i Greci meglio di essi saputo congiungere l'arte con la natura. La civiltà tra questi nacque spontanea, ma venne portata in Roma dai vincitori di Corinto, di Atene, di Siracusa: onde vi germoglio come pianta che nata sotto altro cielo, e poi coltivata lontano dal suo terreno, non si mostra vivida e rigogliosa quale fu in esso.

Era il Boccaccio d'animo aperto, di modi amabili; tenne fede nell'amicizia; sapendo di meritare la gloria non fu ambizioso; fuggi le gare civili, e ben conosciuto quanto sia da stimare la libertà, odiò la popolare licenza che quella abbatte, vantandosi stoltamente di sostenerla. Giovine, nei piaceri fu intemperante; ma giunto all' età matura li tenne a vile, ed osservò tutti i doveri della cattolica religione. Sostenne la povertà con decoro, con umile rassegnazione i mali del corpo: perciò, se in lui non abbiamo esempio di vita sempre incorrotta, lo abbiamo di pentimento cristiano e di savia emenda.

LEZIONE DECIMAQUARTA.

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SOMMARIO.

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Considerazioni generali sullo stato d'Italia nel secolo XIV. - Come fosse facile a un principe di grande animo riunirla, o almeno farla sicura dalle armi esterne. Perchè questo non avvenisse. - La poesia sulla fine del secolo non ebbe cultori degni di fama. - Come all' Italia mancasse nella politica lo scopo, ch' ella ebbe allora nelle lettere e nelle arti. - Degli studii di erudizione. Per quale cagione fiorissero sino alla morte di Lorenzo il Magnifico, ed effetti che ne seguirono. Si tocca dei pregi della italiana letteratura, e

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di altre cose, che fecero memorabili il secolo XIII e il XIV.

La guerra, comecchè sempre sia accompagnata da grandi calamità, è alcune volte utile ed altre dannosa all'incremento delle nazioni. Utile è, quando sia fatta per la difesa della libertà o della patria assalita da forze esterne, o per mutare un ordine divenuto. contrario al bene di quelle; dannosa, quando ella sia combattuta per ambizione di pochi, ovvero di molti, ed abbia nelle gare civili o nelle rivalità degli Stati il principio suo, nella rovina di popoli usciti da un sangue stesso il suo fine. Furono adunque utili e gloriose all'Italia le guerre contro gli Svevi, e le altre imprese ad abbattere gli ordini feudali: le fruttarono servitù ed ignominia quelle, che nel secolo XIV si guerreggiarono tra le repubbliche e i principati italiani per cupidità di conquiste, per emulazione di cittadini, o per gelosía d'impero. Questo secolo, che seppe

con tanto suo onore risuscitare la scultura, l'architettura, la poesía, la pittura, diede morte, e forse per sempre, alla libertà. Onde se dopo di avere studiato la sua storia civile e la letteraria, prendiamo a considerare, che uscisse da tanti moti, da tante rivoluzioni, da tante guerre, non altro si mostrerà agli occhi nostri che la tirannide sorta dalla discordia. Vero è che al declinare di questo secolo, e per non piccolo tratto del successivo, Firenze, siccome prima, si governava popolarmente, e Venezia e Genova non avevano sostanzialmente variato gli ordini loro. Ma quella pei democratici eccessi era vicina a cadere sotto il dominio dei Medici, il quale benchè all'aspetto si dimostrasse civile, e con modestia cittadinesca velasse l'autorità, che andava a poco a poco usurpando sopra le leggi, tendeva a spegnere, come fece, quel piccoletto barlume di libertà, che ancora vi risplendeva. Venezia con l'estendere su gli Stati di terraferma le sue conquiste, eccitando l'invidia dei principi esterni e degl' Italiani, già da sè preparava quella tempesta, che solo un secolo dopo le venne sopra, e da cui fu percossa si duramente, che mai più quindi non si riebbe. Nè di Genova possiamo noi favellare, siccome di città libera, essendo in essa gli odii sì ardenti e sì scarso il senno, che non una, ma più e più volte, chiamati in aiuto suo i forestieri, diede loro di sè e degli ordini interni piena balía. Le speranze sempre deluse, gli antichi e i recenti mali delle intestine parzialità, l'avidità dei guadagni, i premii distribuiti agli adulatori, le arti.dei principi sempre intesi a corrompere gli uomini e a farli inerti nelle lascivie, le frodi nelle corti tessute, i pubblici

