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l'organamento ecclesiastico, il nostro poeta avrà tolto quest'elemento della sua monarchia dalla società feudale, la quale gli offriva certamente l'esempio di una dipendenza non priva di molte libertà, qual era quella dei vassalli di fronte al loro signore. L'efficacia del feudalesimo dev'essere stata grande anche sul pensiero dantesco e, a voler essere esatti, si può affermare che l'organamento della Chiesa stessa, col papa a capo e tutta la gerarchia ne' suoi vari gradi da lui dipendente, sia, in parte almeno, foggiato su base feudale.

Forse di maggior interesse è la questione, se Arrigo VII abbia o no contribuito a formare il monarca ideale.' A parte l'opinione esagerata di chi vuol fare dell'alto Arrigo una specie di deus ex machina, il quale colla sua morte dà l'ultima scossa alla mente di Dante e l'induce ad attuare il vasto disegno della Commedia che gli tumultuava dentro; 2 resta però innegabile il fatto della grande efficacia che quell'animo nobile esercitò sull'Alighieri. Nel caso che le Epistole, dalle quali spira il piú sincero entusiasmo o, meglio ancóra, il più grande fanatismo pel Lussemburghese, sieno apocrife,3 ci persuaderebbe di leggieri l'apoteosi dello stesso nel Paradiso (Par., XXX, 133138) della memoria riconoscente e del culto che il nostro poeta gli serbava, anche dopo che quella morte repentina gli aveva fatto provare la piú crudele delle disillusioni, e molt'anni erano passati da quell'avvenimento doloroso. Arrigo VII era l'unico contemporaneo al quale Dante perdonava tutto; anche la mala riuscita dell'impresa d'Italia, anche la mancanza d'energia e di risolutezza. L'imperatore era animato dalle migliori intenzioni a raddrizzare le sorti della monarchia; se l'impresa era fallita, la colpa

1 Importante in questo riguardo è l'opuscolo dell'ARMSTRONG, L'ideale politico di Dante, Bologna, 1899.

2 Questa è l'opinione del KRAUS, Dante, Berlin 1897, p. 393 e segg. e dello ZINGARELLI, Dante, Milano, P. 455-456; vedila confutata dal PARODI, La data della composizione e le teorie politiche dell'Inf. „ e del " Purg. „ di Dante in Studi romanzi ed. dal Monaci, Roma, 1905, p. 15 e segg.

3 Confesso che la lettura dell'Epistole scritte in occasione della calata d'Arrigo, ed il confronto delle stesse con le altre opere dantesche, m'hanno persuaso sempre piú della loro autenticità. Anche K. VOSSLER, nell'ultimo volume della sua opera dantesca testé uscito, Die göttliche Komödie, Entwicklungsgeschichte u. Erklärung, I, Band, II, Teil, Ethisch-politische Entwicklungsgeschichte, Heidelberg, 1907, p. 282, è della medesima opinione, anzi si meraviglia, che la critica pedante continui a riguardare con occhio grettamente dubbioso questi fremiti sinceri d'un'anima titanica.

ricadeva tutta sugli uomini, che non erano ancora ben disposti ad accogliere l'apportatore di pace e libertà; cosí ragionavano i fautori del medesimo.

Dante ed Arrigo VII sono realmente due caratteri affini, due individualità che si rassomigliano in molte cose; cresciuti in ambienti differenti ed allevati in luoghi ben discosti tra loro, essi ebbero a sentire l'influsso della stessa corrente del pensiero medioevale. Le loro convinzioni sono patrimonio comune della coltura di quel tempo, e con la medesima probabilità che in Italia, poteva sorgere in Germania od in Francia un' alta mente a propugnarle con gli scritti o con i fatti.

