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Travalica il tempo, va incontro indovina
Ai raggi d'un giorno che nato non è:

Tien dietro a un clangore di trombe guerriere,
Pon l'orme su un campo, si abbatte in ischiere
Che alacri dell' Alpi discendono al piè.
Ed ecco altre insegne con altri guerrieri

Che sboccano al piano per altri sentieri,
Che il varco ai vegnenti son corsi a tagliar.
Là gridano: Italia! Redimer l'oppressa!
Qui giuran protervi serbarla sommessa:
L'un'oste su l'altra sguaïna l'acciar.
Da ritta spronando si slancia un furente:

Un sprona da manca, lo assal col fendente,
Ne svia da sè il colpo che al petto gli vien.
Bestemmian feriti. Che gesti! che voci!
La misera guarda, ravvisa i feroci:

Son quei che alla vita portò nel suo sen.
Ahi! ratto dall' ansie del campo abborrito

S'arretra il materno pensiero atterrito,
Ricade più assiduo fra l' ansie del dì. 1
Più rapido il sangue ne' polsi a lei batte:
Le schede fatali dell' urna son tratte.
Qual mai sarà quella che Carlo sortì?
Di man de' garzoni le tessere aduna,

Ne scruta un severo la varia fortuna,
Determina i sette che l'urna dannò.
Susurro più intorno, parola non s'ode;
Ch' ei sorga e li nomi la plebe già gode,
Già l'avido orecchio l' insulsa levò.

E Giulia reclina gli attoniti rai

Sul figlio, e lo guarda d'un guardo che mai

Con tanto d'amore su lui non ristè.

Oh angoscia! ode un nome; - non è quel di Carlo;

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Cioè, del pericolo, nel quale ella si trova in quel giorno, che deve decider

la sorte di suo figlio.

È un'altra la madre che piange per lui.
Ah! forse fu invano che Giulia tremò.
Com' aura che fresca l' infermo ravviva,
Soave una voce dal cor le deriva

Che grazia il suo prego su in Cielo trovò.
Le cresce la fede: nel sen la pressura

Le allevia un sospiro: con men di paura

La settima sorte sta Giulia ad udir.

L'han detta; — è il suo figlio: doman vergognato,

Al cenno insolente d'estranio soldato,

Con l'aquila in fronte vedrallo partir.

II.

MATILDE.

La fronte rïarsa,
Stravolti gli sguardi,
La guancia cosparsa
D'angustia e pallor:
Da sogni bugiardi
Matilde atterrita,

Si desta, s'interroga,
S'affaccia alla vita,
Scongiura i fantasimi
Che stringonla ancor:

« Cessate dai carmi;

» Non ditelo sposo:
» No, padre, non darmi
>> All' uomo stranier.

» Sul volto all'esoso,
>> Nell' aspro linguaggio,

» Ravvisa la sordida

» Prontezza al servaggio,

» L'ignavia, la boria

» Dell' austro guerrier.

Immagina il Poeta che a' tempi dell' oppressione straniera in Italia Matilde abbia sognato che il padre volesse darla in isposa ad un soldato austriaco.

>> Rammenta chi è desso,
» D'Italia gli affanni;

>> Non mescer l'oppresso
>> Col sangue oppressor.

» Fra i servi e i tiranni
» Sia l'ira il sol patto.
» A pascersi d'odio,
>> Que' perfidi, han tratto
> Fin l'alme più vergini,
>> Create all' amor. >>
E sciolta le chiome,
Riversa nel letto,
Dà in pianti, siccome
Chi speme non ha.
Serrate sul petto

Le trepide braccia,
Di nozze querelasi
Che niun le minaccia,
Paventa miserie

Che Dio non le dà.
Tapina! L'altare,

L'anello è svanito;
Ma innanzi le appare
Quel ceffo tuttor:

Ha bianco il vestito,
Ha il mirto al cimiero,
I fianchi gli fasciano
Il giallo ed il nero,
Colori esecrabili
A un Italo cor.1

1 E fra le Romanze del Berchet delle più accurate nella forma, e delle più poetiche nel concetto. Paragona queste due poesie a quelle del Manzoni, e vedi pag. 250, nota 1. L'amor della patria e la consonanza de' pensieri e de' sentimenti del Berchet con quelli che si venivano sempre più diffondendo in Italia, diedero alle sue poesie una celebrità popolare, che altre poesie di molto maggior pregio letterario non potranno conseguire: però nella storia della nostra letteratura risplenderà il nome di Giovanni Berchet, e sarà lodato e proposto in esempio il nobile intento, a cui rivolse l'ingegno, anche quando saranno dimenticati allatto i suoi versi, » Così, e giustamente, Francesco Ambrosoli.

