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della pace e della giustizia sociale. Non ogni secolo può vedere un Dante. Che se il tempo fosse davvero fiacco e grigio, ragione di piú per accenderlo alle cose grandi, col ricordare i grandi.

- "Tremeranno le vene e i polsi all'artista che dovrà effigiare Dante: noi non abbiamo artisti. Vedremo un brutto monumento di piú. - Ma perché questa disperazione di tutto e di tutti? Non vivono forse Leonardo Bistolfi, Giulio Monteverde, Ernesto Biondi? E il Ferrari e il Trentacoste e il Maccagnani e il Gallori e il Tadolini e altri e altri? Perché gettare sempre con le nostre mani il discredito su noi stessi, quando gli altri esaltano e glorificano gli uomini loro? Artisti grandi vivono; e innanzi alla grandezza di Dante essi centuplicheranno lo sforzo dell'ingegno. Sono spesso le occasioni che creano i capolavori. Vinciamo questa pessimistica accidia, che tronca ogni generosa iniziativa, che fiacca ogni spirito animoso, che tarpa le ali ad ogni speranza. Usciamo dalla grigia nebbia, con l'occhio vòlto alle alte idealità. Se pure sarà impari il nostro volo e noi non potremo librarci nelle altezze luminose, già lo sforzo del pensiero e dell'atto ci nobiliterà innanzi a noi stessi e ad altri.

"La proposta di legge che abbiamo presentato non esprime dove il Monumento dovrà sorgere, ma lascia al Governo la cura dell'esecuzione. Oggi a capo delle Belle Arti sta un chiaro uomo, conoscitore esperto della iconografia dantesca, e dell'arte che a Dante si riferisce, come anche con recente publicazione dimostra. Egli, con quei conforti e quei mezzi che sarà necessario concedergli, varrà a disporre quanto è utile pel concorso da bandire e pel resto, affinché il nostro pensiero si traduca in realtà. La legge deve esprimere il proposito: se ora discutessimo noi del dove e del come, oltre che uscire dal campo che è proprio di una assemblea legislativa, ci troveremmo súbito di fronte a tali e tanti dissensi, che la nostra volontà rimarrebbe irretita e fiaccata prima di na

scere.

"Questo è certo: che nessuno di noi volle eccessività seicentesche. Una grande figura del poeta, semplice: una grande base, degna. Questo e null'altro in luogo aperto luminoso ed alto, dove possa tutti ammonire e confortare con la sua vista, dove eccella su tutto e su tutti, come deve Dante. Ma questa semplicità importa grandezza di proporzioni, dignità di materia, eccellenza d'arte, perché Dante si deve onorare in modo degno: non si può erigere a lui un monumento come a tutti gli altri. Ecco la ragione della cifra egregia. Se a rendere cosa reale questo pensiero occorrerà somma minore, tanto meglio. I commissari eletti dagli offici provvederanno a ridurla, ovvero sarà il primo caso che un preventivo superi un tivo, e non sarà cattivo esempio di correttezza. "Noi confidiamo che il Parlamento approvi la nostra proposta e possa cosí nel 1911, quando la

consun

patria festeggerà il suo cinquantenario, sorgere, senza retoriche cerimonie, come degna celebrazione della data, come degno testimonio della coscienza nuova, il monumento a Dante Alighieri in Roma.

"In questa Roma, dove a gara repubbliche e imperatori vogliono collocare le figure marmoree di quei poeti che rappresentano il genio e lo spirito dei loro popoli, che ne sono la voce: qui dove Goethe e Victor Hugo si ricordano ogni giorno al popolo, non deve, non deve mancare il monumento del nostro poeta nazionale.

"Egli risorga ? dimostrare come sia vivo e venerato nella coscienza dell'Italia nuova; egli risorga con l'altezza vertiginosa del genio suo a confortarci ancóra nel paragone, a ricordare che il più possente genio, il più alto poeta del mondo cristiano, è genio e poeta della stirpe nostra „.