Le qualità poi che Dante attribuisce al suo monarca ideale sono cosí generiche, cosí poco individuali da non permettere una sicura indagine, se avessero o no qualche attinenza sicura colla realtà. L'amore della giustizia e della pace non sono doti peculiari del monarca dantesco o d'Arrigo VII soltanto; ma sono invece lodate durante tutto il medio evo, specialmente la giustizia,' come la migliore virtú d'ogni buon reggitore. Neppure l'universalità dell'impero, idea comune ad entrambi, è una novità, giacché troviamo in quei secoli ripetuta a sazietà questa concezione ideale della monarchia. Forse ha píú del particolare l'odio che professano tutti e due per gli esecrabili nomi di Guelfo e Ghibellino, sentimento naturale e spontaneo in chi avea ormai visto le tristi conseguenze di quella divisione. È da notare però che quest'ultima è piuttosto una dote personale di Dante che non una qualità speciale del suo utopistico monarca. L'Armstrong s con molto acume ma forse con un po' d'artifizio, fa un parallelo tra il de Monarchia e la vita d'Arrigo in Italia; pel quale ai tre libri del trattato dantesco corrisponderebbero tre

3

1 ARTURO GRAF, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medio evo, vol. II, Torino, 1883, p. 8: "Il medio evo ebbe dello stato un concetto essenzialmente etico, e pose la giustizia primo fondamento della politica """

2 Concediamo volentieri che Dante debba questa particolarità ad Arrigo VII, tanto più che la troviamo espressa chiaramente soltanto nel Paradiso (VI, 100-105), certamente di data posteriore alla morte del suddetto imperatore; del resto anche Ferreto vicentino (v. CIPOLLA, p. 51) esprime ugualmente il desiderio che i nomi delle due fazioni abbiano a cessare; ma egli è quasi d'una generazione posteriore all'Alighieri.

ARMSTRONG, op. cit., pp. 20-21: "O questo libro aveva per base la vita di Arrigo VII, o appena scritto sorse un sovrano a mostrarne la praticità „.

periodi nella vita dell' imperatore. Questa corrispondenza che credo fortuita, dà piuttosto una prova dell'acutezza del dotto critico che non una conferma della relazione che c'è tra il poeta e l'imperatore. Certo l'affinità tra i due esiste, ma in molto minor grado ed in senso piú largo, cosicché oserei affermare che Dante possa aver concepito il suo monarca ideale anche senza conoscere Arrigo, e viceversa Arrigo sia potuto arrivare ad una analoga concezione ideale del suo ministero anche senza aver prima letto il de Monarchia.' Naturalmente quest'asserzione non esclude il fatto che la vita e gli scritti dell'imperatore abbiano aiutato l'Alighieri a chiarire meglio qualche particolarità del suo astratto monarca od a rafforzarlo in qualche sua convinzione.

Conchiudendo, il monarca dantesco è l'ideale del reggitore quale lo vagheggiò, senza raggiungerlo mai, il medio evo; formatosi lentamente attraverso a' quei secoli, giunge coll'Alighieri alla maturità di concezione. Questa figura astratta, pallido riflesso d'una idea teologico etica, dileguerà ben presto al contatto dell'umanesimo, che le opporrà il tipo molto piú umano, anzi troppo umano, del principe, di cui troviamo il primo germe già nel Petrarca (Epistole senili, 1. XIV, ep. 1).

2). La monarchia nella storia.

Studiata e definita la natura della monarchia e del monarca dantesco, sorge subito la questione, quale sia il popolo prescelto alla universale dominazione e quale il luogo predestinato a tali destini. Ed in verità, un simile argomento era di somma importanza per quel tempo, poiché allora era già scossa la piena

ed illimitata fiducia che aveva nutrito tutto il medio evo per la città imperatrice; si cominciava già, benché un po' sommessamente, a dubitare dell'eternità dell'impero romano; di peggio, un ardito trattatista francese andò tant'oltre da progettare uno smembramento dell'impero che avrebbe condotto alla supremazia della Francia sopra i popoli cristiani. Cosí l'Alighieri consacra, ed a ragione, tutto il secondo libro del de Monarchia a dimostra

Questa nostra asserzione vale, si noti bene, soltanto per il suo monarca ideale, non per la concezione politica in genere della Monarchia, la quale, a nostro avviso, non può essere sorta, specialmente il 3o libro, prima che Arrigo e Clemente si chiarissero nemici.

