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II.

La chiara vista della prima virtú.

A proposito di Cristo e d'Adamo, i più sapienti tra gli uomini, dice san Tommaso a Dante (Par., XIII, 79-81):

Però se il caldo amor la chiara vista della prima virtú dispone e segna, tutta la perfezion quivi s' acquista ;

de' quali versi lo Scartazzini dié la seguente interpetrazione: << Però se lo Spirito santo (il Caldo Amore) dispone e segna l'idea, il Verbo (la chiara Vista), coll' impronta del Padre onnipotente (della prima Virtú, cfr. Par. XXVI, 84), in allora si consegue tutta la perfezione possibile». Quest' interpetrazione Quest' interpetrazione parve, dopo il gran guazzabuglio dell' interpetrazioni precedenti, un raggio di sole; onde fu accolta, senz' altro, in più d' uno de' Commenti posteriori. Se non che della sua sicurezza dubitò il Vandelli, nella 5a edizione del Commento milanese dello Scartazzini stesso; e la rifiutò addirittura il Torraca, al quale parve che fosse fuor di strada la traccia di chi per chiara vista intende il Figliuolo, e per prima virtú il Padre, supponendo che Dante abbia voluto un' altra volta alludere a tutta la Trinità, come ne' vv. 55-57 ». E il Torraca interpetrò « se lo stesso Spirito santo, sostituendosi alla natura e al cielo, direttamente dispone l'intelletto umano alla sapienza, e gliela segna, imprime, conferisce; allora esso acquista tutta la perfezione ». Insomma, la prima virtú sarebbe, per il Torraca, « la principale delle virtú intellettuali, la Sapienza, in quanto, perfezionata oltre la comune misura, è dono dello Spirito Santo » ; e il Torraca richiama, a tal proposito, i vv. 121-126 del Canto XXIX del Purg.., ove, nelle tre donne che danzano a destra del carro, egli vede personificate invece delle tre virtú teologali, le tre virtù intellettuali, intelletto, sapienza e scienza; e la chiara vista sarebbe l' umano in

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Però questa interpetrazione non è accettabile, sia perché il colore di ciascuna delle tre donne designa chiaramente le tre virtú teologali; sia perché le virtú intellettuali sono bensí più nobili delle cardinali, in quanto all' obietto; ma non in quanto alla ratio virtutis, che meglio compete alle cardinali, che non all' intellettuali (cfr. SAN Tомм., Summae theol. I, II,

telletto; a proposito di che il Torraca trascrive il noto passo del Convivio (III, 15): << gli occhi della sapienza sono le sue dimostrazioni, colle quali vede la verità certissi

mamente ».

Io credo che la traccia del Torraca sia ancora più fuor di strada, che non l' altra. Certo, l' interpetrazione dello Scartazzini non è senza lati deboli la chiara vista, senz' altro, non può interpetrarsi per l'idea, il verbo di Dio; e il costrutto, della prima virtú dispone e segna, sarebbe uno zeugma viziosissimo, perché le parole della prima virtú starebbero accanto a dispone, anzi che a segna, a cui propriamente converrebbero. Ma ben altri lati deboli ha l'interpetrazione del Torraca. La chiara vista non

può intendersi per l'intelletto umano ; ché questo non è chiaro per sé, ma solo diventa chiaro, si sazia, dopo illustrato dal Vero, « di fuor dal qual nessun vero si spazia » (Par., IV, 124-126); né la prima virtú può intendersi in un senso diverso da quello che c'è imposto dal v. 3° del Canto X del Par., il primo valore; dai vv. 83°-84° del Canto XXVI, ove Adamo è detto l'anima prima che la prima virtú creasse mai » ; infine, dal seguente passo del Convivio (III, 7): « la Prima, Semplicissima e Nobilissima Virtú, che solo è intellettuale, cioè Iddio ». Ma se anche la prima virtú potesse intendersi per la prima delle virtú, non potrebbe mai intendersi per la prima delle virtú intellettuali; sibbene per la prima delle teologali, la carità, radice, madre e forma di tutte le virtú. Oltre a ciò, se si trattasse della virtú della sapienza, che, in quanto perfezionata oltre la comune misura, è dono dello Spirito santo », perché Dante l'avrebbe impropriamente detta la prima virtú, e non la prima delle eroiche o divine virtú, come i teologi chiamano i doni? Ancóra, come si legherebbe, nell' interpetrazione del Torraca, la conclusione del discorso di san Tommaso con quello che precede? Il dubbio che san Tommaso vuol risolvere, non << concerne il vedere piú o meno la verità con l'intelletto », come crede il Torraca; bensi, come mai Dante po

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66, 3°) non è, quindi, credibile che Dante collocasse le virtú intellettuali a destra, le cardinali a sinistra del mistico carro.