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"Io non farò qui un discorso su Dante: mi associo alle belle parole dell'on. Alfredo Baccelli. E dico anch'io: Sorga dunque il monumento a Dante, simbolo dell'Italia nuova; e sorga nobile e degno!

"In nome del Governo, pur facendo le riserve che mi sono imposte per dovere di ufficio, consento che la proposta di legge dell'onor. Baccelli sia presa in considerazione: ed aggiungo che il Governo si riserva di presentare sull'alto argomento un disegno di legge di sua iniziativa „. (Vive approvazioni).

Il Presidente mette ai voti la proposta di legge dell'on. Baccelli. "Chi l'approva egli dice alzi la mano n°

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Dante, e che su questo lavoro fonda le più grandi l'attore è diventata affatto dantesca. Poi ha sogsperanze di un successo favorevole.

L'autrice, signora Durand-Roxe, è una donna molto intelligente, un'artista appassionata, amica e conoscitrice dell' Italia, della nostra storia e dei nostri costumi, per essere vissuta fra di noi oltre vent'anni. La signora Durand-Roxe ha fatto inoltre degli studî danteschi che sono stati premiati all'Università di Boston.

Richiesto il Novelli come mai fosse venuta alla Durand-Roxe l'idea di far Dante protagonista del suo lavoro, ha risposto: "Ella ha trovato che io ho perfettamente il profilo dell'immortale poeta!, E, fatta una smorfia, la fisionomia mobile del

giunto di temere che la rappresentazione possa essere ritenuta una profanazione, e che quindi possano rinnovarsi, gli attacchi che ebbe a suo tempo Sardou.

Il lavoro è costituito di quattro atti: nel primo è Dante giovanissimo; Dante della Vita Nuova, ad una festa di calendimaggio, in casa Portinari; il secondo atto si svolge in piazza San Giovanni a Firenze, dove muore Beatrice (?); il terzo atto rappresenta Dante in esilio a Verona, ospite di Cangrande della Scala; l'ultimo riproduce la morte del poeta a Ravenna.

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Città di Castello, Casa Tipo-litografica-editrice S. Lapi, 30 maggio 1908.

G. L. Passerini, direttore Leo S. Olschki, editore-proprietario-responsabile.

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1.- Il son. estravagante Più volte il di1 non ha ancora attirato l'attenzione degli studiosi, e l'unico commento che ne abbiamo, se pur cosí lo possiamo chiamare, son poche parole di illustrazione che vi ha dedicate il Wulff. 2

Esso si trova, com'è noto, nel cod. Vat. 3196, il cosidetto manoscritto degli Abozzi del P., alla facciata 9'; la quale porta scritta all'angolo superiore destro la seguente data: 4 nouembr. 1336 reincepi hic scribere. Questo reincepi (= ricominciai) presuppone che il P. avesse già avanti scritto qualche cosa nella pagina; e siccome la prima cosa scritta in essa è appunto il sonetto di cui ora mi occupo, non v'ha dubbio che a quella data questo sonetto era già scritto in quella carta:3 in altre parole, la data 4 novembre 1336 è il termine

1 Vedilo in C. APPEL, Zur Entwickelung italienischer Dichtungen Petrarcas, Halle a. S. 1891, p. 66, e nell'ed. delle Rime del MESTICA, p. 663.

