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IL CANTO VENTESIMOSESTO DELL'INFERNO

I.

Il Poeta ha già percorso sette valli del triste, maligno cerchio dei Fraudolenti, tutto di colore ferrigno, siccome è l'alta ripa dura che intorno lo cinge. Si succedono concentriche, scoscese, degradanti le dolorose valli, queste malebolge, in cui si annidano tutti i rifiuti della società umana, le tendenze criminose peggiori, gli abiti piú vergognosi della colpa, di colpe che non sono passioni, ma turpe, perniciosa scabbia. Anche l'aspetto dei luoghi è qui mutato, «< perché mutato è il di dentro.... allo spirito oscurato e materializzato.... risponde una natura sformata e in dissoluzione ». Il Poeta ne sente il lezzo: un abisso vi è fra lui e le inique torme umane. Brevi momenti ha, pur è vero, di commiserazione, ma cosí tenue e poco profonda, che sembra pretesto per provocare la rampogna del Mantovano :

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pungente amarezza dell' uom di parte soccombente, non domo. Nella guerra della pietate il Poeta risulta vincitore.

E, cosí, cinque ladri della settima bolgia, cinque ladri fiorentini che, tutti, furono nel mondo di nobile condizione, cinque uomini serpenti, che egli ha contemplato intensamente nelle strane, spasmodiche convulsioni, negli scontorcimenti delle metamorfosi grottesche

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provocano il terribile epinicio infernale, con il quale s'inizia questo ventesimosesto Canto.

È odio violento, incoercibile, che, forse compresso, scoppia ad un tratto, senza reticenze, in un momento in cui nulla varrebbe a placare il Poeta. Dapprima, un riso beffardo, amaramente crudele, accompagna l'invettiva contro il popolo maligno della terra prava, contro la ben guidata, sozza d' ogni lordura, nemica di Cesare; ma, poi, muore il sarcasmo soffocato dall' ira, ed egli deve spiattellar, senza ambagi, quel che ferirà dolorosamente l'avversario. L'ironia continuata, il sarcasmo, danno indizio, pur sempre, di una certa, per quanto relativa, calma dello spirito, ma, qui, la folla dei ricordi sovrabbonda, trabocca; ed egli ha bisogno urgente ed irresistibile di affermar in faccia ai Fiorentini la sua superiorità morale. L'accusato giudica il giudice: mi vergogno di te, di esser fiorentino, dei miei concittadini ladri, di quel che a te non

1 DEL LUNGO, I comuni, i signori, le corti, il clero. Firenze, 1891, p. 20.

Giornale dantesco, anno XVII, quad. V.

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dà noia, o Firenze; ché ti manca ogni senso morale, fin anco il pudore delle tue miserie. Sta sicura che tu non sali in grande onoranza per questi cotali e per quelli che ad essi somigliano. L'atto di accusa colpisce inesorabilmente tutta la città: non sono tutti all' Inferno i ladri di Firenze, i depredatori dell'erario, ché ben ne ha molti il popol giusto e sano, e non tutti villani puzzolenti, dall'occhio aguzzo, di Aguglione o di Signa, ma tanti e tanti d'illustri casate. La corruzione è al colmo, son cosí numerosi gl' iniqui! dove sono i cittadini integri ed onesti? Lo scandalo ne è grande da per tutto, presso tutte le genti, e la vendetta di Dio scenderà terribile su di essi, che già da lungo tempo è provocata.

Quando scrisse questa invettiva? In quel momento le speranze dovevano esser cadute del ritorno: nessuna via gli si apriva dinanzi, nessuna speranza: si frapponevano ostacoli insormontabili. Ma l'esule non è abbattuto dalle sventure, l'ira contro i nemici si agita nel suo petto come igneo vapore in vulcano. E certo, mentre scrive, ben ricorda le sventure più o meno recenti della patria, negli ultimi anni, la rovina del ponte alla Carraia, l'incendio del giugno 1304, e forse altro. Certo, scrive dopo di queste sciagure, non può non rammentarsene, le quali per lui, come per molti, non furono, né potevano non essere, senza significato, ma mòniti del Cielo, segni evidenti dell'ira celeste. Ma non credo alluda in particolare a questi fatti, o a qualcun altro simile già successo prima che egli scrivesse cosí. Piuttosto, quei fatti dovevano averlo confortato in una sincera, genuina fede di giusta vendetta, che avrebbe fatto sentire al popolo senza legge l'orrore delle colpe, e gli avran dato la possibilità di guardare nell' avvenire. Le profezie dantesche, come tutte le altre del Medio-evo, sono conseguenza logica

