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stringere troppo piú di quanto non si deve, bisognerebbe che i beati si nomassero solo al modo di San Bonaventura Io son la vita di Bonaventura Da Bagnoregio, Par., XII, 127 seg., o di Costanza Quest'è la luce della gran Costanza, Par., XII, 118, o di Sigieri Essa è la luce eterna di Sigieri, Par., X, 136, per non recare che un qualche esempio fra i non pochi. Quel che vedi nell'arco declivo Guglielmo fu, Par., XX, 62 seg., è detto di Guglielmo II re di Sicilia: Non è dunque piú Guglielmo? Ma la ragione ci balza tosto agli occhi, solo che poniamo mente a tutta la terzina; eccola :

quel che vedi nell'arco declivo Guglielmo fu, cui quella terra plora che piange Carlo e Federico vivo.

Se Carlo e Federico son vivi, esistono e sono; mentre l'altro, poiché morto, fu; i due concetti si contrappongono, e perché l'antitesi abbia luogo adopera Dante il passato, significandoci quel fu che Guglielmo visse già pur troppo per la Sicilia: è messa insomma in rilievo la sua passata esistenza, nulla qui importando al Poeta di rilevare se egli continui a essere ancora. Al Canto XXII, 49 seg. del Paradiso parla san Benedetto: Qui è Macario, qui è Romoaldo, qui son li frati miei: Saranno propriamente luci, vite, failli, sperule, lucent incendî, cari e lucidi lapilli, non piú frali. Alto primipilo, Par., XXIV, 59, è detto da Dante San Pietro con evidente riferimento al suo principato fra gli Apostoli nel mondo; ma San Pietro non è piú né primipilo, né barone, ivi, 115, ché tali gradi egli ha perduto con la vita militante. Per questa medesima ragione non si converrebbe la denominazione di milizia santa, Par., XXXI, 2, data ai santi dell'Empireo, ché furono militi in terra, non dove è eterna pace. Mosè vien detto Quel duca, sotto cui visse di manna La gente ingrata, mobile e ritrosa, Par., XXXII, 131 seg., quando Duca non è piú certo in cielo. Termino con un esempio del canto stesso, v. 16, 17: E dal settimo grado in giú, Sí come in fino ad esse, succedono Ebree. Ebree?!

Si potrebbe domandare a Dante, con la pretesa di confonderlo: Di grazia, non avete voi - voi non sarebbe abusivo qui come plurale maiestatico fatto dire a Omberto Aldobrandesco lo fui Latino, Purg., XI, 20 alla domanda rivolta a Sapia se fra

Giornale dantesco, anno XVII, quad. I-II.

diosi vi sia anima latina, non vi rammentate la risposta ?

O frate mio, ciascuna è cittadina
d'una vera città, ma tu vuoi dire
che vivesse in Italia peregrina.
Purg., XIII, 94 seg.

Sapia, giusta la sua affermazione, si enuncerà I fui senese, Purg., XIII, 106; e non farà inarcar le ciglia ai pedanti neppure Marco Lombardo con le parole Lombardo fui, Purg., XVI, 46: ma la cosa non procede sempre liscia e Stazio uscirà a dire Euripide v'è nosco ....ed altri pine Greci, Purg., XXII, 106 segg., quasi che greci siano ancora. Che si perda la cittadinanza fra i beati, nonché fra le anime destinate a beatitudine, lo affermerà Beatrice stessa parlando a Dante nella Selva Sacra : Qui sarai tu poco tempo Silvano

e sarai meco senza fine cive

di quella Roma onde Cristo è Romano,

Purg., XXXII, 100 segg.