2 Nella Rivista d'Italia, Luglio 1904, p. 99-100. 3 Si noti che il sonetto scritto nella carta immediatamente di seguito al nostro è quello Perch' io l'abbia colla data 13 Febbr. 1337 capr[anice]; per cui bisogna supporre che il P., dopo di aver scritta la nota: 4 Nov. 1336 REINCEPI hic scribere, non scrivesse poi più nulla, per il momento, fino appunto al 13 febbr. 1337, impedito allora, come spesso gli accadeva, da qualche fastidio. Cfr. presso l'APPEL, op. cit., p. 81, la curiosa didascalia alla Canz. Amor se vuo' ch'i' torni, dove, fra l'altro, il P. ci dice: " volui incipere, sed vocor ad cenam

ante quem per la composizione del sonetto stesso. Quanto al termine post quem ci serve a determinarlo la intestazione del sonetto: Responsio mea ad unum missum de parisius. Questa ci rivela che il sonetto in questione è risposta, certo per le rime, ad un altro mandatogli da un amico dimorante in Parigi, e siccome di amici in Parigi il P. non n'ebbe di sicuro prima del suo viaggio in quella metropoli (1333), e di sonetti da Parigi non gliene poterono essere mandati prima del suo ritorno stabile in Avignone (15 agosto 1333), cosi è da arguire che il sonetto in questione non possa essere stato composto se non dopo il 15 agosto 1333. Dunque le date estreme, dentro le quali cade la composizione del sonetto sono: 15 agosto 1333-4 novembre 1336.

Chi è l'autore del sonetto di proposta ? È domanda, questa, a cui non possiamo rispondere se non in modo probabile, mancandoci ogni dato positivo. Certo è che ognuno ricorre col pensiero ai due italiani, anzi toscani, che il P. conobbe nella metropoli francese, ossia Dionigi da Borgo San Sepolcro e Roberto dei Bardi. Ora, di quale di questi due si tratterebbe? Ci aiuterà alla scelta quello che noi potremo indovinare del sonetto di proposta.

Nel sonetto cit. il P. si lamenta della sua noiosa ed aspra schiavitú, la quale gl' impedisce di venire a Parigi per stare assieme co

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destinatario, gli toglie la speranza di poter tornare all' « aere tosco», gli procura, invece di una corona di lauro, una corona di sorbo; e finisce con queste parole rivolte al destinatario: «Or v'adimando Se 'l vostro al mio non è ben simil morbo ». Da questo resulta evidentemente che, in sostanza, l'autore del sonetto di proposta vi domandava, anzitutto, al P. di venirlo a trovare a Parigi, forse per adempiere ad una promessa fatta, e, in secondo luogo, si lamentava press'a poco dello stesso « morbo » che poi il P. nella sua risposta, di essere, cioè, anch'egli involto da « noiose aspre catene », e d'essere anch'egli occupato in lavori tali da acquistarsi piuttosto una corona di sorbo che di lauro.

po

Questo premesso, non mi par dubbio che, se uno dei due nominati ha da essere l'autore del son. di proposta, questi sia Roberto dei Bardi. Il padre Dionigi era nientemeno chè professore all'Università, anzi v'insegnava Teologia; e non è pensabile che codesta occupazione a lui o a chicchessia, compreso il P., tesse parer tale da rimeritarsi, piuttosto che con una corona di lauro, con una corona di sorbo. Senza contare, poi, che colla posizione di padre e direttore spirituale, che Dionigi assunse subito rispetto al P., male s'accorderebbe un sonetto di proposta quale ci è resultato dovesse essere quello a cui poi il P. rispose: in altre parole, si potrebbe pensare che Dionigi | mandasse al P. un sonetto, supponiamo, conIsolatorio, non di querimonie confidenziali.

Con Roberto dei Bardi le cose cambiano d'aspetto. Anzitutto fra il P. e lui c'è maggior confidenza, come si rileva subito dal fatto che, quando il P. seppe che Roberto sarebbe venuto in persona ad Avignone per persuaderlo ad andare a prendere la laurea a Parigi, egli, che pur aveva già risolto d'andare a Roma, di quella inutile venuta dell'amico non si preoccupava più che tanto e se la cavava con questa frase: << Roberto meo nobiscum facile conveniet » (Fam., IV, 5). In secondo luogo, Roberto, pur essendo anch'egli tanto addentro ne « la disciplina della naturale e morale filosofia, che tutti i dottori di questa arte del suo tempo ha avanzati », ' aveva nell'Università di Parigi una carica davvero pesante e piena d'ogni fa