1 II PARODI (Boll. della Soc. dant., N. S., XV, 26) notando l'oscurità di questa profezia, nella quale crede che l' allusione a Prato si riferisca alla cacciata dei Neri del 6 aprile 1309, giustamente insiste sui caratteri che ha di mistero e di titubanza, dai quali a me sembra arguire l'elevazione dell'animo di Dante, in un momento di triste realtà, al concetto dell' alta giustizia divina, che è per lui la nemesi storica.

psicologica delle Visioni. Ma questa del 26° Canto, per schietta virulenza, ardore di passione, ha qualche cosa di suo; le altre del poema sono piú pacate. Non somiglia, per es., a quella di Forese, in cui evidentemente si allude a fatti concreti. Qui la fede è generata dalla convinzione che non vi è male che non

si paghi dinanzi a Dio, e che è assai prossima la pena quando la misura è colma. Alle sventure seguiranno sventure maggiori, alle miserie miserie. Egli presente che quel che ha visto è il preannunzio, ma altro verrà. La sua profezia, frutto della sua credenza nel Dio biblico, sterminatore degli empi, ispirata da eventi da cui l'animo suo era rimasto vivamente colpito, non si arresta ad essi, non è finzion poetica, non giuoco di cui possano sorridere i suoi nemici, pensando, nell' atto di leggere i suoi versi, che il pericolo era stato già superato e quelle sventure erano state già subíte, nel momento in cui, realmente, egli profetava con tono tanto solenne. Egli ha come lo spirito degli antichi profeti, che scagliavano i loro anatemi sul popolo di Dio e preannunziavano tremendi castighi. Fin che la virtú prevalse nel bello ovile, ed il popolo vi fu adorno di ogni pregio, lieto vi era il vivere, ed il giglio

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Non era, ad asta, mai posto a ritroso, né, per division, fatto vermiglio. 3

Tempi oh quanto lontani e diversi da quello in cui vive il Poeta! La crudeltà dei lupi ha vinto la mansuetudine dell' agnello, e tutta la città è cosí piena d'invidia che già il sacco

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mens prophetae.... a Deo instruitur per quemdam instintctum occultissimum. » (Summa Theol., II-II, q. 171, a. 5) Della possibilità di divinare il futuro nei sogni: S. Theol., II-II, q. 95, a. 6 e q. 172, a. 1 — « Donum prophetiae aliquando datur homini et propter utilitatem aliorum, et propter propriae mentis illustrationem ». (S. Theol. II-II, q. 172, a. 4.) Cfr. Convivio, II, 6.

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mento non

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trabocca. Quante volte vi ha pensato, e l'animo, esulcerato, sospirando un avvenire migliore, rifuggiandosi in Dio previde la punizione esemplare. I fulmini del cielo diventano, nel suo cuore presago, ministri ancor suoi, del suo sdegno. Ah! vedranno, dunque, vedranno la vendetta, che nascosa fa dolce l'ira di Dio nel suo segreto! Forse, nel ravvediconta, ma, piuttosto, si augura che i lupi sieno serrati tutti quanti fuor dell'ovile. Per quanto, in un momento di depressione, avesse fatto dire a Ciacco che i nemici avrebbero tenuto alte lungo tempo le fronti, non è, psicologicamente, possibile immaginare che egli, qui, non si attenda da quei castighi un effetto che appaghi le sue maggiori e persistenti aspirazioni. Se il suo antivedere non l'inganna, l'attesa non potrà esser lunga. Ficca, rificca il coltello nella piaga; e allude alla malevolenza dei vicini Pratesi, per far, certo, presentire la gioia che questi ed altri proverebbero alle sciagure fiorentine. E cosí le centuplica: poiché ci sono maggiormente dolorosi quei mali che, sappiamo, producano lietezza in nostri segreti nemici o palesi.

