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CHIOSE DANTESCHE

I.

A proposito d'una variante.

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La doppia lezione da cui prendo le mosse risguarda uno dei brani più popolari e famosi dell'Inferno, l'episodio del conte Ugolino, a cui fa grazia bontà sua con parole di alto encomio perfino il Bettinelli. Mette conto di occuparsene, dopo che il Blanc credette di sostenere una delle due varianti con ragioni che non vanno certo accolte a gran plauso, come pretenderebbe lo Scartazzini. Il quale, fatto forte delle osservazioni del critico tedesco, vorrebbe che si leggesse

Tu dei saper ch'i' fui il conte Ugolino
e questi l'arcivescovo Ruggeri,

non già

Tu dei saper ch'i' fui il conte Ugolino
e questi è l'arcivescovo Ruggeri.

Dei moderni chi segue l'una e chi l'altra: il Torraca, il d'Ovidio (Cfr. D'OVIDIO. Nuovi studi danteschi. Ugolino, Pier della Vigna e i Simoniaci. Hoepli, Milano, 1907, p. 27) e il Fornaciari, per citare alcuni fra gli ultimi, accettano la seconda, senza entrare in discussioni; ma il vedere la prima accolta nei loro. commenti da autorevoli cultori degli studî danteschi quali sono, oltre allo Scartazzini, il Casini e il Passerini, mi induce a discuterla con argomenti tratti principalmente dalla Divina Commedia. Lo Scartazzini, appoggiandosi al Blanc, ne riassume in forma lucida la nota con le parole che io riporto: « v. 14. E questi: sottintendi fu. Al. E questi è. Vedi la finissima osservazione del Blanc, Versuch, etc. p. 283285. Dalle parole: Cesare fui e son Giusti

niano, Par., VI, 10 il Blanc ne deduce che Dante usa sono, è, quando le ombre si nominano semplicemente col nome proprio, fui, fu, quando si accenna il loro grado, uffizio, titoli, ecc. Secondo questo principio, che a noi sembra giustissimo, convien leggere E questi, cioè fu.» (La Div. Comm. ecc. riveduta nel testo e commentata da G. A. Scartazzini, vol. I, Leipzig, 1874, P. 407).

Non voglio dubitare della buona fede del Blanc, né dello Scartazzini; ma solo che avessero posto mente innanzi allo stesso Canto, si sarebbero incontrati in frate Alberigo, che, contrariamente a ogni loro argomentazione, si enuncia: Io son frate Alberigo, v. 118: e come spiegarlo? Non dubiteremo certo del senno e dell'accuratezza di Dante per ciò, come pare che il Blanc téma che accada, né crederemo di poter aggiungere un'appendice al dotto libro del Fraccaroli L'irrazionale nella letteratura; ché anzi le ragioni della varietà introdotta da Dante ci sembrano profonde e tali da accrescere bellezza a molti luoghi dove per avventura gli venga, nell'enunciazione de' suoi personaggi, di usare ora il presente, ora il passato. Per ragioni di opportunità non trascrivo tutto il brano del Blanc, a cui rimando gli studiosi che vogliano leggerlo per intero, sperando che non mi si ascriva a negligenza, se non mi vien fatto qui a Venezia di trovarne che la traduzione italiana. (Saggio di una interpretazione filologica di parecchi passi oscuri e controversi della « Divina Commedia per L. G. Dr. Blanc. Prima ver» sione italiana, ecc. di O. Occioni. L'Inferno. Coen Ed., Trieste, 1865, pag. 309-310).

Perché il critico, fidandosi forse un po' trop

po della sua memoria, asserisce senza riserve : « Occorre solo due volte sono, dove, giusta il nostro avviso, dovrebbe star fui: Inf., XII, 104, Ei son tiranni, e Inf., XIII, 58, Io son colui»? Io non ho la pretesa di citare tutti gli altri luoghi che ai due si possono aggiungere, ma a confortare il mio asserto riporterò quelli in cui mi sono avvenuto, lasciando ad altri la cura, se lo creda opportuno, di ampliare la trattazione d'una tesi che, condotta con diligenza e opportunamente discussa, temo supererebbe le proporzioni consentite a una nota critica di rivista.