1 SAN TOMM., Summae theol., I, II, 62, 4.o
2 Op. cit. I, II, 68, 1o.

tesse credere di Salomone che « a veder tanto non surse il secondo », pur ritenendo che nessun uomo fu piú sapiente di Cristo e di Adamo. A risolvere questo dubbio, prima di dire che specie di sapienza avesse chiesta Salomone, san Tommaso conferma l'opinione di Dante, che in Cristo e in Adamo fu veramente la maggior sapienza possibile. Or potrebbe san Tommaso dire che ciò fu, perché l'intelletto dell' Uomo-Dio e quello del primo uomo furono fortificati e perfezionati dallo Spirito santo? No, certamente; ché, se cosí fosse stato, Cristo e Adamo non avrebbero avuto nulla di più che gli altri sapienti, la Vergine (Sedes Sapientiae), Mosé, Samuele, i due Giovanni. Dunque nella terzina ch' esaminiamo dev'essere espressa una speciale ragione, per la quale Cristo e Adamo furono i piú sapienti del mondo; e siffatta ragione non può esser che questa perché l'incarnazione dell' uno e la creazione dell'altro furono effetto d'uno speciale processo, una diretta emanazione del Dio uno e trino. Da ultimo, anche all' interpetrazione del Torraca può obiettarsi che la frase, della prima virtú dispone e segna», sarebbe un viziosissimo zeugma.

Bisognerà dunque riaccostarsi all' interpetrazione dello Scartazzini; però con qualche variante, che, rendendo preciso il senso letterale, le dia quella sicurezza che ora le manca.

Ho già accennato che non si può dare a prima virtú altro senso, che quello di Dio; aggiungo, per maggior precisione, del Padre ; e ciò, anche prescindendo dalla relazione, sia pure non perfetta, tra i versi su cui discutiamo e quelli che precedono, dal 52° al 60°; ammessa la quale relazione, la prima virtú degli uni corrisponde al nostro Sire, al Lucente degli altri. E nemmeno occorre ammettere tale relazione per riconoscere che la chiara vista del v. 79° non può essere interpetrata che per l'idea, la viva luce de' versi 53° e 55°; a patto però di riferire a chiara vista le parole che a queste non son vicine, della prima virtú. Che cosa può essere la chiara vista di Dio o del Padre, se non la sua sapienza, che i

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a caso

Anche il Buti, il Landino e il Vellutello riferirono a chiara vista le parole della prima virtú, interpetrando la chiara luce di Dio. Ma la loro interpetrazione non ebbe fortuna, per ragioni che potrà vedere da sé chi voglia consultare i rispettivi Commenti.

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teologi attribuiscono al Figlio; cioè il verbo di Dio, ossia « quell' idea che partorisce amando il nostro Sire? » Sicché la frase dantesca, la chiara vista della prima virtú, corrisponde a capello alla frase sapientia Patris, con la quale i teologi designano la seconda persona della Trinità. Ciò premesso, la vera interpetrazione letterale dei versi 79°-81° del Canto XIII del Paradiso è la seguente: se lo Spirito Santo dispone e segna l'idea di Dio, l' effetto di tale operazione deve essere perfettissimo. Infatti, che cosa annuncia il però del v. 79°, se non un' antitesi tra quello che san Tommaso ha detto innanzi, e quello che è per dire? Ora, san Tommaso ha detto innanzi come si generino le contingenze, cioè non per diretta emanazione da Dio, ma attraverso l'influenza del cielo ha detto pure che la cera delle contingenze può talvolta non essere a punto dedutta; che chi la duce, il cielo, può talvolta non essere in sua virtú suprema: deve dunque, dopo ciò, per esprimere concetti antitetici a quelli già espressi, dir questo: però, quando lo Spirito santo dispose e segnò l'idea di Dio; quando, cioè, procedette alla creazione, ch'è opera delle tre persone della Trinità; ' o quando il suo Verbo, per opera dello Spirito santo, assunse, non più che come una nuova veste, l'umana carne; 3 Dio operò direttamente; la cera, ch' era l'Idea di Dio, non poteva non essere dedutta a punto; chi la duceva, lo Spirito santo, non poteva non essere in sua suprema virtú: era dunque necessario che in Cristo e in Adamo fosse tutta la perfezione possibile:

Sí ch' io commendo tua opinione,
che l'umana natura mai non fue
né fia, qual fu in quelle due persone.
Popoli, 1909.

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L. FILOMUSI GUELFI.

<< Filius dicitur Sapientia Patris, quia est Sapientia de Patre Sapientia »>. SAN TOMM., Summae theol., I, 39, 7.o

2 << Creare non est proprium alicui personae, sed commune toti Trinitati ». SAN TOMM., Summae theol., I, 45, 6.o

3 Op. cit., III, 2, 6.o

4 Per ciò che si riferisce alla creazione, cfr. i vv. 1-6 del Canto X del Parad.; e il Vang. di san Giovanni (I, 1-3): « In principio erat Verbum.... omnia per ipsum facta sunt ».