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L'ultima terzina dell' invettiva, la quarta, par quasi che contrasti con il sentimento delle precedenti, ma, in vero, riesce a farci balenare la visione profetica dei futuri danni anche piú cupa e terribile, se egli, profeta convinto che la città natale, per la corruzione della gente, ben merita di esser punita, rimane come inorridito, esterrefatto a quel che vede nell'avvenire; ed è cosí che vorrebbe che i concittadini già avessero pagato lo scotto di lor magagne, giacché è ineluttabile che sia. Se un figlio della patria espulso, offeso in ciò che ha di piú caro, atterrisce al pensiero della calamità che la colpiranno, o quali, o quante

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1 La patria è in cima ai suoi pensieri, ed or impreca, or ne piange, or torna alle invettive. « Oh misera, misera patria mia! quanta pietà mi strigne per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto!» Conv., IV, 27.

2 Una contraddizione della stessa natura si nota nel XXVII del Parad. V. CHIURLO, Le idee politiche di D. A., ecc., in Giornale dant. XVI, p. 95, 2a colon. nota; e TORRACA, Commento.

3 S. Tommaso distingue tre specie di profezie : Proph. comminationis, pr. praedestinationis, pr. praescientiae. Del terzo tipo è questa, poiché la prescienzia

dovranno essere! La patria si è colpevole, ma come il suo cuore ne sosterrà i tristi lutti ? Oh come vorrebbe, quel che è impossibile, averne già provato il dolore, che più gli graverà, col gravargli degli anni sulle spalle! Egli ha la certezza assoluta di ciò che vero spirto gli disnoda. Il convincimento morale è divenuto visione profetica. Il profeta piange sul destino della patria. Quelle lacrime vi dicano la verità delle sue parole, o empi, o cittadini che non udite colui che ha sempre vanamente parlato per ritrarvi da perdizione. L'invettiva cosí acre in cui rigido è il giudizio di una città che non era tutta nido di malizia è provocata legittimamente dal dolore che provava il cittadino colpito ingiustamente, randagio, quasi mendico, in sospetto a molti, costretto a vita grama, di ripulse piena, nella quale lo assaliva il lazzo volgare di Cecco Angiolieri, che, buffoneggiando, godeva di paragonarglisi. « E sono vile apparito agli occhi di molti.... ». Quanta amarezza nel suo animo triste! Questo dolore ci fa intendere l'uomo, mentre, vestito con il suo lucco, ricerca nell' inferno i suoi concittadini, e li fissa, e li guata, e si abbandona a compiacenze feroci; quando per i balzi prosegue, implacabile, la sua vendetta, e grida i vituperi contro gli orbi, gl' invidiosi, gli avari, gl'ingrati, i maligni della città partita, piantata dal diavalo.3

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Il Leopardi, paragonando le sventure di Dante a quelle del Tasso, afferma che il primo, pur ammirato più del secondo, a suo avviso è meno commiserabile e commiserato, giacché, mentre nel secondo « veggiamo uno che è vinto dalle sue miserie, soccombente, atterrato », in Dante, per contrario, << veggiamo

si dice degli eventi futuri buoni o cattivi che debbano assolutamente capitare. Le profezie di 1° tipo possonsi anche non effettuare, giacché « per eas praenuntiatur ordo causae ad effectum, qui quandoque aliis supervenientibus impeditur. » Le prof. di 2o tipo sono solo di avvenimenti lieti. (S. Theol. II-II, q. 174, a. 1). Sulle profezie dantesche e, in genere, su quelle medievali: ZINGARELLI, Dante, pp. 524-25 e n.

1 V. Zingarelli, op. cit., pag. 201.
2 Conv., I, 3.

3 Inf., XV, 61-69.

▲ Inf., VI, 61.

5 Parad., IX, 127.

un uomo forte, bastante a reggere e sostenere la mala fortuna ;... un uomo che contrasta e combatte con essa, con la necessità, col fato ». Egli che ha pianto sul sepolcro del Tasso, << non ha sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante ». Il che, se è in tutto vero e se in tutti cosí avviene, per le ragioni accennate dal Recanatese, forse bisognerà pur dire che i moderni non scendono nell' intimo di quel dolore, che assurge a cosí potenti espressioni or di cruccio, or di odio, or anche nostalgiche di tenerezza, non misurano la sua angoscia per esser stato tanto crudelmente gettato fuori del dolcissimo seno della patria, nella quale era nato ed era stato nudrito fino