Di dove muove e su che si appoggia il Blanc per venire a conclusioni a cui nessuno prima di lui era arrivato? Dal verso Cesare fui e son Giustiniano, Par., VI, 10, in cui chiaramente è distinto il nome del grado dal nome della persona : quello se ne va con la vita, questo rimane. E chi sa arrischio anch' io un'ipotesi per quello che può valere

che, poiché l'anima di Giustiniano appare a Dante come una sustanza Sopra la qual doppio lume s'addua, Par., VII, 6, non si voglia distinguere l'ufficio di Cesare da quello di legislatore, piú proprio questo di Giustiniano come persona? Nel qual caso, per chi ben miri, la distinzione acquisterebbe - messa in relazione con la doppia luce — un significato ben differente e più alto da quello, quasi ozioso, attrititole finora; designando nella prima parte, Cesare fui, un ufficio passeggiero, nella seconda, son Giustiniano, l'ufficio durevole nell'opera ispirata dallo Spirito santo

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per voler del primo Amor - di ordinatore e compilatore delle leggi traendone il troppo e il vano. Checché sia di ciò, veniamo ai luoghi non pochi che contrastano con la legge posta dal Blanc.

Dopo che Virgilio avrà detto di sé uomo già fui, Inf., I, 67, e Poeta fui, id., I, 73. indicherà Omero e Orazio con le parole Quegli è Omero, poeta sovrano, L'altro è Orazio satiro, id. IV, 88-89; e nel Purg, IV, 58, Virgilio è chiamato di nuovo col nome di poeta, Ben s'avvide il poeta...., qualità del resto attribuitagli dai savî, Onorate l'altissimo poeta, Inf., IV, 80, che tosto però si correggono nel verso seguente riconoscendo che non è più che ombra: L'ombra sua torna, ch'era dipartita, id., 81. Nell'Inf., X, 119, 120,. s'incontra qua dentro è lo secondo Federico El Cardinale,

sta

distinguendosi l'uno per secondo della serie, quando nell'Inferno non hanno luogo piú né primi, né secondi, e l'altro - piú grossa quecol titolo unicamente di Cardinale: pazienza, se gli andasse aggiunto il nome come altrove avviene, ma lo si chiama proprio con dignità che più non conserva; tant'è vero che piú non la conserva, che prima chiederà Dante nel cerchio dei prodighi e degli avari se tutti fur cherci questi chercuti. Inf., VII, 38, 39, e gli sarà risposto da Virgilio Questi fur cherci.... e papi e cardinali, id., 46, 47: furono e non sono piú; che se di ciò potesse rimaner dubbio, rammenterò quanto ammonisce Adriano V, dopo che alle sue parole Scias quod ego fui successor Petri, Purg., XIX, 99, il Poeta gli s'inginocchia davanti, per riverenza alla dignità di pontefice:

Drizza le gambe, levati su, frate
rispose non errar, conservo sono
teco e con gli altri ad una potestate.
Se mai quel santo evangelico suono
che dice Neque nubent intendesti,
ben puoi veder perch'io cosí ragiono,
Purg., 133 segg.

Giusta quindi la sentenza di Adriano V, la tomba di papa Anastasio fra gli eretici porterebbe una scritta bugiarda, chi rifletta che Anastasio non è più papa; ed ecco la scritta bugiarda: Anastasio papa guardo, Lo qual trasse Fotin dalla via dritta, Inf., XI, 8, 9. Più oltre troviamo il verso Tu credi che qui sia il duca d'Atene, Inf., XII, 17, e con la perifrasi si designa Teseo, che nei regni dei trapassati non è certo piú duca: Poco appresso, nello stesso Canto, al v. 90, è detto Non è ladron, né io anima fuia, quando, parlandosi in sentenza del Blanc, si dovea usare fu e non è, ladroni piú non avendo luogo fra i dannati. Ci avveniamo finalmente in uno de' due luoghi dal Blanc allegati quali eccezioni alla legge da lui scoperta e magnificata dallo Scartazzini: Ei son tiranni, Che dier nel sangue e nell'aver di piglio, Inf., XII, 104, 105, dove è chiaro a tutti che, se dier nel sangue e nell'aver di piglio, furono tiranni. Curioso il modo come è dato a conoscere Guido Guerra! parla a Dante l'un dei tre fiorentini fra i violenti contro natura: questi.... fu di grado maggior che tu non credi...., Guido Guerra ebbe nome, Inf., XVI, 34 segg., e per il nome proprio della persona, che si conserva

sempre teniamo presente il son Giustiniano

si usa ebbe, non ha, con riferimento manifesto al tempo in cui acquistò, secondo Fil. Villani, il titolo di Guerra, essendo uomo battagliero ciò non toglie però che si chiami anche nei regni della morte con lo stesso nome e duri ad essere Guido Guerra nell'In· ferno. Questione invece non si può fare sul passato rimoto usato nel Purgatorio con Ottachero, Ottachero ebbe nome, Purg., VII, 100, se pure non si voglia spiegare come contrapposto al presente usato per il figlio di Ottachero:

Ottachero ebbe nome, e nelle fasce fu meglio assai di Venceslao suo figlio barbuto, cui in lussuria ed ozio pasce. Ma ci attende maggior maraviglia pochi versi innanzi, in cui si passa al presente per venir tosto al passato: L'altro, che appresso a me l'arena trita, È il Tegghiaio Aldobrandi.... Ed io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo La fiera moglie più che altri mi nuoce, Inf., XVI, 40 segg. È il Tegghiaio Aldobrandi dà ragione al Blanc, ma non cosi Iacopo Rusticucci fui: né si creda che quel fui sia piantato là a capriccio: no, ma ad opporre allo stato di miseria eterna la condizione di cavaliere onorato goduta nel mondo e si badi che al fui segue il presente nuoce per indicare che la fierezza della moglie gli è causa di tormento che dura eterno, che nuoce dunque eternamente e non nocque soltanto. Con questi Fiorentin son Padovano, Inf., XVII, 70: sarà stato Padovano, come gli altri compagni dello Scrovigni saranno stati Fiorentini, ed ora cessano di esserlo. Fra gl' indovini Virgilio si esprime cosi, indicando i peccatori al discepolo: Aronta è quel che al ventre gli si atterga, Inf., XX, 46, e qui non c'è che dire; ma poco appresso troviamo E quella.... Manto fu, id. 52, 55. Come? Aronta è e Manto fu?! Manto stando sempre alle idee del nostro critico è, come è Aronta, anzi sarà sempre, in eterno. Di Euripilo troviamo detto Fu.... augure, id., 108, 110, e poco appresso Euripilo ebbe nome, id. 112; augure non è più, ma Euripilo non sarà sempre? Se non che è usato forse il passato per riportarci al tempo in cui visse, tempo antico e lontano da Dante. E tre versi dopo eccoci a Michele Scotto fu, id. 116, eppure era medico e astrologo alla Corte di Federico II.

....

Conosci tu alcun che sia Latino, Inf., XXII, 65? Latino non può piú essere e solo lo fu in terra, quindi al canto XXVI, 75, di Ulisse e Diomede troviamo giustamente....ei fur Greci; ma fra non molto troveremo parla tu, questi è Latino, Inf., XXVII, 33; Dinne se alcun Latino è fra costoro, Inf., XXIX, 88 chiederà Virgilio, pure avendo detto superiormente Ei fur Greci, e gli sarà risposto Latin sem noi, id. 91, e io fui d'Arezzo, id. 109; ma come è Latino, cosí non è anche da Arezzo Griffolino? Senza dubbio, e tanto è vero che più oltre Dante indicando Griffolino dirà E l'Aretin.... mi disse, Inf., XXX, 31, indizio che il dannato ritiene ancóra la qualità di aretino. L'altro è il falso Si\non| greco da Troia, id. 98, E mastro Adamo, id. 104; Simone e Adamo sí, ma greco l'uno e l'altro mastro non piú. Disse il greco, id., 122; qui dunque Sinone torna a considerarsi greco.

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Bizzarrie, potrebbe pensare un pedante dal pie' di piombo, che non riuscisse a spiegarsi come lo scrittore varii nell' uso del tempo secondo il momento diverso in cui rappresenta i suoi personaggi, o secondo il punto di vista dov'egli si pone rispetto a loro, o infine per addurre un'altra delle ragioni non tutte facili a indagarsi secondo l'illusione del senso che, scambiando l'ombra per la persona corrispondente, non ha tempo d'esser corretto dalla ragione, come chiaramente appare nell'abbraccio a cui corre Dante con Casella e nell'abbraccio piú curioso ancora di Stazio e Virgilio. E sottilizzando, e allargando da homo emunctae naris la legge scoperta dal critico tedesco, potrebbe anche domandar conto a Dante di altre stranezze, derivanti sempre dalla varia proiezione nel tempo della sua figura o di quella delle ombre. Perché Dante si fa lecito di scrivere Egli avean cappe con cappucci bassi, Inf., XXIII, 61, quando si suppone che le avranno in eterno, come i prodighi e gli avari In eterno verranno agli due cozzi, Inf., VII, 55? O non si esclama poco stante Oh in eterno faticoso manto! Inf., XXIII, 67? Gli è che il Poeta si riporta al momento della visione, tempo lontano da quello in cui scrive. All'impaccia del Purg., XI, 75, non da tutti però inteso per presente il Biagioli osservava che Oderisi, « nell'atto che Dante scrive, gli si affaccia cosí al pensiero ira ». Altre volte, come si è già

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notato, il suo punto di vista è nel mondo, e dal mondo egli si riferisce al momento della visione :

Negli occhi era ciascuna oscura e cava,
pallida nella faccia e tanto scema
che dall'ossa la pelle s'informava,

Purg., XXIII, 22 segg.