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1 In Le vite d'uomini illustri Fiorentini di FILIPPO VILLANI colle note di G. M. MAZZUCHELLI, Firenze, 1847, P. 22.

stidio, ma sopratutto tale da togliergli anche il tempo per gli studi, poiché egli, già nel 1333 dei tre provveditori per il Collegio lombardo, 1 nel 1336 fu eletto Cancelliere dell'Università. 2 In terzo luogo Roberto doveva aver gusto poetico molto fine, se egli fu dei pochi a cui il P. diè a leggere la sua Africa. Infine, ed è il più importante, il destinatario del sonetto in questione deve essere tale persona con cui il P. avesse già tenuto discorso delle sue aspirazioni alla laurea poetica; e se c'è persona the abbia tale requisito, questa è appunto Roberto dei Bardi, il quale di quelle aspirazioni ne sapeva appunto tanto, da aver preparato ogni cosa, perchè il P, venisse a incoronarsi all'Università di Parigi.^

Tale, dunque, con ogni probabilità, il destinatario del sonetto di risposta del P. Passando, ora, al sonetto stesso, sarà anzi tutto da chiarirsi che cosa siano quelle cosi noiose ed aspre catene, da cui il P. si lamenta di esser tenuto servo. Il Wulff dice che esse son quelle del cardinale Colonna, ed è interpretazione giusta; solo, se ne possono portare ben piú prove di quello ch'egli non fece. Da parecchi indizi, infatti, è comprovato che il cardinale Giovanni Colonna teneva presso di sé il P. non per solo animo di munifico protettore, ma anche, per non dir sopratutto, come aiuto nel disbrigo delle faccende di curia, mettendolo a capo della famiglia dei suoi segretari. Benvenuto da Imola, interpretando la VIII Egloga Petrarchesca, spiega la frase di Amiclate (ossia il P.) a Ganimede (ossia il card. Colonna): «Puer, ipse fateris, Hac pavi regione gregem », così: « Ego non manducavi panem frustra, quia ego educavi familiam tuam in Avinione, sicut tu dicis » ; nel che concorda l'altro commentatore delle Egloghe, Francesco Piendibeni, che, alla sola parola gregem, annota: «< familiam tuam gubernari ». Del re

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sto è da vedersi tutta, questa VIII Egloga; nella quale il P. descrive la propria partenza dai servigi del Colonna nel 1347. « Triste » egli dice a Ganimede,

1 G. KOERTING, Petrarca's Leben und Werke, Leipzig, 1878, p. 91.

2 FRACASSETTI, Lettere di Fr. P., I, pp. 506-507 Cfr. a questo proposito PIERRE DE NOLHAC, Pétrarque et l'humanisme, I, Paris, 1907, p. 39.

3 Ibidem.

4 Fam., IV, 4 e 5.

5 Ed. AVENA, p. 223 e 279.

Triste senex servus! Sit libera nostra senectus. Serva iuventa retro est; servilem libera vitam Mors claudat.....

E più avanti:

Per quattuor inde

Servio lustra tibi, nulla est iniuria iustus Libertatis amor.....

E il male è che, in fine dei conti, presso il Colonna il P. non godeva davvero di lauti emolumenti :

Ecce etenim veni ad tua gramina pauper, Pauperiorque domum redeo, non lacte, nec edis Auctior, invidia et solis iam ditior annis.

E Ganimede conferma queste parole nell'accomiatarlo:

Fatum agnosco tuum: primis nam pauper ab annis, Pauper eris senior, pauper morieris, Amicla.