ufficii dati per grazia, e le armi trattate dai mercenarii, avevano gl' Italiani condotti al punto, che più quasi non sentivano il pregio nè dell'onor nazionale, nè di que' modi di pubblico reggimento, pe'quali avevano tutti con un ardore pari alla felicità delle imprese loro già combattuto.

Avvilita, siccome abbiamo notato, dopo la morte di Arrigo di Lussemburgo, la maestà dell'impero; lontani i pontefici, e per lo scisma diminuita la riverenza del loro nome in Italia; infame per oscenità e per delitti la casa degli Angioini; non era difficile a principe d'animo generoso e d'alta ambizione ridurre, non dirò tutte, ma molte delle terre italiane alla sua obbedienza. E poniamo ancora, che quegli le avesse con modo tirannico governate: pure non è da mettere in dubbio, che ne sarebbe venuto grande vantaggio per gli avvenire. Chè ai popoli giova recuperare la qualità di nazione più che di avere eque leggi e libero stato. Gli Scaligeri di Verona potevano forse, se non compire, almeno incominciare la riunione di alcune divise parti d'Italia. Ma furono più cupidi che ambiziosi; regnarono per la forza, e da forza maggiore vennero oppressi. Pareva che a Gian Galeazzo, che li avea vinti, la fortuna offerisse il destro di farsi padrone o moderatore di tutta Italia. A lui obbediva la Lombardia: egli teneva in Bologna il grado perduto dai Bentivoglio: Siena e Perugia gli eran soggette: da Gerardo di Appiano comperò Pisa, poichè sempre durava l'empio mercato di popoli e di città. Spenti o cacciati i signori, che già occupavano Parma, Cremona, Brescia, Pavía, soltanto i marchesi di Monfer

rato, i duchi di Savoia, i Gonzaga e gli Estensi possedevano ancora il dominio avito: deboli troppo per resistere a Galeazzo, il quale, abondando d'oro, teneva al suo soldo assai gente d'arme. Nè Firenze avrebbe potuto a lungo fargli contrasto: onde, se la morte non lo colpiva, quando sembrava che la fortuna non fosse mai sazia di favorirlo, avrebbe avuto potenza uguale alla sua ambizione, e l'Italia riunita sotto il governo di un solo nelle maggiori delle sue parti, poteva sperare dal tempo, quanto le avevano tolto le sue discordie.

I popoli e gl' individui debbono avere uno scopo prefisso alle opere loro, affinchè queste non siano inutili nè dannose. Non l'ebbero gl' Italiani in politica nel secolo decimoquarto, e però dopo si lunghe guerre rimasero più battuti e fiacchi di prima. L'ebbero nelle lettere e nelle arti que' grandi, che le fecero sorgere a nuova vita, e della loro intenzione il mondo civile ancor li ringrazia. Dante volle creare una lingua illustre con i dialetti parlati per tutta Italia, come uno scultore si serve dei rozzi marmi, ch' egli pulisce ed anima e affina, per adornare un palagio o un tempio. Il Boccaccio e il Petrarca si proposero di ampliarla, di darle nuova dolcezza e soavità. Cimabue, Giotto, il Gaddi ed il Memmi, Niccola, Andrea, Giovanni da Pisa, Arnolfo e l'Orgagna intesero a rivendicare in libertà le arti belle, inceppate e avvilite dai Bizantini. Ebbe tosto l'Italia una lingua armoniosa, robusta, adatta a ben colorire quanti pensieri accoglie in sè l'intelletto, quante passioni ci sorgono dentro il cuore: ebbe una poesía originale, una prosa candida ed elo

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