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cipi, abbarbagliano la vista del fortunato Candido, che rimane.

..come chi se svelglia

dal sonno et se ha sogniato ancor li pare veder con gli occhi aperti quel che a celglia et a palpebre gionte pria passare sentito haveva; et ben ancor non cerne el ver dal falso: et pur se sta a pensare.

Al termine della narrazione, Serafino si sente trasumanare sotto lo sguardo di Maria, cui innalza un inno, nel quale l'accento dantesco si confonde con quello del Petrarca:

Ave, del ciel Regina et dela terra,
del padre tuo eterno sposa electa,
serva non più, como el tuo dir deserra 2

Con questo inno si chiude la prima parte di questo misero libro, in cui l'armonia è sostituita da un' andatura monotona, o da troncamenti arditi, la solenne semplicità della narrazione da un artificio evidente e goffo, l' eleganza della lingua da un miscuglio di parole arcaiche, dialettali e latinismi oscuri.

si

3

Uguali difetti è superfluo dirlo riscontrano in tutto il resto dell' opera, di cui non vale la pena di portare nuovi esempi. Solo ci fermeremo in un episodio della seconda parte perché, oltre essere direttamente ispirato dalla Commedia, riguarda il duca Borso. Ritornato dall' Egitto con san Giuseppe, Candido, mentre va rammemorando tra sé « le degne cose già viste e odite », si sente sulla spalla « la mano d' un' ombra » che vede essere « in età giovanile - lieta et pensosa ». Al Poeta che le domanda il nome, risponde che è Ascanio :

... che già teco uso

giovenecto hebbi: et se hor non paro quello Fallo l'officio qual me è stato infuso

Libro I, cap. LVIIII

2 Libro I, cap. LXVII (ultimo).

3 Dal cap. XV al XVIII si ha: Del pronostico facto al auctore del principio deli Marchesi da Este. De la succession deli Marchesi da Este perfino a Nicolo. De la succession deli altri perfino a Borso che fu primo duca et conte. Del pronostico de le vertu del Duca Borso. De li sommi pontifici et de li signori temporali signoregianti in Italia al tempo del Duca Borso et dela destinazione de l'opera a lui.

dal Ciel, diss'elgli, che me fa più bello tanto parer, che alhor monstrava quanto più degno et piú soblime è del mondo ello, ive se sente el suon già del tuo canto, che tanto piace a quel che ne è signore che imprimer non mel so ne dirten tanto.

Come Virgilio, cosí anche Ascanio è mandato a lui per volere divino....

constrecto so da quel doctore, (cioè Dio)
da chi se infonde nel dir tanta gratia
de quanta facto par già possessore
venir a te nel cui dir se solacia

a darte a tanta impresa tal conforto
che quella segue con ogni efficacia.

E lo sprona nell' opera intrapresa, senza lasciarsi vincere da

Appetito verun, finché 'l virgulto exurga de tua pianta, in cui virtute fructo degno serà poi che fia adulto, Questi, come il veltro dantesco,

... si è quel che con ale pennute,

a bon tempo venendo a vol lo ingegno
in alto leverà, et fien temute

soi opre et soi costumi assai nel regno
donde partito sei, ma exaltato

in altre parte el fie, como ben degno;
de grado militar serà ornato

tra adolescentia et giouentù, tanto elgli
parrà agli extranij de virtú dotato. 1

Ma la sua parola è insufficiente a cantare la grandezza di questo virgulto, che stenderà il suo dominio

tra la Brenta e Pò fuor di pantano.

Contaminando cosí goffamente vari passi danteschi, il Poeta unisce la sua tromba epica, per innalzare ai cieli il divo Borso, a quella dei più famosi cortigiani estensi, che preconizzavano nel munifico Duca il futuro Re d'Italia, il restauratore della pace e della grandezza della penisola. Per bocca di Ascanio, esalta il fatidico arboscello, le cui grandi azioni saranno di meraviglia a tutti. Chi è mai questo virgulto, si domanda Candido? Intanto spinto dall' affetto fraterno e dall' antica consuetudine, sull' esempio di Dante e Casella, si slancia

▲ Libro I., parte 2.a, cap. XV.

nelle braccia dell' amico, quando questi lo ar

resta con un cenno :

.... a parte statte

che hor non conven tra noi tal abracciare.
La ria natura è che tra noi combatte,
qual non consente che hor noi ne palpiamo,
da l'un da l'altro star ancor retracte. 1

Tutto dolente e mortificato, il Perugino, ritirandosi indietro, riprende la sua domanda intorno al « principio » del virgulto e alla sua prosapia. Con questa finzione ci fa sfilare davanti tutti i signori della casa d' Este fin dalle loro origini leggendarie, presentandoli con i colori presi da questo o da quel personaggio della Commedia, che spesso offre anche lo sfondo, piú spesso l'intonazione ora acre come nelle invettive politiche ora dolce e solenne come nelle apoteosi, quasi sempre però, contro l'intenzione dell' autore, goffa e comica.