Era, dunque, una vera servitú, questa presso il Colonna, resa ancor piú triste dal genere di ufficio, non certo grato al P., in cui possiamo immaginare che essa consistesse: stendere lettere per affari di curia, vigilare l'amministrazione di beni ecclesiastici, tenere a bada i sollecitatori importuni di favori e di onori, e, senza dubbio, dirimer questioni di diritto talvolta all'amichevole, tal altra

pro

tribunali ». Poiché io credo fermamente che bisogna intendere con discrezione quello che il P. ci dice quanto al nessun esercizio da parte sua di quella professione legale che pure aveva appresa a Montpellier e a Bologna in modo cosi completo e perfetto da dar di sé grandissima speranza. Che egli, prosciolto dall'autorità paterna, dedicasse ogni sua attività intellettuale alla poesia ed alla erudizione, è vero; ma che frattanto, costretto dalle necessità della vita, praticasse, pur come mestiere senza porvi piú alcuno studio scientifico, la giurisprudenza non è meno vero. Del resto, c'è un accenno del P., sul quale richiamò per il primo l'attenzione degli studiosi il Cochin, che potrebbe aver valore di esplicita dichiarazione. Descrivendo egli, in una famosa lettera al fratello Gherardo, tutti i fastidi e le noie sopportate nella loro comune vita giovanile in Avignone, dice fra l'altro: « Quid dicam de fori ac litium tempestate quae mihi non curiam modo sed terrarum orbem odiosum

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facere potens est?» Ed è qui da ricordarsi la difesa che egli fece dei da Correggio contro Ugolino dei Rossi davanti al Pontefice ed al Sacro Collegio nel 1335 (Fam., IX, 5).

Una servitú era, dunque, l'ufficio presso i Colonna; ed aspre e noiose eran davvero le catene con cui essa l'avvinceva; tanto che egli assomiglia il ribrezzo, piú che ripugnanza, che provava per le sue mansioni, alla impressione prodotta dai lazzi sorbi che fanno allegare i denti; somiglianza che, nel suo sonetto, gli fa tornare in corona di sorbo quella che avrebbe voluto fosse corona di lauro. Eppure, nei momenti lasciatigli liberi dal suo ufficio, egli si applicava tutto agli studi diletti per rendersi degno del bramato alloro; tanto che si risapeva dagl'intimi, assai prima che egli fosse finalmente coronato, ossia nel 1336, che egli s'adoprava con tutte le forze per ottenerlo. << Quid ergo ais scrive egli in una lettera del 21 dicembre 1336 (Fam., II, 9) — in animo meo Lauream nihil esse, nisi illam poeticam, ad quam aspirare me, longum et indefessum studium testatur ? »

Spiegato cosí quali fossero le aspre e noiose catene di cui il P., nel suo sonetto, si lamenta che gl' impedivano d'andare a Parigi dal suo amico e gl'impediranno di tornare in Toscana; e chiarito anche come mai gli sembrasse d'esser coronato di sorbo, invece che di lauro, bisognerebbe mostrare in che cosa consiste quella speranza che egli dichiara di avere nelle mani dell'amico, pur che le sue occupazioni gli permettessero d'andare presso di lui; ma ci manca ogni più piccolo elemento per determinarlo. Certo è che, coll'aiuto di lui, il P., sperava di potersi liberare dalle sue catene presenti. E siccome egli aggiunge che, una volta andato a Parigi e realizzata la speranza che egli aveva riposto nell'amico suo, sarebbe finalmente venuto il tempo di tornare all'« aer tosco », parrebbe che fra ciò che il P. si riprometteva dal suo amico e il proprio ritorno in patria ci fosse una relazione, ossia che l'aiuto dell'amico, come doveva liberare il P. dalla schiavitù dei Colonna, cosí dovesse rendergli possibile il ritorno in patria. E chi pensi a che potente famiglia di Firenze appartenesse il Bardi, non troverà improbabile tale conclusione. Ma di più non possiamo dire; e solo

1 Fam., X, 3; cfr. H. COCHIN, Le frère de Pétrarque, Paris, 19-3, p. 23, n. 1.

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