2 Pietro Du Bois, v. CIPOLLA, op. cit., pp. 92-94.

re con argomenti razionali e soprannaturali la legittimità e l'origine divina dell'impero, il diritto sacrosanto e indiscutibile di Roma alla dominazione del mondo. Questo libro del trattato dantesco è stato detto, e non a torto, il più debole dei tre, perché vi mancano assolutamente la critica ed il senso storico, e vi abbondano invece le dimostrazioni scolastiche; però esso è un importante documento dell'amore e dell'entusiasmo che gl' ispirava questa madre della civiltà, e della sicurezza con cui egli guardava fiducioso verso l'avvenire dell' impero romano. Tanto più convinta e calda risuona la sua voce in favore dell'alma Roma e del popolo eletto, in quanto che egli stesso, un tempo, aveva professato un'altra opinione a proposito della conquista dell'impero, che i Romani cioè avessero conseguito il dominio universale non per diritto e per predestinazione divina, ma soltanto colla forza delle armi ; poi, avendo studiato il fatto profondamente, si convinse che l'irresistibile espandersi della dominazione romana era opera manifesta della divina Provvidenza. Qui ci troviamo di fronte ad una vera ritrattazione, ad un mutamento importantissimo d'opinione da parte dell'Alighieri, il quale confessa apertamente questo fatto, forse per premunirsi contro le critiche di coloro che, avendolo udito parlare ben diversamente, potrebbero eventualmente rinfacciargli le convinzioni d'un tempo. Si cercò ingiustamente di dare il minor rilievo possibile a questo fatto, che in realtà è importantissimo per chi studia lo svolgimento del suo pensiero politico, e dà modo di formarci una idea, sia pure vaga, di quello che furono le convinzioni politiche durante il primo periodo della sua vita. Aver creduto le conquiste del popolo romano semplice frutto delle armi e della violenza, non è una qualsiasi opinione individuale, alla quale non si debba dar gran peso, ma invece va considerata come un'aperta e chiara professione di fede guelfa, come uno dei capisaldi dei trattatisti guelfi, sopra il quale fondavano la teorica della prescrizione dell' impero romano. Anzi, a dire il vero, ciò avvicina l'Alighieri del primo periodo a' piú acerrimi nemici dell'idea imperialista, a quei trat

1 De Mon., II, c. 1. "Admirabar si quidem aliquando, Romanum populum in Orbe terrarum sine ulla resistentia fuisse praefectum, quum tantum superficialiter intuens illum, nullo iure, sed armorum tantum modo violentia, obtinuisse arbitrabar. Sed postquam medullitus oculos mentis infixi et per efficacissima signa divinam Providentiam hoc effecisse cognovi..."

tatisti francesi che, come Giovanni da Parigi,' negavano e dichiaravano caduti i secolari diritti di Roma, a Roberto d'Angiò, avversario principale dell'infelice Arrigo e de' suoi piani, che affermava l'impero romano essere sorto colla violenza e col sopruso. A noi moderni non sembra evidente tutta la gravità della questione come agli uomini medioevali, i quali, avvezzi a vedere in tutto il dito della divina Provvidenza, privavano l'impero romano, dichiarandolo opera soltanto delle armi e della violenza, di quel fascino misterioso che l'aveva fatto apparire santissimo e pio a tutta l'età di mezzo; lo spogliavano del miraggio della missione morale che faceva dello stesso una istituzione indispensabile al benessere dell'umanità, e perciò destinato ad esistere fino alla consumazione de' secoli, sino alla fine del mondo. A quando risale quest'opinione guelfa dell'Alighieri? Probabilmente essa è anteriore all'esilio, certamente non la professava piú quando incominciò a scrivere la Divina Commedia ed il Convivio.3

Contro questo principale argomento de' guelfi nazionali, non pontifici, è diretto il se

1 Nel modo seguente parla Giovanni da Parigi dell'impero romano: "Si ergo Romani per violentiam acceperunt, numquid iuste per violentiam etiam abiici potuit dominium eorum, vel etiam contra eum praescribi?, V. CIPOLLA, op. cit., p 61.