Ecco Niccolò III, tutto intento a dar « pace ai popol soi con bel ardire » ; arbitro delle sorti d'Italia, promotore di pace tra i principi, fautore del concilio di Ferrara: a lui succederà il gentil Leonello, che

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2 Libro cit., cap. XVII; su Niccolò III, vedi PARDI, Leonello, cap. introdut,, e la recensione del Bertoni in Giorn. stor., L; su Leonello i libri citati del Pardi e del Carducci. A questi giudizi corrispondono in gran parte quelli di U. Caleffini nella cronica rimata della casa d'Este, pubblicata in Atti e Memorie d. R. Deputaz. di Storia Patria Mod. e Parm. (1864), vol. II, 267 segg. da A. CAPPELLI.

3 Libro e cap. cit.; il Caleffini nella cronaca citata (II, 273) dice di Borso « Che re d'Italia fosse questo sangue zentile ».

In lui si troveranno raccolte tutte le piú eccelse virtú pubbliche e private, l' eloquenza, la pudicizia, l'amore del giusto, « lo splendo: del sumpto », di quella magnificenza che orma: i principi italiani hanno dimenticata. Candido stupisce dinanzi a tanto portento di liberalità, che diffonderà i suoi raggi

..... fin dove se extingua inseme col latin el barbarismo. 1

E come Dante, dopo l'abbraccio patriottico di Virgilio e Sordello, prorompe nella famosa invettiva, anch' egli esce in un inno alla casa d' Este:

O gloriosa gesta, o dolce ostello,

o cognation beata in tanto lume,
quanto te abduce el tuo raggio novello !
O patria felice ! qual presume

piú de te con suoi servi gloriarse
de suo signor et suoi dolci costume?

Chi non invidierà simile miracolo di umanità e di grandezza ?

Questo non fie como tra gli altri un mostro, non crudel, non avaro, non tiranno,

né raptor d'altrui campo, casa, o chiostro. 2 Intanto l'ombra d'Ascanio, tutta in sé romita, « volentieri pareva ascoltar », finché, ripresa l' apoteosi del divo Borso, per farne risaltare ancor più i meriti, dà un rapido sguardo alla storia contemporanea, ricordando i pontefici, i principi maggiori e minori, i condottieri, ecc.

3

Ma su tutti si eleva sempre la grandiosa figura di Borso, per la quale ogni parola si presenta inadeguata e indegna; perciò a questa insufficienza supplisca, conclude Ascanio rivolgendosi al Poeta, la presentazione dell'opera al Duca. Sí detto, l'ombra scompare e Serafino resta

attonito et qual hom che esce de strada
errando et piú non va, ma fermo stase,

che donde o como el venne o dove el vada
più non discerne, cosi er io smarrito
tra i dicti suoi, coi qual me tenne a bada.

Libro cit., cap. XVIII.

2 Libro e cap. cit.; queste apoteosi si ripetono col medesimo tono e coi medesimi concetti in tutti i poeti della corte estense che cantarono la grandezza di Borso.

3 Libro cit., cap. XIX. A Libro cit., cap. XX.

Il poema di messer Candido, come gli scritti dei modesti verseggiatori ricordati nel corso di questo breve saggio sulla fortuna dell'esule fiorentino, non portano certamente gran contributo alla storia della letteratura del Quattrocento; ma dal culto dantesco, che, avanzando passo passo, finisce coll' imporsi e ai Principi estensi e ai loro cortigiani, dalla imitazione della Commedia, sia pure umile e pedestre, che abbiamo rilevata nell' umanistica. Ferrara, e dall' infelice tentativo del Bontempi di darci dell'opera di Dante un tardo epigono, che è anche un precursore del poema latino religioso, procede, indubbiamente, un fatto storico non privo d'importanza: come in Firenze, anche a Ferrara il divino Poeta, che aveva scritto amare parole contro gli Estensi, relegandoli fra i dannati, si fa strada in mezzo

alle ostilità degli umanisti, soggiogandoli a poco a poco coll' imposizione della sua scienza e col fascino della sua poesia; dal tacito studio e poi dalle pubbliche letture scende gradatamente fra gli scrittori che sempre più si giovano delle sue ispirazioni, specialmente quando vogliono cantare le lodi dei discendenti di Obizzo e Azzo VIII. Cosí lentamente si prepara il terreno, sul quale sorgerà chi nel culto e nella imitazione di Dante, sí trasformata da diventare un fecondo elemento d'originalità,1 porterà di nuovo il volgare ai fastigi supremi dell' arte: Ludovico Ariosto.