E non si spiega allo stesso modo Anteo.... ben cinqu'alle, Senza la testa, uscia fuor della grotta, Inf., XXXI, 113, 114? Piú oltre invece troveremo usato il presente per indicare la durata eterna delle pene di Lucifero e di Giuda : .....il fondo che divora Lucifero con Giuda, id, 142, 143; e per ragione consimile, riportandosi alla vita di Pietro Lombardo dirà nel Par., X, 107 seg. quel Pietro fu, che con la poverella Offerse a santa Chiesa il suo tesoro. Per il Blanc qui si dovrebbe scrivere è e non fu.

Efu nomato Sassol Mascheroni, Inf., XXXII, 65: nulla di nuovo per chi intenda come Dante si riferisce al tempo delle vita terrena, pure durando a nomarsi anche qui il suo personaggio. Io fui il Camicion de' Pazzi, id., 68: o non è piú tale? ci sarebbe da opporre. Ma ecco che finalmente viene il buono: Tu dei saper ch'io fui il Conte Ugolino E questi è l'arcivescovo Ruggeri, Inf., XXXIII, 13, 14; data dunque la piena libertà usata da Dante - il che non conclude per l'irrazionalità della cosa, anzi si basa su salde e profonde ragioni e di logica e di estetica, nel v. 13 può stare benissimo fui e nel 14 è : il sopprimere il verbo nel 14, sottintendendo fu, ci par dura ellissi e tale da non trovare facilmente riscontro nella Divina Commedia. Sicché, se l' una e l'altra lezione godono di uguale autorità, la lezione con l'ellissi non trova sostegno nelle ragioni speciose e prive di fondamento del Blanc; mentre l'altra pare più naturale, piú conforme all' uso di Dante e più degna di lui per l'efficacia rappresentativa del lugubre dramma. Tu dei saper ch'io fui il conte Ugolino: fui, ma più non sono, dal grado in cui era decaddi, da tanta altezza in così basso loco, ridotto attraverso a ineffabili tormenti e fisici e morali da questo scellerato che è l'Arcivescovo Ruggeri, è e non fu. Troppo sbiadito quel fu, che distrarrebbe dal presente, ove s'appunta l'ira del conte Ugolino eternamente famelico di bestiale vendetta; il quale non riprenderebbe con tanto furore il teschio mi

sero co' denti, Che furo all'osso come d'un can forti, se non avesse l'illusione di vendicarsi contro chi dura ad essere lo stesso suo persecutore, ministro nei più alti uffici della legge d'amore, legge calpestata da lui reso ministro accanito di odii e di vendette perpetrate con freddo e meditato tradimento.

E proprio a poca distanza dal passo in questione leggiamo Io son frate Alberigo, id., 118, a poca distanza, come ho già osservato, la confutazione più chiara delle ragioni addotte dal critico tedesco, con un presente son che fa il paio con è del verso E questi è l'Arcivescovo Ruggeri. Quale poi la ragione del presente con cui si nomina il peccatore? Non saprebbe di stiracchiatura, a mio giudizio, il riporla nel rilievo dato dal peccatore alla pena inflittagli da Dio con la sostituzione nel suo corpo dell'anima di un diavolo: non isfugga ch'egli insiste sopra io son, ripetendolo,

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A demolire le asserzioni del Blanc, non basterebbe questo esempio ?

Sarebbero sufficienti a sostegno della mia tesi gli esempi onde è larga la prima Cantica, piú larga certo che le altre due, dalle quali tuttavia andrò trascegliendo qualche esempio an

cora che non mi sia caduto in acconcio di allegare nel corso delle mia discussione.

È Guglielmo Marchese, Purg., VII, 134: Guglielmo VII Spadalunga è ancora marchese di Monferrato? E Corrado Malaspina non è ancor tale, sebbene dica Chiamato fui Corrado Malaspina, Purg., VII, 118?

Ugo da San Vittore è qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Ispano

Natan profeta, e il metropolitano Crisostomo ed Anselmo e quel Donato ch'alla prim'arte degnò por la mano. Rabano è qui, e lucemi da lato il calabrese abate Gioacchino,

Par., XII, 133 scgg.

non bene, osserverebbe qui un pedante, poiché in Paradiso non si è piú né profeti né metropolitani, né abati od altro, anzi non ci sono che anime; e al gusto di chi volesse

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