2 Nelle spesso citate istruzioni di re Roberto a' suoi ambasciatori presso la corte d'Avignone: " Ipsum imperium fuit acquisitum viribus et occupatione... Quod igitur violenter quaesitum est, non est durabile neque permanens, quia est contra naturam,, in BONAINI, Acta Henrici VII, vol. I, p. 233; v. SIRAGUSA, Roberto d'Angiò, Palermo, 1891, p. 163, nota 1a, CIPOLLA, op. cit., p. 62-63, ZINGARELLI, Dante, p. 432; il GREGOROVIUS, Gesch d. St. Rom. vol. VI, p. 104, nota 1a, opina che Roberto intenda parlare qui soltanto dell'impero romano-germanico, non dell'antico romano; ciò non mi sembra probabile, perché il medioevo non ammetteva interruzione tra un impero e l'altro, ma considerava tutti e due come la stessa cosa, e faceva senza riserve 11 computo degl'imperatori romani da Cesare ed Augusto ad Arrigo VII.

3 V. la storia dell'origine provvidenziale dell'impero romano accennata in Inf., II, 20-24, svolta nel Convivio, IV, 4.

4 Nessuno meglio del CIPOLLA, (op. cit., pp. 8-9) ha saputo rilevare la differenza che passa tra i guelfi pontifici ed i guelfi francesi, com'egli li chiama. Io preferisco chiamare quest'ultimi nazionali, perché a questa categoria appartenevano suppergiú non soltanto i trattatisti francesi, ma anche re Roberto, già quasi italiano, i Fiorentini e molti altri principi e comuni d'Italia, i quali, se non teoreticamente, praticamente impugnavano i diritti dell'imperatore romano. Inoltre la loro avversione all' impero proveniva principalmente dal nascente sentimento nazionale, sicché mi sembra meglio

condo libro del de Monarchia, il quale per mezzo di dimostrazioni tolte dalla storia antica e dalle Sacre Scritture, dimostra che il popolo romano s'è impadronito dell'universo per diritto, il che significa con la volontà di Dio, giacché << divina Voluntas (est) ipsum ius. » (c. II). Il diritto di questo popolo santo al dominio del mondo è dovuto anzitutto alla sua nobiltà, impersonata nel fondatore e padre della stirpe latina, Enea (c. III); Iddio stesso è intervenuto co' miracoli in favore del popolo eletto, salvando Roma dai Galli collo schiamazzar d'un'oca, da Annibale con una grandinata (c. IV); la conquista romana è stata fatta disinteressatamente, al solo scopo d'assicurare all'umanità, riunita sotto un governo, la pace e la libertà, della qual cosa sono mallevadori la mitezza del senato e dei magistrati, lo spirito di sacrifizio dei singoli cittadini romani (c. V); la natura ha predestinato un luogo ed un popolo all'universale dominazione, il qual luogo ed il qua! popolo non può essere che Roma ed i suoi cittadini (c. VII) ; giacché, di tutti i popoli che tentarono di conquistare l'impero, soltanto il romano riusci nel suo intento (c. IX); nei duelli, in cui si manifesta la volontà divina, arrise sempre la vittoria ai Romani, cosi quando Enea combatté contro Turno, quando gli Orazi sconfissero i Curiazi (c. X). Cristo medesimo dimostra la legittimità dell' impero romano, perché volle nascere sotto Augusto ed assoggettarsi alla coscrizione indetta da quell'imperatore (c. XI), e perché si lasciò giudicare e condannare da Pilato, vicario imperiale e rappresentante di Tiberio (c. XII).