GIUSEPPE FATINI.

1 G. MARUFFI, « La Divina Commedia » considerata quale fonte dell'« Orlando Furioso » e della « Gerusalemme Liberata », Napoli, 1903, ma vedi anche Giorn. stor. d. Lett. it., XLIV, 234-37.

CHIOSE DANTESCHE

I.

Que' 'lo Quei il, non Quel.

Giunse quel mal voler, che pur mal chiede, con l'intelletto; e mosse il fumo e il vento, per la virtú che sua natura diede.

Purg., V, 112-114.

Di questi versi, di cui qualcuno (Betti) ebbe a dire che « il passo è molto imbrogliato, abbiamo parecchie interpetrazioni; e poiché anche tra i migliori e più recenti commentatori c'è chi non ancóra è sicuro della scelta; onde, accanto all'interpetrazione che preferisce, registra anche le altre; e c'è perfino chi ancora s'affanna a escogitare un'interpetrazione propria; credo utile esaminarle qui tutte, e cercar cosí di mettere in sodo, non soltanto quale sia la preferibile, ma quale, mercé una piccola variante di lezione, che proporrò per il v. 112, possa, anzi debba dirsi l'unica vera.

1. Quel mal volere, che con l'intelletto cerca solo il male, cioè il diavolo, arrivò (giunse) e mosse il fumo e il vento. Quest' interpetrazione è certamente da rifiutare, e perché, come già è stato notato (Casini), « il diavolo era già sul luogo, e non s'intende dove e come dovesse giungere »; e perché quel mal volere, che pur mal chiede con l'intelletto, non sembra tal perifrasi che valga a designare il diavolo con l'usata precisione delle perifrasi dantesche: anche per il diavolo, quando non lo designa col proprio nome di diavolo o demonio, Dante ha perifrasi perfette: lo dice Angelo d'Inferno, al v. 104 di questo stesso Canto V del Purgatorio; angelo nero, al v. 131 del Canto XXVIII dell' Inferno; e nero cheru

1

bino al v. 113 del Canto XXVII: ripeto, son perifrasi perfette; ché, se « le cose si deono denominare dalla piú nobile parte»; certo, la piú nobil cosa nel demonio è la sua natura angelica. Del resto, anche ammessa la perifrasi, il solo v. 112 basterebbe: l'aggiunta con l'intelletto sarebbe un di più; o, per lo meno, al posto ove si trova, metterebbe in rilievo un'idea, che appena si sarebbe potuta accennare di scorcio, anteponendola, cioè, anzi che posponendola al verbo.- Né piú accettabile di questa prima interpetrazione è la sua variante, per la quale il diavolo giunse, arrivò alla regione superiore dell'aria, dove il freddo coglie l'umido vapore. Dante scrisse giunse, senz'altro; onde, se questo giunse s'interpetra per arrivò, non si può intender altro, se non che il diavolo arrivò là dov'era Buonconte; cioè là dove esso diavolo già c'era.

2. Quel mal volere, che con l'intelletto cerca solamente il male, cioè il diavolo, congiunse e mosse la nebbia e il vento. Oltre a ciò che già s'è detto per la perifrasi, e prescindendo da ogni considerazione scientifica sul formarsi della pioggia; movere la nebbia e il vento, sta bene; ma come si fa a congiungere questo, cosí mobile, cosí festino per sua natura, con quella? Rigetteremo dunque, senza esitare, anche questa seconda interpetrazione.

chiede.

3. Giunse quel mal voler che pur mal

Con l'intelletto ei mosse il fumo e il vento, ecc.

