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Che i lupi chiamava sul misero gregge;
Per gire sul trono, calpesta l'altar.
Vi sacra il crudele la spada omicida

Aspersa di sangue, di sangue che grida:
O nave di Pietro, è questo il tuo mar?
Ed hai sul vessillo il nome di pace!

Il mondo ingannasti, parola mendace,
E il Santo nel Cielo per gli empi arrossì.
O tu, che soffristi per tutti i mortali,

Che liberi hai fatto, fratelli, ed uguali
Col sangue che i ceppi dell' uomo abolì,
Percoti l'errante che il mondo ha diviso.
Col nome di Rege tu fosti deriso,
Ed ei questo nome dimanda per sè.
Lo chiede al tiranno che uccise i tuoi figli:
Al mostro tedesco consacra gli artigli....
L'Italia nel Cielo sol abbia il suo re.1

G. B. Niccolini gode di una fama popolare fra noi, e n'è debitore, più che agli altri suoi scritti, alle tragedie: e queste son tenute in grande amore non tanto pei pregi dell'arte. che molti ne hanno ed insigni, quanto per il nobile intento, a cui furono costantemente rivolte di liberare l'Italia dal doppio giogo della servitù paesana e forestiera. E veramente in questa parte il Niccolini è degno senz' alcun dubbio di essere annoverato fra i poeti nostri che più meritarono della patria. Come artista pare si proponesse di essere eclettico, ma per conseguenza inevitabile di questo sistema ondeggiando quasi irresoluto fra la scuola antica e la nuova, come è accaduto a quasi tutti gli scrittori toscani, inclina più volentieri alla prima. Nell' Arnaldo da Brescia, che è fra gli ultimi lavori che facesse, e riuscì il più famoso di tutti, quanto alla struttura del poema e all' unione de' due elementi Jirico e drammatico insieme, si avvicinò più che sempre alle idee moderne (dico moderne per l'Italia e specialmente per la Toscana; ma quanto alla forma dello stile, anco in questo come in altre sue opere sta saldo quasi sempre agli esemplari

antichi.

Per ragioni simili a quelle dette sopra (pag. 85, in nota) a proposito del-` J'Alfieri, io non ho posto qui neanche una scena delle tragedie del Niccolini; ma ho scelto fra le poche liriche di lui, e nella parte strettamente lirica dell' Arnaldo, ciò che mi è sembrato migliore e più adattato all' indole di questa Antologia.

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GABRIELE ROSSETTI.

I.

PER LA MORTE DI LUIGI QUATTROMANI.

Furon tristi, o Luigi, i giorni tuoi,
Nè la patria si mosse alla tua fama,
Ed or che indietro più tornar non puoi,
Or ti richiama.

Chi più di te nel poetar veloce?

Di biblici tesori arca fulgente

Onde di Dio lo spirto ergea la voce

Fu la tua mente.

E fuor che un vano applauso (oh steril vanto!)
Qual premio avesti tu dal patrio suolo?
Tu, colomba al costume e cigno al canto,
Aquila al volo!

Allor ch'io scrivo e canto, in rammentarti
Sento estinguersi in me l'estro più vivo:
Ma poi mi par sì bello il somigliarti,

Ch' io canto e scrivo.

Cigni profani che fra nappi aurati
L'alma assopendo inebriate i sensi,
Che ai pomposi delitti fortunati

Ardete incensi,

Di sua profetic' arpa al tintinnio

Taciturni arrossir più non vi scerno:
Sta sulle labbra del cantor di Dio

Silenzio eterno.

Deh, tu che con la luce del tuo crine

Fugasti dal caos l'ombre più triste,

Senza principio e fin Principio e Fine
Di quanto esiste;

Dopo sei lustri e sei d'un' aspra guerra,
Di quel nobile cor compensa il zelo !
Abbia l' iniquo il suo trionfo in terra,
Il giusto in cielo.1

E tu, dal sen di Dio dov' or sei giunto,
Dimmi, rammenti il nostro nodo antico?

Non far che in tutto io perda in un sol punto
Maestro e amico.

Oh quante volte lo chiamai beato

Quel dì che udii la voce tua sonora!
No, che quel dì per me non è passato,
Lo veggio ancora.

Tra 'l batter dell' estatiche pupille
Con moto rapidissimo frequente
Balenavan le delfiche scintille

Visibilmente.