Basta questo breve sunto a persuadere che Dante guardava la storia romana con occhio prettamente medioevale. Per lui il continuo salire della potenza di Roma non era un fatto che avesse un valore proprio ed intrinseco, indipendente da altri fatti, ma era invece vincolato e determinato dal sorgere e dallo svilupparsi della fede cristiana, sicché la storia. di Roma e del suo impero veniva ad essere in certo qual modo ancella e serva della religione cattolica. Di piú, v'è un passo nella Divina Commedia, dal quale sembrerebbe ri

appropriato questo termine a designare il complesso delle forze avverse al principio imperialista. Questa distinzione non va presa alla lettera, perché questi due principi, guelfo papale e nazionale, rappresentano veramente due fasi successive del pensiero guelfo, coesistenti però ancora al tempo dell'Alighieri, la prima infiacchita ed indebolita, la seconda rigogliosa e fiorente.

sultare che l'Alighieri considerasse la fondazione dell' impero romano fatta soltanto allo scopo di preparare una sede al papato:

La quale e il quale (Roma e il suo impero) - a voler
dir lo vero -
Fûr stabiliti per lo loco santo
U' siede il successor del maggior Piero

(Inf., II, 22-24).

Questo passo diede molto filo da torcere a' critici;' ma tuttavia non si è ancora arrivati ad una soluzione soddisfacente. Però, non dobbiamo meravigliarci, come fanno molti, se il nostro poeta non v'aggiunge « ove pure siede il successore di Cesare », giacché questa sarebbe stata una crudele ironia in un tempo, in cui la potestà imperiale era tanto avvilita. In ogni modo dobbiamo confessare col Parodi ch'esiste una bella differenza tra questo passo e quello che si dirà in seguito nella Commedia dell' impero.

La corrispondenza provvidenziale tra Roma ed il Cristianesimo incomincia già prima della fondazione di Roma, « fu in un temporale che David nacque e nacque Roma; cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della nobilissima città, siccome testimoniano le scritture» (Conv., IV, 5). Seguendo principalmente l'Eneide, che si potrebbe chiamare la bibbia imperiale del medio evo, Dante riguarda dunque Enea come padre e origine della potenza romana, colla discendenza del quale i destini dell' impero rimasero « per trecent'anni ed oltre» (Par., VI, 38) in Alba, finché la lotta tra gli Orazi ed i Curiazi assicurò, con la vittoria dei primi, il predominio ed il diritto dell' impero ai Romani. Roma,

III CIAN, Sulle orme del Veltro, Messina, 1897, p. 52, cerca di dimostrare che qui non v'è una negazione od esclusione di Roma quale sede dell' imperatore, ma una necessaria e (per lui) evidente affermazione implicita di esso,; il CIPOLLA, op. cit., p. 67, propende pure per l'opinione che non ci sia discrepanza colle altre opere dell'Alighieri, ma poi, cautamente, fa delle riserve. nfine, il PARODI, op. cit., p. 40 (e prima di lui già il D'ANCONA, Varietà storiche e letterarie, S. II, Milano, 1 85, pp. 50-51) afferma risolutamente: "Si voglia o non si voglia, siamo ben lontani dagli ultimi capitoli del de Monarchia e dalla sacra pianta del paradiso terrestre „. 2 Anche altrove chiama Dante Enea padre del popolo Romano. Inf., II, 20-21, de Mon., II, 3.