VARIETÀ

Alfragano e Dante.

Edoardo Moore per il suo notissimo opuscolo su l'astronomia di Dante (Studies in Dante, Third Series, first part, Oxford, Clarendon, 1903, pp. 1-108) si è servito dell' edizione di al-Fargăni uscita ad Amsterdam nel 1669, per opera degli eredi del Golio, che aveva curato il testo arabo un pò a modo suo (correggendo qua e là il ms. che ora è alla Biblioteca dell'Accademia delle scienze di Leida), fatta una buona traduzione e note amplissime spccialmente al 1° e al 9° capitolo. L'edizione del Golio è sempre buona per quanto, criticamente, deficentissima, e può odoperarsi molto utilmente anche oggi, già che è l'unica che ci metta in grado di giudicare del testo arabo. Io credo di essere stato il primo a tornare sul lavoro del Golio, e avendo ora in mano tutto il materiale interamente inedito) risguardante e il testo arabo e le versioni, ho creduto bene di dar notizia di alcune note raccolte nel corso dei miei studî, le quali serviranno d'introduzione a un lavoro più ampio e completo.

Il Moore, come ho detto, si appoggia sull'edizione del 1669, senza farsi un' osservazione pure tanto elementare: che Dante non poté conoscerla e né pure poté conoscere il ms. arabo di cui si servi il Golio. Quindi bisognava ancóra domandarsi se l'edizione di Amsterdam corrispondesse a quella che Dante aveva conosciuta.

Il bello si è che lo stesso Moore, parlando, a p. 5, della versione pubblicata a Francoforte nel 1590 disse che essa.... « or rather some MS. to which this edition is related, exibits most

nearly the type of the text used by Dante.... Ora sarebbe bastato dare uno sguardo a questa edizione, per convincersi che si tratta di ben altra cosa che non sia l'ed. del 1669: basti dire che questa è la versione di una recensione ebraica; e che questa fu fatta (da un certo Jacol Antoli per incarico di Federico II)

su una versione latina ritenuta quella di Giovanni da Siviglia (Johannes Hispalensis) e su un ms. arabo perduto, che, se dobbiamo credere al traduttore ebreo, era in alcuni punti molto diverso da quelli che ci rimangono, per quanto io sia persuaso che i punti tanto diversi siano quasi tutti interpolati.

La ragione per cui quell'edizione sembra più vicina al testo usato da Dante è la seguente la versione ebraica dell' Antoli fu fatta su un'altra versione diversa da quella dell' Hispalensis, e il Christmann nal renderla latina tenne conto di un ms. latino contenente una versione d'Alfragano « descripta a Friderico monacho Ratisponensi, ordinis S. Benedicti, in monasterio S. Emeranni et absoluta anno domini 1447 in die Goaris, confessoris » (pp. 5-6).

Di questo ms. il Christmann dà alcuni saggi i quali, per quanto brevi, sono bastati per convincermi che si tratta della versione di Gherardo da Cremona: e questa versione fu quella usata dall' Antoli,

Un codice della Nazionale di Parigi (ancien fonds latin 7267) porta questa intestazione : « Alfragani liber de aggregationibus stellarum et de principiis coelestium motuum e una copia di » questo (a. f. 1. 7400) ha di piú: « a magistro Girardo cre. translatus de arabico in latinum ».

A chi non vien in mente leggendo anche

solo questo, il passo del Convivio (II. VI. 135) dove Dante cita il Libro dell' aggregazione delle stelle?

E si noti che al tempo di Dante non esisteva che un' altra versione: quella di Johannes Hispalensis, sopra citato, e che essa porta nei mss. (e credo di aver notizia di tutti) e nelle edizioni a stampa intestazioni cosí diverse da non poter pensare che Dante potesse riferirvisi.

Stabilito questo punto di somma importanza, risponderò a una domanda: corrisponde il testo di Gherardo a quello del Golio? Assolutamente no.

Il ms. del quale si serví il Golio è, tutto sommato, assai buono, ma non certo quanto l'altro usato da Gherardo: questo era piú completo e più corretto, tanto che di questa sua veste latina ho potuto servirmi per fissare alcune lezioni conservate poco bene nella tarda copia (diretta o indiretta non importa) esistente ora alla Nazionale di Parigi (ms. ar. 2504). Io non ricordo di aver preferito mai nessuna lezione dei varî mss. arabi a quelle che il traduttore latino ebbe innanzi, mentre invece ritornando sul ms. usato dal Golio ho

dovuto fare due cose: notare un centinaio fra correzioni arbitrarie e inesattezze di trascrizione, e rifiutare piú di altrettante lezioni del ms., perché assolutamente non convenivano.