264

SILVIO PELLICO.

I.

TANCREDA. 1

E voi pur, mie native itale balze,

Siete albergo di prodi. A quelle antiche
Lance il mio sguardo affisso onde severo
Di questa sala addobbo han le pareti,
E in ciascuna vegg' io di quelle lance
La storia d'un eroe. Tu, generosa
Fanciulla del Chiusone, abbi il mio canto.
Del torrente Chiusone io visitai

La sacra valle, e visitai quel loco
Ove le gorgoglianti onde comprime
Di qua e di là deserto, orrido monte,
E orrido più a sinistra e di pendenti
Alte rupi tutto irto il Mal-Andaggio:3
E salii quelle rupi, ed ombreggiata

Di scarsi, annosi pini una fontana *

1 Il Poeta immagina che questo Poemetto sia stato cantato da un trovatore saJuzzese alla Corte del suo signore, all'occasione di una festa, nella quale da' trovatori stranieri furono cantati eroi de' loro paesi. L'azione che qui si descrive, ha luogo al declinare del secolo X. Le note non segnate d' asterisco sono dell' Autore.

2 Questo torrente vien giù dalle valli di Fenestrelle e passa poco distante da Pinerolo.

3 A sinistra del Chiusone, tra le Porte e il l'illaro, è un monte scoscesissimo chiamato il Mal-Andaggio: questo altre volte pendeva in tal guisa sul torrente, che difficilissimo era il passo. Pare che ai tempi di Tancreda gli uomini non avessero ancora penetrato da quella parte oltre il Mal-Andaggio.

4 Gli abitanti di quelle valli conservano un superstizioso rammarico, perchè nel fare la strada del Mal-Andaggio s'è distrutta la fontana detta degli Eemili, alla quale si attribuivano virtù miracolose.

Mi dissetò, ed accanto era una grotta

Che mi raccolse, e oh gioia! in quella grotta
Rozzamente scolpito era un macigno,

E i nomi io lessi d' Eudo e di Tancreda.
Ivi crebbe Tancreda, ancor non volve

Il secol terzo: ignara ivi del mondo
Come innocente belva,

aspra, felice, Libera vita ella vivea col padre.

« Padre, e che ti conturba? Indegnamente
Tratto forse quest' arco? Il fiero lupo
Non atterrai? Pur lode alta donasti

Al valor mio. » - Così dicendo, al vecchio
Colle rosee sue mani amabilmente

Scosta d'in sulla fronte il crin canuto,
Quasi del caro genitor a' gravi

Presuma ivi pensier togliere il velo. «Non da te il dolor mio, non da te mai,

Angiol del mio deserto. Un dì, nè lunge
Forse è quel dì, ti narrerò la istoria
Della terra che giace oltre que' monti,
Ove talor discendo e a te divieto

Meco il venir, chè terra è di sciagura, »
E il dì promesso giunse. Eudo ritorna

Dalle abitate valli: inusitata

Fiamma dardeggian gli occhi del guerriero,
Come negli anni di sua gloria: ei fermo

Ha il sublime proposto.

« Odi, o fanciulla:

Voce è questa d'Iddio che al cor mi parla;
Respingerla non posso. Io già in perenne
Ignoranza lasciar ti desïava

Di tutte angosce umane, e trarre io stesso
Qui sempre al fianco tuo giorni di pace.
Forza è che ciò non sia: la coscienza
D'un delitto è con me ch' espïar debbo
O morir. >>

Si scolora a questi detti
La bella guancia di Tancreda. Ei segue.

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