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Poggia intanto quell' alma alle lucenti
Sideree rote, e or questa spera, or quella
Di sua luce l' invita entro i torrenti.
Vieni, dicea del terzo ciel la stella: 1

Qui di Valchiusa è il cigno, e meno altera
La sua donna con seco, e assai più bella; 2
Qui di Bice il cantor, qui l'altra schiera
De' vati amanti; e tu, cantor lodato
D'un'altra Lesbia, 3 ascendi alla mia spera.
Vien, di Giove dicea l'astro lunato:
Qui riposa quel grande, che su l' Arno
Me di quattro pianeti ha coronato.
Vien quegli occhi a mirar, che il ciel spïarno
Tutto quanto, e, lui visto, ebber disdegno
Veder oltre la terra, e s' oscurarno.
Tu, che dei raggi di quel divo ingegno
Filosofando ornasti i pensier tui,
Vien, tu con esso di seder se' degno.
Ma di rincontro folgorando i sui

4

Tabernacoli d'oro apriagli il Sole;
E vieni, ei pur dicea, resta con nui,
Io son la mente della terrea mole,
Io la vita ti diedi, io la favilla
Che in te trasfuse la Giapezia prole.5
Rendimi dunque l'immortal scintilla
Che tua salma animò; nelle regali
Tende rientra del tuo padre, e brilla.
D' Italo nome troverai qui tali

Che dell' uman sapere archimandriti
Al tuo pronto intelletto impennâr l'ali.
Colui che strinse ne' suoi specchi arditi
Di mia luce gli strali, e fe' parere

1 Venere.

2

Ivi tra quei che il terzo cerchio serra,

La rividi più bella e meno altera.

Petr., Son.

3 Vedi sopra L'Invito a Lesbia Cidonia. In questo poemetto (dice il Monti) sono le Grazie medesime che parlano profonda filosofia.

E noto che il Galileo dopo le sue scoperte astronomiche divenne cieco.
Cioè, Prometeo, figlio di Giapeto.

Cari a Marcello di Sicilia i liti:1
Primo quadrò la curva dal cadere

3

De' proietti creata, e primo vide
Il contener delle contente sfère 2
Seco è il Calabro antico, 3 che precide
Alle mie rote il giro, e del mio figlio
La sognata caduta ancor deride.

4

Qui Cassin, che in me tutto affisse il ciglio,
Fortunato così, ch'altri giammai

Non fe' più bello del veder periglio.
Qui Bianchin, qui Riccioli, ed altri assai
Del ciel conquistatori, ed Orïano,
L'amico tuo, qui assunto un dì vedrai;
Lui che primiero dell'intatto Urano
Co' numeri frenò la via segreta,
Orian degli astri indagator sovrano.
Questi dal centro del maggior pianeta

Uscian richiami; e, Vieni, anima día,
Par ch'ogni stella per lo ciel ripeta.
Si dolce udiasi intanto un'armonia,

Che qual più dolce suono arpa produce,
Di lavoro mortal mugghio saria.

E il Sol sì viva saettò la luce,

Che il più puro tra noi giorno sereno

Notte agli occhi saría quando è più truce.

Qual tra mille fioretti in prato ameno,

1 Si legge che Archimede con l'uso di grandi specchi ustori giungesse a incendiare le navi di Marcello, che stringeva d'assedio Siracusa.

2 Archimede fu il primo che trovò la quadratura della parabola e il rapporto della sfera col cilindro. Della quale ultima scoperta egli stesso compiacquesi tanto, che la volle incisa sul suo sepolcro; lo che servi d'iadizio a Cicerone per iscoprirlo, siccome egli stesso racconta nelle Tusculane, 1, 5, § 23.

3 Filolao, nativo della magna Grecia e discepolo di Pitagora, fu il primo ad insegnare il sistema ora detto Copernicano.

Il Cassini, chiamato l'oracolo del sole, diede una teorica completa sul movimento delle macchie solari, e parlò più sensatamente d' ogni altro della paralasse del sole, elemento principale di tutta l'astronomia.

Monsignor Bianchini e il padre Riccioli gesuita, celebri astronomi.

La teoria del nuovo pianeta Urano, stampata a Milano nel 1789, fu conosciuta a Parigi da' più distinti astronomi e geometri; ma perchè il modesto Oriani non la presentò all' Accademia delle scienze, l'a tronomo Delhambre pro fitto senza scrupolo delle scoperte altrui, e le sue tavole pubblicate due anni dopo ottennero un premio ad altri dovuto.

Vago parto d' april, la fanciulletta,
Disïosa d'ornar le tempia e il seno,
Or su questo, or su quel pronta si getta,
Vorria tutti predarli, e li divora

Tutti con gli occhi ingorda e semplicetta;
Tal quell' alma trasvola, e s'innamora

Or di quel raggio ed or di questo, e brama
Fruir di tutti, e niun l'acqueta ancora:
Perocchè più possente a sè la chiama

Cura d'amore di quei cari in traccia,
Che amò fra' vivi, e più fra gli astri or ama.
Ella di Borda e Spallanzan2 la faccia,
E di Parin sol cerca; ed ogni spera

N' inchiede, e prega che di lor non taccia.
Ed ecco a suo rincontro una leggiera
Lucida fiamma che nel grembo porta
Una dell' alme, di cui fea preghiera.
Qual fu suo studio in terra, iva l'accorta
Misurando del cielo alle vedette

L'arco che l'ombra fa cader più corta.3

Oh mio Lorenzo ! Oh Borda mio! - Für dette

Queste, e non più, per lor, parole; il resto
Disser le braccia al collo avvinte e strette.