In questo stato di cose io pensai che sarebbe stato bene fare un'edizione della versione di Gherardo, molto più che tanto quella di Amsterdam come le altre di Christmann e di Giovanni da Siviglia sono ormai rarissime, mentre i dantisti hanno bisogno di mettersi in relazione diretta colle fonti alle quali Dante attinse, e non darsi in braccio a quei pochi che in certi campi si sono conquistati il titolo di maestri e dopo dispensano gli scolari dallo studiare. Alfragano ci ha dato un piccolo e chiarissimo sunto di tutta l'astronomia antica, e con esso si potrà intendere non solo Dante, ma anche tutti gli scrittori che hanno parlato secondo le idee antiche.

Questa idea è stata raccolta dal Passerini ed io metto a sua disposizione tutto il lavoro già fatto, ben lieto se avrò, a opera finita, dato materia sicura e impulso novo agli studî danteschi.

ROMEO CAMPANI.

BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

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ALIGHIERI DANTE.

La « Divine Comédie» traduite et commentée par A. Mé liot, et ornée de Portraits d'après Giotto et Masaccio. Paris, Garnier frères, Libraires-éditeurs, [Tours, impr. E. Arrault e Cie.], 1908, in-8°, pp. (6)-612-(4).

Sommario: Dante, sa vie et ses oeuvres; Description de la Divine Comedie »; Histoire de la Divine Comédie » ; Classification des châtiments et des récompenses; Les guides de Dante dans son voyage surnaturel; Les sept Péchés capitaux au Purgatoire; Les Beatitudes au Purgatoire; La « Divine Comédie »; Bibliographie et sources a consulter.

(3620) Paradicsom ». A « Divina Commedia » harmadik része. Prózába átírta és magyarázta Cs. Papp József. Kolozsvár, Radics Sándor Kiadása, 1909, in-16. di pp. X-203-(1), con ritr.

ALIGHIERI DANTE. A

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(3621) BAINVILLE JACQUES. L'Italie et le culte de Dante. (Nella Gazzette du midi, 15 decembre 1908, e nell'Action française del 7 dec. 1908.

A differenza della Republica che < chez nous a joué

la comédie de la revanche mais en a laissé mourir l'idée au coeur des Français la Monarchia italiana, pur legandosi in alleanza con l'Austria, tiene desta la questione dell'«< irredentisme ». E fa bene; sebbene la Francia non debba esser molto lieta di questo patriotismo che può, presto o tardi, portare al compimento definitivo della unità d'Italia, perché <<< le patriote français ne doit pas oublier que l'Italie-une, la plus grande Italie » è naturalmente nemica della Francia, per la quale constitue un péril permanent » (!) La Francia non deve dimenticare il passato, né quindi ricader nell'er

rore in cui già cadde, aiutando a suo danno la vicina Italia a comporre la sua unità a prezzo di sangue francese: « inou. bliable exemple d'une politique d'illusion, et de duperie conseillée à un César halluciné par les ancêtres des Ribat, des Deschanel, des Pichon, ed des Jaurès d'aujourd'hui Nonostante tutto ciò, è innegabile che l'Italia, col suo ac. ceso irredentismo, dà un bell'esempio di amor di patria ai francesi, ormai dimentichi delle loro belle province di Alsazia e Lorena, e rassegnati al fatto compiuto. I recenti avvenimenti di Vienna hanno avuto in Italia una tale eco, che è prova sicura de' sentimenti generosi che animano la sua giovine generazione. E una prova di tali sentimenti è, senza dubbio, anche il culto vivo di Dante, il cui Poema è « vivant e brûlant des passions mêmes des Italiens contemporains ». Il nome di Dante è stato imposto, in Italia, alla piú possente delle sue associazioni patriotiche, e a Ravenna, insieme con un numero grande di cittadini di Trento e di Trieste, gli Italiani hanno consacrato solennemente sul sepolcro del loro Poeta una lampana votiva che dovrà ardere perenne. A Ravenna come all'Aquila, dove in presenza di un Ministro del Re, in un convegno della Dante Alighieri furono apertamente dichiarate e affermate le speranze e i desiderî della patria, convennero scrittori, artisti e pensatori d'ogni regione d'Italia. « Ce que Barrès et Déroulède ont rèvé de faire, ou plutôt de faire durer en France se réalesait sur la terre d'Italie, et sous l'égide de la Monarchie de Savoie »; e cosí si maturano i tempi per la rivincita di Lissa. Amen! (3622) BOFFITO G. Cfr. il no. 3645. BOLOGNINI. G. « Dante » di Eloise Durand-Rose. (Nel Giornale d'Italia, ottobre 1908).

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