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al colmo della sua vita. La violenza contro Firenze è spiegata dalla forza dell' amore. Il comune era la Patria, in quelle mura il ricordo di un passato di costumi semplici e virtuosi, con caldezza di affetto rievocato da Cacciaguida. La piaga farà sempre sangue. Anche quando avrà visto altri paesi, conosciuto altre genti, e molte sue idee si saran modificate, non gli sarà possibile una vera e propria rassegnazione all' esilio. Questo lo avrà fatto italiano, gli avrà dato una coscienza d' italianità che altri non avevano, amerà tutta l' Italia bella dall' Alpe al mare, che possiede una favella piena di dolcissima ed amabilissima bel lezza, ma nelle altre terre italiche, checché affermi talvolta in contrario, egli si sentirà come straniero, e nel suo cuore mai potrà smorzare la fiamma del desio cocente del ritorno nel suo comune, nella sua città, che è il loco più caro, donde, lasciando ogni cosa diletta piú caramente, era stato costretto a fuggire, sotto inique imputazioni, come Ippolito da Atene. 8

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E se, col passar degli anni e per eventi sfavorevoli, perde di vigore quella speme viva, gli s'intensifica la brama della vendetta, che trova

1 Pensieri di varia filosofia ecc., vol. VII, p. 195. 2 Conv., I, 3.

3 Inf., XX, 61.

4 Conv., I, 10.

5 De vulg. Eloq., I, 6.

6 Parad., XVII, 110.

7 Parad., XVII, 55.

8 Sul sentimento di Dante per Firenze, cfr. CHIURLO, op. cit., pp. 109-10.

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1 VICO, Opuscoli, ed. Ferrari, Milano, 1852, p. 38. << Uomo di spirito torbido e malinconico » fu detto dal MACAULY (Saggi, III, p. 85, Torino 1863).

2 Sullo spirito vendicativo in Dante, cfr.: ZingaRELLI, op. cit., 191-2; TORRACA, Comm. al XXIX Inf. vv. 1-36. Sul carattere di Dante, tutt'altro che mite: IMBRIANI, Studi danteschi, 161 e segg.; Leynardi, La psicologia ecc. 54. Giuste considerazioni sulla vendetta intesa come giustizia ha il CAPETTI, L'anima e l'arte di Dante, p. 271. Il sentimento vendicativo in Dante parve al DE SANCTIS (Nuovi Saggi critici, Napoli, 1879, p. 27) in contraddizione col suo mondo ascetico teologico. Lo SCHERILLO (Alcuni capitoli della Biogr. di Dante., pp. 108-111) afferma che questo sentimento nel Poeta sia dritto zelo « degno non di riprensione, ma di encomio ». E che il poeta dovesse cosi pensare nessuno negherà, certo; che fosse sempre zelo encomiabile oppur no, è quistione che interessa i moralisti.

3 << Nihil est expectandum a Deo, nisi quod est bonum et licitum: sed vindicta de hostibus est expectanda a Deo : dicitur enim: Luc. 18.: Deus non faciet vindictam electorum suorum ad se clamantium die ac nocte? quasi diceret: Immo faciet; ergo vindicatio non est per se mala et illicita »>. « Est ergo in vindicatione considerandus vindicantis animus. Si vero intentio vindicantis feratur principaliter ab aliquo bono, ad quod pervenitur per poenam peccantis (puta ad emendationem peccantis, vel saltem ad cohibitionem ejus, ad quietem aliorum, et ad justitiae conservationem et Dei honorem), potest esse vindicatio licita, aliis debitis circumstantiis servatis »>. Ed altrove : « quando tota multitudo peccat, est de ea vindicta sumenda ». (S. Th., II-II, q. 108, a. 1). Nell'art. seguente, il Dottore Angelico dimostra come la vendetta sia « specialis virtus » suffragando il suo concetto con l'autorità di Agostino, Tullio, Aristotile, gli Evangeli.

