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Quai tempestan lassù del giganteo
Serpe i volumi. Nelle man palleggi
Lunghissima e tremenda asta che fulge
Qual farebbe un pianeta che di loco
Ratto movendo, quanto ciel trascorre,
Tanto moltiplicar goda se stesso:

Reggi immenso pavese, il cui gran cerchio
Steso fra la region superna e il mondo,
Cuopre la tua città con le boscose
Campagne intorno, e del piceno alpestre
I finitimi gioghi in sino ai fonti

Di Metauro e alle roccie aspre Eugubine.
Di tale arnese sideral guernito

Parevi il dì che offristi in sull' Isauro
Visibil segno della tua virtute.

Stretto di presso era il tuo caro nido
Dall' invasor Francese, e mal provvista
D'armi e inscïente de' guerreschi studii
Sullo spalto accorrea plebe animosa,
Più di coraggio che di ferro e d'arte
Munita. Ne dal suo fiero proposto
Assai nè poco la piegâr le mostre
Di libertà mendace e le profferte
Generose che avean sul labbro i Franchi.
E quando portator di libertate

Fu lo straniero mai? quando dai Franchi
Questa misera Italia ebbe salute?
Di spessi audaci assalitor più sempre
La vasta onda crescea, pari al marino
Gran fiotto, e folte avean scale drizzate
Lunghesso le cortine: era di travi
Oggimai fino agli orli e di macerie

Colmo il fossato, e spaventevol gridi
Mettendo e nelle man fiamme squassando,
Vêr l'ardue cime impavidi e feroci

Già l'un l'altro spingean, già mezzo il muro

1 Cioè, spire, avvolgimenti. Questa bella descrizione è fatta con colori tolti da Omero.

Avean salito e già teneano il sommo:
Quando sulle trincee fra repentino
Chiaror tu discendesti, ' e l'armatura
Terribile onde tutto eri coperto
Sfolgorò sì, che il mar vicino e l'etra
E le schiere nemiche empiè di lampi
E di barbagli. Un' iride sembrava
Dispiegarsi e ondeggiar sopra il tuo capo:
Era l'insegna tua che a facil vento
Il grembo dischiudea, bianco qual neve
E fiammeggiante d'indico piropo,
E di verde smeraldo insiem dipinta;
Tra i fulgidi color parea nell' oro
Sculto d'Italia il venerabil nome:
E intanto per lo ciel l'âer solcava
Un' aquila divina, a cui sul capo
Tessean raggi e baleni il formidato
Da tutte genti imperïal diadema;
Ella d'inver la meridiana plaga,
Da suoi fati sospinta, il vol battea.
Tremâro all' alta visione i Franchi,

Entro il pugno tremâr le scinte spade;
Ma gioi il popol tuo sul muro accolto,
E mille fulminò dall' appuntate
Colubrine le morti e dagli scoppii. 2
Molti nel vallo e molti per le larghe

Maggesi tra le salse onde e l'Isauro
Restaron corpi esanimati e ignudi,
Che ribrezzo movean con le riverse
Faccie e la gora del putrido sangue.
Lieto, in questa, correa per la cittade
Il grido di vittoria, e in ogni dove
Con dolce pianto e con osanna il forte
Tuo propizievol nome iva alle stelle;

È pia credenza de' Pesaresi che il giorno in cui respinsero l'assalto delle armi francesi, San Terenzio, patrono della città, comparisse sulla trincea in abito guerresco e con in mano uno stendardo. (Nota dell' Autore.)

2 Schioppi, fucili.

Te in Olimpo dicean magno incremento
De l'immortali schiere, e sulla terra,
Te condottier, te padre e te felice
Dell' Isaurica gente ausiliatore.
Chiamavan te muro d'acciar perenne
Sugli abissi costrutto, arco di bronzo
Mai non lentato, e non frangibil mai,
Spada che vampeggiando apre la notte
E sue lingue di fuoco orrende vibra,
Rocca della città, di sue milizie
Vessillifero eterno e sempre insonne
Guardia locata alle sue sacre porte.
Questi alti nomi allor, queste accoglievi
Degne salutazion del popol tuo,
Che gioiose ascendevano e incessanti,
Qual dai boschetti della mirra esala
Su per lo Sirio ciel nube odorosa.
Allor d'insigni paramenti e d'auro
Rise il sacrario tuo; allor di mille
Incensier vaporò, dette splendore
Di fiaccole infinite, e ricchi e folti
Vide ai fastigii, alle colonne, agli archi
Pender chiari trofei d'armi e bandiere.
Salve, e a quest' inno ancor grazia conserva
Per le italiche ville. Io l' are tue

Più non vedrò, nè dopo aggiunto il fine
Del mortal corso, di posar concesso
Mi fia le carni travagliate e stanche
Nel suol dolce nativo in sul ruscello
Di Gènica, e alle quete ombre pietose
Degli alti picppi ove de' giusti il sonno
Dormon le lacrimate ossa paterne:
Quanto ancor l'aure spirerò, vedrammi
II Sol tra forestiere, invide genti,
Viver ramingo e in qualche strania fossa
Lasciare il mio cener proscritto. Or m'odi,
Beato spirto, e il prego affettuoso

Non rispinger da te: quando varcate

Le porte dell' esiglio, io cittadino
Verrò del regno ove non son tiranni;
Quando una mano al triste ufficio compra
Questo capo infelice avrà nel freddo
Sudario involto, e senza duol nè pianto
Peso farammi a povero ferètro;

Deh! in mezzo a' miei, della mia polve invece
Resti segno d'amor, segno di fede,

La devota armonia di questo breve
Carme, ed ogni anno al di festo e solenne
L'odan suonare al tuo sepolcro intorno,
E memoria di me tutta non pêra. 1

1 Quanto alla ragion poetica di questo Inno a San Terenzio, e in generale di tutti gl'Inni sacri del Mamiani, vedi ciò che ne dice egli stesso nella dotta Prefazione (Poesie di Terenzio Mamiani, nuova edizione. Firenze, Le Monnier, 1857). Jo delle tante cose che ivi ragiona riferitò solamente questa che segue:

"Letti quegl' Inni da alcuno intendente (egli dice), per questo propriamente li censurò che i personaggi ivi verseggiati non erano Sante e Santi, ma Iddii e Dee simili a Diana, a Vesta, ad Apollo. La stimai una grossa iperbole: tuttavolta io ci vidi dentro qualche parte di vero, e non so scusarmene interamente nemmanco oggi: e s' io dicessi o felix culpa, sentirei di commettere una profanità.

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ANDREA MAFFÈI.

I.

INFERMO.

Parigi, settembre 1855.

Chè seguir non ti posso, o mio pensiero,
Con queste membra dolorose? Un duro
Letto a te non è carcere! sicuro,
Libero per l'immenso è il tuo sentiero.
Dalla terra alle stelle hai tu l'impero;
A vol tu varchi i secoli che fûro,
Non ti arresta il presente, e del futuro
Nella notte t'immergi e nel mistero.
Ma benchè de le stelle e della terra,
Dello spazio, del tempo arbitro sei,
Te col mio core un breve angolo serra:
La dolce culla de' parenti miei.

Oh se il piè va ramingo, il cor non erra,
Mai non erra il mio cor lungi da lei!

II.

UNA VIOLA DI MAGGIO.

Sparir le tue sorelle, o violetta,

E tu deserta sul gambo cadente
Langui al fervido Sol che ti saetta,
Come un ultimo lume in occidente.

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