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L'amara tua partita, e su latino

Non vil plettro il mio duol fu manifesto.

Io di quassù l'intesi, o pellegrino

Canoro spirto, e desiai che ratto

Fosse il vol che dovea farti divino.
Anzi tempo, lo vedi, fu disfatto

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Il veggo, e nondimeno

« Qual di te lungo qui aspettar s'è fatto! >> Così confusi l'un dell' altro in seno,

1 Bartolommeo Borda, celebre matematico francese, intimamente legato d'amicizia col Mascheroni, il quale sulla di lui morte compose un'elegia latina.

2 Lazzaro Spallanzani, grande fisiologo e naturalista. Vedi Antologia della prosa, pag. 504 e seg.

3 Il Meridiano.

E alternando il parlar, spinser le piume
Là dove fa la lira il ciel sereno;
D'Orfeo la Lira, che il paterno nume
D'auree stelle ingemmò, mentre volgea
Sanguinosa la testa il tracio fiume:
E, misera Euridice! ancor dicea
L'anima fuggitiva; ed Euridice,

1

Euridice, la ripa rispondea. 1

Conversa in astro quella cetra, elice 2

Si dolci i suoni ancor, che la dannata
Gente, gli udendo, si faria felice.

3

V.

MONUMENTO DI GIUSEPPE PARINI."

I placidi cercai poggi felici,

Che con dolce pendio cingon le liete

1 Imita questi versi delle Georgiche, IV, 523, ec.:
Tum quoque, marmorea caput a cervice revulsum
Gurgite quum medio portaas cagrius Hebrus
Volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua,
Ah miseram Eurydicen! anima fugiente vocabat :
Eurydicen toto referebant flumine ripae.

2 Vedi pag. 15, nota 2.

Gli udendo non si usa in prosa, e non è bel modo neanche in poesia. Dalla Mascheroniana (canto IV, v. 202-258). Qui il Poeta fa parlare l'anima di Pietro Verri economista, e le anime del Mascheroni, del Beccaria e del Parini l'ascoltano. Gl' interlocutori sono in cielo. A proposito del monumento del Parini, che qui si descrive, ecco quanto si legge nella prefazione de' Sepolcri del Foscolo, Brescia, 1808: « Da' cultori di tanto Poeta (il Parini) singolare gratitudine merita l'avvocato Rocco Marliani, che a Erba, nello splendido ed elegante edifizio della sua villa Amalia, consacrò un monumento allo spirito dell'amico suo. La tomba è protetta da una macchia di lauri, e il sole cadente manda cogli ultimi raggi sopra di essa la lunga ombra di un antico cipresso. Esce da un organo sotterraneo un suono melanconico inaspettato dal passeggiere. Nel monu. mento v'è il busto del Poeta in marmo, e nella lapida leggonsi scolpiti que'suoi versi : Qui ferma il passo, e attonito

Udrai del tuo cantore

Le commosse reliquie

Sotto la terra argute sibilar.

E chi da quella collina volge l'occhio al lago di Pusiano, vede la terra (Bosisio) ove nacque il Parini e il vago Eupili ch' egli cantò, e dove cercava conforto alle sue membra afflitte dalla infermità, e riposo all' animo suo stanco della fortuna e del mondo. »

Dell' Eupili lagune irrigatrici;
E nel vederli mi selamai: Salvete,

Piagge dilette al ciel, che al mio Parini
Foste cortesi di vostr' ombre quete;
Quando ei fabbro di numeri divini

L'acre bile fe dolce,' e la vestia

Di tebani concenti e venosini. 2
Parea de carmi tuoi la melodia

Per quell' aure ancor viva, e l'aure e l'onde
E le selve eran tutte un' armonia.
Parean d'intorno i fior, l'erbe, le fronde
Animarsi, e iterarmi in suon pietoso:
Il cantor nostro ov'è? chi lo nasconde?
Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso
Sculto un sasso funebre che dicea:
AI SACRI MANI DI PARIN RIPOSO.

E donna di beltà che dolce ardea

(Tese l'orecchio, e fiammeggiando il Vate
Alzò l'arco del ciglio e sorridea)
Colle dita venía bianco-rosate

3

Spargendolo di fiori e di mortella,
Di rispetto atteggiata e di pietate. 3
Bella la guancia in suo pudor; più bella
Su la fronte splendea l' alma serena
Come in limpido rio raggio di stella.
Poscia che dati i mirti ebbe a man piena,
Di lauro che parea lieto fiorisse

Tra le sue man, fe' al sasso una catena.
E un sospir trasse affettuoso, e disse

Pace eterna all' amico: e te chiamando,
I lumi al cielo sì pietosi affisse,

Che gli occhi anch' io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura, o quale

Il poema del Giorno. Vedi pag. 33 e segg.

2 Le Odi, ch'egli chiama pindariche e oraziane, a significare forse l' altezza de' pensieri congiunta alla squisita eleganza della forma. Vedi pag. 1-33. Rammenta quel verso di Dante che dice:

3.

Di lagrime atteggiata e di dolore.
Purg., X, 78.

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