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Ora il Bello musicale, anche secondo la moderna teoria estetica svolta dall' Hanslick, teoria che viene a combaciare colle idee manifestate da Dante, deriva precisamente ed esclusivamente dal rapporto dei suoni, i quali, come dice lo scrittore tedesco, sono in coesione tra loro sì per mezzo di occulti legami fondati su leggi naturali, come per affinità elettiva.

Molte e varie (nè qui è il luogo di esaminarle e discuterle) furono e sono le questioni intorno all'essenza del Bello musicale, che noi riteniamo, coll'Hanslick, specifico nella musica, cioè insito nella musica stessa, come il bello architettonico è insito nell'architettura, la quale, al pari della musica, è fonte di sensazioni estetiche deliziosissime, pur non possedendo la facoltà dell'esprimere, del significare una idea od un sentimento. Dal pensiero musicale in sè stesso e dal suo svolgimento, dal ritmo che lo accompagna, dagli accordi che lo sorreggono, insomma dalle varie combinazioni e relazioni dei suoni che or s'inseguono, or si allontanano, ora si ricongiungono ponendosi così in sempre diverso rapporto fra loro, nasce la bellezza del canto, il quale è bello quando, come dice Dante, le sue voci, secondo il debito dell'arte sono intra sé rispondenti.

Ma quali sono queste voci che formano il canto, e che cosa precisamente volle intendere Dante per esse? Duplice, come accennavamo, è l'interpretazione che a questo passo può darsi. La più semplice ed ovvia sarebbe questa: che le varie note d'una me

lodia, anche ad una voce sòla od anche puramente strumentale, debbono trovarsi fra loro, in quelle determinate e regolari relazioni che l'arte richiede per la bellezza, o almeno per la giustezza del discorso melodico. Ma se noi consideriamo che qui l'Alighieri parlando del debito dell'arte accenna alla musica dotta, la quale, come vedemmo, era in quel tempo essenzialmente polifonica; se noi consideriamo che egli si riferisce in plurale alle voci del canto, le quali debbono essere intra sé rispondenti, nasce nella mente nostra l'idea d'un' interpretazione diversa da darsi al passo citato, interpretazione forse più consentanea alle condizioni della musica dotta nel secolo XIV.

Forse Dante volle alludere proprio alla polifonia vocale tanto in uso a quel tempo, e volle notare come la bellezza dei canti a più voci (Cantus, Tenor, Altus, Bassus, ecc.) resultasse dagli accorgimenti usati dal compositore per combinare tra loro le varie voci secondo le norme dell'arte. Simili accenni ritroveremo più d'una volta nella Divina Commedia.

Quando, nel capitolo VII di questo medesimo Trattato I, volle lo scrittore dimostrar l'impossibilità di conservare nelle traduzioni quella bellezza intima che ha la poesia nell'originale, non solo ricorse a immagini e a termini musicali, ma anche trovò proprio nella natura musicale della poesia la ragione della detta impossibilità. In fatto egli dice

BONAVENTURA, Dante e la Musica 4

che" nulla cosa per legame musaico (cioè delle Muse) armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia Dalle quali parole si rileva come, essendo la poesia cosa essenzialmente musicale, o armonizzata, com'egli dice (e nel libro De Vulgari Eloquentia dichiara in fatto che la poesia nihil aliud est quam fictio rethorica in musica posita), la ragion principale per cui nelle traduzioni tanto si perde della originaria bellezza sta appunto nel rompersi di quella armonia che costituisce in sì gran parte il suo fascino. "E questa, soggiunge poco dopo l'Alighieri, è la ragione perchè i versi del Psaltero sono sanza dolcezza di musica e di armonia: che essi furono trasmutati di ebreo in greco e di greco in latino, e nella prima trasmutazione tutta quella dolcezza venne meno,. Dunque elemento costitutivo principalissimo della poesia è, secondo Dante, la musica; la quale tanto s'immedesima con quella da formare un tutto organico che impunemente non si può separare.

Un passo del successivo capitolo VIII dimostra poi come Dante tenesse in pregio gli strumenti e sapesse convenientemente apprezzarne il valore derivante sia dall' intrinseca loro bontà, dovuta alle cure sapienti del costruttore, sia dall'altezza dello scopo cui son destinati per virtù dell'artista.

Onde, dopo aver detto che la virtù dee muovere le cose sempre al migliore, soggiunge che così come

sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d'una bella spada o fare un bello nappo d'una bella citara, così è biasimevole muovere la cosa d'un luogo dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile. La comparazione calza a pennello, e indica appunto come Dante considerasse gli strumenti quali cose di pregio. E notisi ancora che mentre alla zappa in cui sarebbe biasimevole trasformare una bella spada non applica alcun aggettivo, dice che sarebbe biasimevole mutare una bella citara anche in un nappo bello: quasi a voler anche maggiormente dimostrare la distanza (derivante dalla diversa altezza del fine cui l'uno e l'altro oggetto è destinato) che intercede tra il pregio di uno strumento musicale e quello di un nappo, fosse pur questo di singolare bellezza.

E nel capitolo IX, sempre di questo Trattato I, là dove si scaglia contro quelli che della letteratura non si servono a proprio uso per nobili fini, ma solo in quanto per quella guadagnano danaro o dignità, soggiunge, valendosi di una immagine musicale, che essi non si debbono chiamar letterati, siccome non si dee chiamare citarista chi tiene la citara in casa per prestarla per prezzo e non per usarla per sonare.

E poco dopo, al capitolo XI, torna a parlare dei citaristi in un passo che ha dello schietto umorismo e che contiene un'osservazione tratta dal vero. Come certi cantanti, non essendo mai in voce, ac

cusano l'improvviso raffreddore o la perversità della stagione, così pur vi sono dei sonatori che han sempre da accusare o le corde che non rendono, o le chiavi degli strumenti a fiato che non agiscono bene, o l'umido o il freddo o qualche altro sopravvenuto accidente per cui non può esser loro concesso di mostrare la vantata valentia abituale. Questo pare che usasse anche ai tempi di Dante: e l'esser cosa a lui nota prova sempre più com'egli dovesse veramente avere dimestichezza con quanti erano sonatori e cantatori al suo tempo, secondo che affermava, come già vedemmo, il Boccaccio.

E perciò dopo aver detto che molti amano più d'esser tenuti maestri che d'essere, soggiunge che per sfuggire al pericolo di non esser considerati tali, danno la colpa alla materia di cui debbon servirsi od allo strumento, siccome il mal fabbro biasima il ferro appresentato a lui e il mal citarista biasima la citara, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla citara e levarla a sè.

A questa pungente sferzata segue, nel cap. XII, un salutare ammonimento ai molti, vorremmo anzi dire ai troppi, che si arrogano il diritto del giudicare in quelle materie di cui non s'intendono e che, specie in arte e sopra tutto in musica, trinciano sentenze. a dritto e a rovescio senza avervi competenza di sorta. Per ben giudicare di una cosa bisogna avervi, come Dante direbbe, prossimitade: cioè conoscerla

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