3 Sembrerà forse una pedanteria, ma non credo affatto inutile d'osservare che nel luogo citato della Commedia si dice dapprima che l'aquila romana si trattenne sino al tempo della lotta tra gli Orazi ed i Curiazi, dunque fino al regno di Tullo Ostilio, in Alba e

centro predestinato alla dominazione del mondo, fu fondata circa « settecentocinquant'anni, poco dal più dal meno, prima che il Salvatore venisse.» (Conv., III, 11). E « non solamente speziale nascimento, ma speziale processo ebbe da Dio; ché brievemente da Romolo cominciando che fu di quella primo padre, infino alla sua perfettissima etade, cioè al tempo del predetto suo imperadore (Augusto), non pur per umane, ma per divine operazioni andò il suo processo. » (Conv., IV, 5). Dapprima sotto i sette re « che furono quasi balii e tutori della sua puerizia (Conv., IV, 5) estese il proprio dominio sopra le genti vicine (Par. VI, 40-42), poi durante « la sua maggiore adolescenza» (Conv., idem) che fu l'età repubblicana, sconfisse tutti i popoli che osarono contenderle la conquista dell' impero, i Sanniti (de Mon., II, 10), i Greci con Pirro (idem e Par., VI, 44), gli Africani con Annibale (idem e Par., VI, 49-51). In questo tempo Roma fu « esaltata non con umani cittadini ma con divini, nelli quali non amore umano ma divino era spirato in amare lei: e ciò non potea né dovea essere se non per speziale fine da Dio inteso in tanta celestiale infusione ». (Conv., IV, 5).

Qui conviene fare una breve digressione sul modo fuggevole, con cui il medio evo trattava l'epoca repubblicana di Roma dandole poco o nessun peso. Dante, è vero, distingue l'èra repubblicana dalla imperiale e ci parla con entusiamo dei grandi cittadini, p. e. di Catone (v. piú sopra), Cincinnato (Par., VI, v. 46; de Mon., II, 5; Conv., IV, 5), Camillo (de Mon., II, 5; Conv., IV, 5), Bruto primo (Inf., IV, 127; de Mon., II, 5; Conv., IV, 5), dei due Deci (Par., VI, 47; de Mon., II, 5; Conv., IV, 5), ecc., ma non ha un'idea chiara di quell'età gloriosa. Probabilmente l'arruffato e difficile periodo repubblicano non andava molto a genio al medio evo, il quale era profondamente convinto che la monarchia fosse la migliore forma di governo. Si cercava piú che altro di far apparire la repubblica come una fase transitoria, come una preparazione alla

poi passò a Roma in seguito a quel duello decisivo, mentre subito dopɔ (vv. 40-42) parla delle gesta de'sette re di Roma sotto il segno vittorioso dell'aquila, da Romolo a Tarquinio Superbo. Invece nella Monarchia (II, 10) Dante evita questa contraddizione lasciando dubbia la questione a chi dei due popoli appartenesse il segno dell'aquila e la dignità del principato dalla fondazione di Roma alla lotta decisiva tra i tre fratelli.

maturità e stabilità dell'epoca imperiale.' Circa il tempo quando fosse avvenuto il passaggio, | non si era ben sicuri; la maggior parte degli autori medioevali considerava senz'altro Giulio Cesare come primo imperatore e da lui s'incominciava a computare la lunga serie degli imperatori romani. Si può dire con sicurezza che l'Alighieri condividesse quest'opinione comune, giacché la pena di Bruto e Cassio nell'Inferno riguardati quali traditori dell'impero (XXXIV, 64-67), il titolo di « primo principe sommo» dato a Cesare nel Convivio (IV, 5), infine il modo col quale ne parla nel Canto VI del Paradiso,3 tutto ci fa credere ch'egli reputasse avvenuto il gran mutamento appunto con Giulio Cesare.