Interpetrazione punto accettabile anche questa, oltre che per il senso d'arrivò, dato a

1 DANTE, Conv., IV, 7.

11

giunse, e per la perifrasi, sia pure lodevolmente abbreviata; ma anche per quel punto fermo, in fine del v. 112, che dà a tutta la terzina un andamento dinoccolato e incerto, che non é per nulla dantesco; per quell' ei del V. 113, che ha tutta l'aria d'una zeppa; infine, per quel complemento avverbiale, con l'intelletto, riferito alla frase mosse il fumo e il vento, mentre la ragione di quel movere il fumo e il vento è pienamente espressa nel v. 114, « per la virtú che sua natura diede ». Confesso, anzi, che mi parve volesse scherzare il Betti (poiché è sua questa terza interpetrazione, 1) quando lessi, la prima volta, queste sue parole: « Ed infatti, con che altro modo, se non con l'intelletto, potrebbe uno spirito muovere una tempesta? »

4. Cerca di conciliare la seconda e la terza interpetrazione, questa del Torraca: Il demonio, quel mal volere che chiede solo il male, giunse, uní, adunò e mosse il vapore aqueo e il vapore aereo, col suo intelletto; sostituendo questo alle intelligenze che « conducono le stelle; la virtú della sua natura alla virtú delle stelle. E il Torraca stesso riferisce un passo di Ristoro d'Arezzo, ove si parla d'elementi (ed elementi sono anche i vapori aquei e gli aerei), che « mescola insieme lo movimento e la virtude delle stelle »; senza di che non s'avrebbero né vento, né pioggia, né grandine. Sicché, anche secondo Ristoro d' Arezzo, i vapori non sono il vento, bensí la causa del vento: potran dunque benissimo mescolarsi insieme i vapori; ma ciò non vuol dire che il vento possa mescolarsi, unirsi con la nebbia. Quel che conviene alla causa non sempre conviene all'effetto. Il Torraca, per il quale qui si tratta di una pioggia non prodotta da cause naturali, secondo leggi naturali », dirà forse che, anche per questo voluto congiungimento della nebbia col vento, « la legge natural nulla rileva »: ma anche questo, che la pioggia, onde il corpo di Buonconte fu sospinto nell' Arno, fosse in tutto soprannaturale, non è esatto: il soprannaturale sta solo in ciò, che il vento e la nebbia furon mossi dal diavolo, non dalla natura: il resto, il salir della nebbia, per effetto del vento, là

1 Cfr. BETTI, Postille alla « Div. Comm. », negli Opuscoli del PASSERINI. (Città di Castello, Lapi, 1893) p. II, pag. 29.

ove il freddo la colse; e, in conseguenza, il formarsi della pioggia, avvenne naturalmente, secondo la dottrina esposta ne' vv. 109-111. La quale appunto perciò è ricordata; ché se, come vuole il Torraca, fosse stata ricordata per far rilevare che la pioggia si formò in modo diverso, soprannaturalmente; a Dante non sarebbe mancato il modo d'avvertircene, sia pure con un solo avverbio, per esempio, un invece, un per contrario, inserito ne' vv. 112-114. 5. Quel ma', cioè quel malo, il demonio, accoppiò (giunse) il volere con l'intelletto, e mosse il fumo e il vento. Chi propose quest' interpetrazione (il Bennassuti) lesse cosí il V. 112: << Giunse quel ma' 'l voler » ecc. Ma di ma' per mai, mali, c'è in Dante un esempio (Inf., XXVIII, 135); per malo, nessuno. Dunque ?

1

Evi

6. Quel, colui, il demonio, accoppiò con l'intelletto la cattiva volontà, che cerca solo il male, e mosse il fumo e il vento, ecc. dentemente, quest' interpetrazione è preferibile a tutte le altre, sia, com'è stato notato, per la sua semplicità, sia per i riscontri che essa ha con altri luoghi dell' Inferno: la preferirono infatti il Casini, il Poletto, il Cornoldi ed altri; sebbene non tutti fossero cosi sicuri della propria scelta, da risolversi a scartare, o, riferendole, confutare tutte le altre: forse, perché anche questa sesta interpetrazione ha i suoi lati deboli, per quanto, ch'io sappia, non segnalati da nessuno. Quel, per quegli o quei, non sembra perfettamente consono all'uso dantesco; né si vede la ragione che Dante tacesse l'articolo determinativo per mal volere, pur esprimendolo per intelletto. Questi due lati deboli però s'eliminano facilmente, mercé una variante di lezione, molto semplice e che non ha nulla di comune con le giustamente invise lezioni congetturali: si legga il V. 112 cosí: « Giunse que' 'l mal voler, che pur mal chiede »; s'interpetri letteralmente: Quei, l'angelo d'Inferno, congiunse il mal volere con l'intelletto, ecc.; e bisognerà riconoscere che questa sesta interpetrazione, già accennata da Jacopo della Lana e poi più chiaramente formulata dal Lombardi, non è soltanto la preferibile, ma è l'unica vera.

1 Cfr. il Canto XXIII, 16; e il Canto XXXI, 56. 2 Cfr. Enciclopedia dantesca dello SCARTAZZINI, pagine 1604-1605.

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