Ed or pingevi sul pendío del monte
Mosè disceso dal divin congresso,
E di sua fronte il lume alla tua fronte
Parea trasmesso;

Or colui che col suon di sue parole

Fermò sull' asse il sol nel dubbio marte,
E di nuovo parea fermarsi il sole

Per ascoltarte;

Or l' imberbe garzon che a morte trasse
In val di Terebinto il Filisteo,
E parevi David che salmeggiasse
Sul suo trofeo.

Salve, o beato memorabil giorno,
Che l'alma alloga
E salve tu che, il

fra le idee più belle!
crin di raggi adorno,

Calchi le stelle!

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1 Bel pensiero: ed è forse il tratto più felice di tutta l'Ode, la quale ha qua e là qualche gonfiezza.

2 Alloga, cioè pone, colloca. Vuol dire che l'anima pone quel giorno fra le idee più belle, ossia fra le memorie più belle e più care. L'espressione non è al certo delle più felici.

Qual pel cammin del ciel ch' ampio s' inarca
Sen passa il sol cinto di rai le chiome,
Tal sul dorso de' secoli sen varca

Chiaro il tuo nome.

Ve' ch' ei s'innalza di sua luce adorno,
Ve' ch'a incontrarlo eternità discende!
Tumultuosi fremon gli anni intorno:

Ei passa e splende.

II.

IL POETA CIECO

PRENDE COMMIATO DALLA PATRIA E DALL'ARTE.

I.

Videro gli occhi miei, videro, ahi lasso!
Ne veggon più, ch'ombra feral gli vela:
Chi fia di guida al vacillante passo
Dell' esul pellegrin che stanco anela?
Dogliosa notte, eterna notte è meco:
Italia Italia, il tuo Veggente è cieco ! 1
Ai guardi miei ch' eran cotanto acuti

Offre il meriggio stesso ombra perfetta.
Ancor che tosto il tuo destin si muti,
Non ti vedrò mai più, patria diletta!
E come mai goder d'un tal contento,
S'anco il tuo vivo Sol per me si è spento?
Teatro di volubile fortuna

Ove danzar l' Erinni a suon di tromba,

Terra infelice ove sortii la cuna

E dove m' augurai d'aver la tomba,

Florida terra cara agli occhi miei,

Quand' anche or fossi in te, non ti vedrei!

Ad ingannar la cupida mia mente

1 Tutto questo luogo è tolto dall' ultima parte del Poema politico-religioso intitolato: Il Veggente in solitudine.

Spesso una frode usava, Italia bella:
Qual tenero figliuolla madre assente
Contempla in un' imago e le favella,
Così talor con desiosi rai

Sull' atlantica carta a te parlai.
Ed or, qualvolta solitario io seggo,

Brancolo, trovo il libro, al cor mel premo;
L'apro, inchino la fronte, e non ti veggo;
E dal fondo del cor sospiro e gemo.

Ahi, da qual grave duol quest' alma è colta!
Par ch' io ti perda una seconda volta.
Antico municipio de Romani1

Ove apersi le luci ai rai del giorno,
Tu che ornando la spiaggia dei Frentani
Hai l' Adria a fronte e lieti colli intorno,
Ed a mostrarci dei tuoi figli il merto
Tinghirlandasti di palladio serto;
Vaghi lidi, il cui specchio, il cui susurro,
Sol per interna imago or sento e miro,
Ove in me riflettea vivido azzurro

D'un bel ciel, d'un bel mar l'emul zaffiro;
Bei campi ove offre il dì che sorge e cade,
Quasi smeraldi e perle, erbe e rugiade;
Coronato di nubi alto Appennino,

Ai cui fianchi pascean torme lanose;
Colline apriche ove scherzai bambino,
Ove adulto cantai vallette ombrose;
Addio per sempre! innanzi al guardo mio
Non verrete mai più: per sempre addio!
Addio, Vesévo, che fra l'ombre splendi
Tetro gigante su campagne amene!
Udir potrei quei tuoi muggiti orrendi,
Ma non veder quelle tue varie scene,
In cui divien, per lunga ignita traccia,
Spettacol di piacer la tua minaccia.
Addio, per sempre addio, Roma infelice,

Ch'or sì depressa come un dì fastosa,

La città del Vasto, nell' Abruzzo, dove nacque il Poeta il 28 febbraio 1783.

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