di scale, e, quindi, inoltrarsi, con mille stenti per via solinga, ardua, fra sassi e macigni, aiutandosi con i piedi e con le mani. Sono versi diffusi di malinconia, ispirata al pellegrino dai luoghi, dalle scene di poc' anzi, e e, forse, dalla stanchezza che invade anche le anime superiori, allorché si sono abbandonate con violenza a sentimenti, se pur giusti, ecces sivi. E qui, nel proseguire il racconto del cammin periglioso, la mente è agitata da un rinnovato senso di doloroso, indefinibile sgomento al ricordo indimenticabile di quell'ottava bolgia e delle vaganti fiamme che celano gli spiriti tormentati di coloro che, assai famosi nel mondo, ebbero ingegno acuto ardente a nuocere, << accendendo coi loro detti, con le loro insinuazioni, grandi incendi di liti e di sventure umane »>. 1 Nulla poté loro resistere. Lasciarono correr liberi gl' ingegni non guidati dalla virtú che consiglia e che dell' assenso de' tener la soglia. Sta in noi la potestate di ritener l'intelletto. « Quanto la nostra volontà ottenere puote, tanto le nostre operazioni si stendono ». « Nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade >> E si proponeva, affrenandosi a tempo, di non trarre ragione di spregio e di danno da quell'ingegno, concessogli o per influsso di stella propizia, o, direttamente, dalla bontà divina. L'uomo retto teme, pur non disperando di se stesso, della carne inferma: fin che siamo quaggiú siamo debolissimi, soggetti ad assalti continui, mai sicuri: la sicurezza stessa sarebbe peccato, giacché il nemico peggiore è in noi stessi, nella nostra superbia. Guai a quelli che presumono delle loro forze. Non che egli abbia rimorsi, ricordi incresciosi lo turbino, come fu immaginato. Questo timore del male è a noi salutare, opponendosi alla

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1 GENOVESI cit. dal BARTOLI, Let. it., VI, 144. 2 Purg., XVIII, 62-3. Questa virtù, innata, è il libero arbitrio, che « nihil aliud est quam voluntas ». L'intelletto muove la volontà « per modum finis »>, ma la volontà muove l' intelletto « per modum agentis ». Cosí la volontà muove tutte le forze dell'anima. (S. Th., I, q. 82, a. 4.)

3 Conv., IV, 9.

4 Conv., I, 2.

5 Sulla buona stella di Dante, cfr. SCHERILLO, op. cit., p. 219. VOSSLER, La D. C. studiata nella sua genesi, ecc. I, 179.

superbia che ci allontana da Dio; è un vero dono dello Spirito Santo, ed in sé contiene il germe dell' umiltà. 1

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Ma, poiché il dottrinario cede il posto al poeta, questi come all'improvviso si abbandona alla visione di una scena di dolce serenità campestre, piena di suggestione, che, in due sole terzine, è determinata, con tocchi precisi, in tutte le sue circostanze di luogo e di tempo. Nei mesi estivi, le giornate sono lunghe, ed il villano, dopo le fatiche campestri, cade, sul poggio, stanco: la notte sopravviene, le mosche si ritraggono a riposo, e incomincia il ronzio delle zanzare. Ed egli, come estatico, con l'occhio segue il silente vagar delle lucciole per le coste degradanti alla valle. È un quadro sbozzato maestrevolmente. Vi si è indugiato con compiacimento. Non chiose del Poeta, non commenti. Ma per noi quel villano sta lí, come con gli occhi trasognati fra l'azzurro del cielo, in cui già splendono le stelle, ed il cupo della valle, in cui innumeri le lucciole or appariscono or scompaiono, moto fantastico di esseri incomprensibili, suscitando, forse, nell'anima timida di quel figliuol della terra, incerti terrori, con le memorie di racconti uditi nei primi anni della vita. Dall'alto del ponte il Poeta sta a guardare nel fondo della bolgia, tutta risplendente di mobili fiamme, numerose come le lucciole viste dal villano. È scomparso, or mai, in lui ogni senso di abbandono, ogni effetto di stanchezza; e passa velocemente di intuizione in intuizione, fecondo nel cogliere rapporti arditi, nelle immagini vivamente rappresentative. - Quelle fiamme infernali si muovono per la gola del fosso, ciascuna con il suo furto vi son chiuse dentro, fasciate, le anime che ne ardono, e che rimangon nascoste, perché in segreto macchinarono inganni; mobili, erranti, solenni, un che di misterioso, di potente, quasi antitesi a scene grottesche di bolgie precedenti. Questa è stanza dei fraudolenti consiglieri, genialmente malvagi, chè l'intelletto sottilmente acuirono, o escogitando, per fini buoni o cattivi che fossero, mezzi subdoli, o compiendo tristi azioni dolose. Fu

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S. Th., II-II, q. 19, art. 10, e q. 20 e 21.

2 S. Th., II-II, q. 55, a. 3.

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