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Esca infelice e credula
D'un esecrato foco;
Tu regni, e ai ciechi popoli
È legge il tuo costume:

Cangi, e a tua voglia cangiano
In lui le belle un nume.
Ha, tua mercè, l'imperio
Su i cor ragion perduto:
Per l'arti tue Proserpina
Saria rapita a Pluto.1

II.

LA FELICITA.

Dunque gli dii non volsero
Le mie speranze in gioco:
Te dunque ancor che tacita
Pur arse il nostro foco.
Chiusi volea modestia

Quei cari labbri in vano,
Chè aprirli al fin compiacquesi
Amor di propria mano.

Tu m'ami: il tuo resistere

A torto al fin m'increbbe :
Esso alla mia vittoria

Pregio novello accrebbe.

1 Neanche parlando della moda, sa dire addio alla mitologia. L'ode comincia molto bene, e, quanto allo stile, procede bene sino in fondo; ma dalla strofa nona in giù l'affetto quasi svapora dentro quelle forme mitologiche, che più non parlano al cuore. Anco il Parini ricorre alla favola, ma qualche volta, non sempre; e spesso sa ravvivare que' miti e quasi infonderci un sentimento nuovo. Il Savioli invece gli piglia alla lettera. gli lascia quello che sono, reminiscenze erudite, e non altro; si contenta di ritrarne il difuori, non ci guarda dentro. Certo vede netto, distinto, e dipinge da buon pittore. Ogni sua ode è una serie d'immagini ben disegnate e colorate. E tu le guardi con piacere, mentre passano; ma ecco, son passate tutte, senza lasciarti un'orma durevole nella fantasia o nel cuore. Tale si è il Savioli. Dal Parini a lui si fa un gran passo addietro.

Deh! più gradita all' animo

Per te, che il puoi, si renda!
Che per mio ben ripeterla

Dalla tua bocca intenda!
Escan sinceri e liberi

I tuoi sospir dal core:
Quegli occhi i miei ricerchino,
E in lor gli arresti Amore.
Noi vegga uniti Apolline
S'esce dal lido eoo,

Noi se nel freddo oceano
Attuffa Eto e Piroo.1

Se te destin contrario

Dal fianco mio non parte,
Con pace sia di Venere,
Lei non invidio a Marte.
Me Amor di novo imperio
Non graverà, ch'io creda;
Egli che ad altra tolsemi,
Onde foss' io tua preda.
Fiamma, se i voti il mertano,
Eterna ad ambo ei dia:

Che ognor l'istessa io troviti,
E novo ognor ti sia!

Pochi la Parca indocile

Anni mi lasci omai:

Se teco possa io viverli,
Sarò vissuto assai.

Tu (al desiato uffizio
Ti serbino gli dei)
Colla tua mano chiudere
Devi questi occhi miei.
Richiameran tue lacrime
Il fuggitivo spirto:

Tu l'urna ov' io riposimi
Coronerai di mirto.

Vedi pag. 56, nota 1.

Poi, dove i casi il chieggano,
Rasciugherai le gote:

Oltre alle fredde ceneri
Amor durar non puote.
E Dido ancor serbavasi
Fida all' estinto sposo:
Ombra gelosa e credula,
Fu breve il tuo riposo!
Figlio dell' aurea Venere,
Giunon fuggendo e l'acque,
Enea discese ai vedovi

Novelli regni, e piacque. 1

Ben condotta quest'ode, ma, come tutte le altre di questo Poeta, è di sentimento e d'immagini affatto pagana. Dice giustamente il Carrer che, leggendo le poesie del Savioli, si crederebbe di leggere quasi altrettante traduzioni dal latino. Queste parole tornano a lode dell'artista ed a biasimo del poeta.

AGOSTINO PARADISI.

I.

LA PAROLA DI DIO.

Voce di Dio, terribile
De i gran decreti eterni
Moderatrice ed arbitra,
Voce che il ciel governi;
Con non vulgari accenti
Su'pregi tuoi sollevasi
Il suon de' miei concenti.
Quai di te non si videro
Grand'orme luminose
In ogni età diffondersi
Per le create cose?
De le tue lodi suona

La terra e il vasto empireo,

Tutto di te ragiona.

Tu quella sei cui servono

Sbigottiti i mortali,
A cui gli spirti eterei
Tremando curvan l'ali,
Cui dal cocente lago1
Risponde in suon di fremito
Il fulminato drago.
L'oscura faccia ed orrida

Del primo mondo informe
Per te si vide emergere

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Da le confuse forme,
Quando al prim'urto ignoto
L'ima materia immobile

Corse le vie del moto.'
Disciolse allor le rapide

Piante e i robusti vanni
Vecchio fiero indomabile

Che corre al par con gli anni:
Arse l'eterea vampa
Ne l'inesausto turbine
De l'apollinea lampa.*
Di Dio la man benefica

Chi fia che non riveli?
Del sommo fabbro a l'opera
Fanno ragione i cieli:
Notte vagando intorno
A l'altra notte annunziala:
Ne parla il giorno al giorno.

Già de l'infuso spirito

Ferve al calor la terra,
E dal sen cavo e fertile
Succo vital disserra:
Varia prole di belve
Al rezzo già raccogliesi
De le chiomate selve.3
Ecco più tardo sorgere
Da l'animato limo
Su l'eden beatifico

L'uom, che fra tutti è il primo,

In cui luce e sfavilla

De la divina immagine

La damascena argilla. *

Poesia bella e originale, e tanto più notevole in que' tempi d'imitazione. 2 Cioè il tempo e il sole; ma queste immagini e locuzioni mitologiche non istanno qui d'accordo col rimaneute. È un tributo che il Poeta paga al gusto de' tempi suoi.

Questa è lirica davvero, ma dalla metà in giù il canto perde qua e là assai della sua forza.

Vuol dire l'argilla del Paradiso terrestre, della quale fu formato il corpo umano, perchè taluni hanno pensato che il Paradiso terrestre fosse presso al luogo dove fu edificata Damasco. Vedi su questo proposito il Calmet, Dizionario biblico.

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