Di questo supposto primo monarca Dante ha la massima considerazione; ne ricorda in lungo ed in largo le gesta gloriose, lo pone nel Limbo tra gli spiriti magni «Cesare armato con gli occhi grifagni» (Inf., IV, 123), (Inf., IV, 123), | non ne sottace però le debolezze.5

Col suo successore Ottaviano Augusto la storia di Roma entra, pel medio evo, nel grande addentellato del cristianesimo, e da qui i destini dell'impero romano sono posti piú o meno in servigio della religione cristiana. Sotto quest' imperatore fu attuato e compito il grande disegno della monarchia universale, sicché tutti i popoli erano in quel tempo soggetti a Roma, e soltanto allora fu possibile avverare

1 Cfr. su questo argomento: GRAF, Roma ecc., vol. I, pp. 230-233.

2 V. Graf, op. cit., pag. 248.

'Dante allude colla terzina seguente alla costituzione dell'impero Romano:

Poi presso al tempo che tutto il ciel volle
Ridur lo mondo a suo modo sereno,

Cesare, per voler di Roma, il tolle (Par., VI, 55-57).

Non tanto però questa terzina quanto la denominazione d'Ottaviano Augusto "baiulo seguente,, (Par., VI, 73), nel qual caso baiulo significa imperatore, e di Tiberio "terzo Cesare, (idem., 86) ci persuadono che il nostro poeta considerava certamente Cesare quale primo imperatore romano.

4 La descrizione delle imprese guerresche di Cesare si dilunga nel VI del Par. per ben cinque terzine (vv. 58 72), v. pure Purg., XVIII, 101-102.

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la tanto sospirata e desiderata pace universale:1

Con costui corse infino al lito rubro (l'aquila romana);
Con costui pose il mondo in tanta pace
Che fu serrato a Giano il suo delubro.

(Par., VI, 79-81).

Siamo insomma all'apice, al massimo grado di perfezione che l'impero potesse raggiungere; l'ideale che i poeti avevano cantato, i filosofi intravveduto, sembrava fatto realtà, cosicché a ragione Virgilio poteva cantare: « Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna ». E tutto ciò era stato voluto ed operato da Dio soltanto allo scopo di preparare il mondo alla venuta del Redentore, perché la terra potesse accogliere nella migliore disposizione possibile il Figlio di Dio. Cosí il « buon Augusto » e la sua grandezza diventano uno strumento cieco nelle mani dell' imperscrutabile Provvidenza divina.

Né meno chiara è questa dipendenza dell'impero dalle sorti del Cristianesimo, sotto gli imperatori seguenti: Tiberio, inconsapevole strumento della giustizia divina, il quale, con la morte di Gesù Cristo sotto il suo regno, placò lo sdegno divino pel peccato originale:

Ché la viva giustizia che mi spira

Gli concedette, in mano a quel ch'io dico, (terzo Cesare) Gloria di far vendetta alla sua ira

(Par., VI, 88-90); 5

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1 V. Mon., I, 18: non inveniemus, nisi sub divo Augusto monarcha, esistente monarchia perfecta, mundum undique fuisse quietum,,; e Conv., IV, 5: “E però pace universale era per tutto, che mai piú né fu né fia: ché la nave della umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa „.

2 Questo citato virgiliano è spiegato in Mon., I, 13: "Virgo namque vocabatur iustitia, quam et Astream vocabant. Saturnia regna dicebantur optima tempora, quae et aurea nuncupabant; v. anche Ep., VII, 1.

3 V. Conv., IV, 5: "E perocché nella sua venuta (di Cristo) nel mondo, non solamente il cielo ma la terra conveniva essere in ottima disposizione: e la ottima disposizione della terra sia quand'ella è monarchia, cioè tutta a uno principe suggetta, ...ordinato fu per lo divino provvedimento quello popolo e quella città che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma

4 Di Traiano imperatore Dante non parla che incidentalmente; lo cita come esempio di umiltà nel X del Purg., (vv. 73-93), lo pone tra gli spiriti giusti nel Cielo di Giove (Par., XX, 44-48) seguendo la tradizione medioevale che lo considerava come esempio di giustizia. Cfr. GRAF, Roma, vol. II, p. 8.

5 Cfr. Mon., II, 12; l'imperatore Nerone è ricordato soltanto per dichiarare falsa una sua definizione della gioventú in Conv., IV, 9.

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