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Spesso accade di notare nel poema sacro una singolare precisione nella denominazione delle ombre ombre che più volte sono veri corpi e che da ombre si mutano anche in cose salde, senza che ancora si sappia dare spiegazione soddisfacente del mutamento e nella denominazione delle luci dei beati; ma quali non sarebbero le difficoltà del Poeta, se egli dovesse, ogni qual volta ha bisogno di nominare questo o quello dei trapassati, rilevare che essi piú non ritengono le qualità, o gli uffici, od altro per mezzo di cui gli è pur necessario di darli a conoscere? Anche a questo scoglio, che conferirebbe al suo dire pesantezza e pedanteria, non si badò da chi pretenderebbe di porre dei ceppi ai liberi passi del genio volendolo stretto nella cerchia di leggi inflessibili. La scienza pretenderebbe di imporsi all'arte e non inalzandosi a gustare le vere bellezze e quanto v' ha di grande, si sofferma a particolari che non dovrebbe aver tempo di notare chi da sano intelletto è tratto all'essenziale.

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Malebranche, rifanno la triste storia dei loro ricordi nel proprio dialetto, ch'è inteso da Ciampolo per la lunga domestichezza che ha con loro. Ogni spirito parla del resto il suo idioma, sebbene Dante riduca nelle forme sue proprie i dialoghi d'oltretomba; il Poema dovea pur mostrare quanto potea la lingua nostra e l'intesserlo di parole strane, a parte ogni altra considerazione, non sarebbe neppure valso ad aggiungere luce di verità alla visione. Forse è per dichiarare meglio quest'uso, fra la morta gente, del natío linguaggio, oltre che per ottenere un effetto di terrore, che è segnato il gergo diabolico nell'enigmatica e rabbiosa esplosione di Pluto, ove si smania ancóra di rintracciare un pensiero recondito.

I due Sardi parlano adunque la lingua che loro apprese babbo e mamma. Figure secondarie spregevoli indegne d'essere mostrate, sono come abbozzati in uno sfondo di quadro da poche pennellate sufficienti a svelarne l'anima corrotta, che solo rimpiange nella pece d' inferno il perduto piacere dei mercati terreni. Forse ripugna al poeta conoscere il traditor dell'amico gentile, e si contenta di saperne l'infamia; è breve infatti Ciampolo, che ha l'occhio al digrignar di Farfarello, ma il suo cenno ad una baratteria, di cui poi si perdette la memoria, dovea far sbrigliare la fantasia per una piú completa figurazione del dannato, conforme alle conoscenze che se n'aveano.

È caratteristica del muto sdegno di Dante quella brevità, e non le aggiunge efficacia l'intercalarla di sardismi. Del resto son rari i dialettismi in altri episodi, e non vedo perché si vogliano rinvenire in questo, che non ha altra importanza che di memorare l' Isola dei Sardi fra le provincie del bel paese che hanno tutte ricordo nella Commedia. Anche nella Volgare Eloquenza, sebbene si accenni solo di fuggita ai dialetti inferiori, mi par d' intravedere la cura di sbrigarsi del sardo come per evitarne l'omissione, che sarebbe stata un po' grave in un'opera scientifica.

Ma dopo gli autorevoli giudizi dello Zingarelli, del Parodi e recentemente del Kolser intorno ai sardismi di questo Canto, giova recare qualche elemento di prova in aiuto di considerazioni generali che da sé verrebbero in mal punto.

«

Consultando carte e documenti di storia sarda per indagar le cause e determinar la data più probabile del delitto consumato da Branca Doria nella persona del suocero, ho trovato una sola volta l'espressione de plano, nel noto atto del 1236 con cui Adelasia di Torres fa donazione dei suoi beni alla Chiesa Romana. Ego Adelasia Regina Turritana et Gallurensis sane et incolumis corpore et mente, de plano et in veritate recognoscens... do, dono, cedo et concedo.... » le terre di Sardegna, Corsica, Pisa e Massa. 1 Fa parte d'una formula notarile, simile a quella dei due diplomi seguenti e del No LXVI, e vale: non costretta da una sentenza, cioè, liberamente, spontaneamente. S'intende che non ha una significazione propria, precisa, ma l'acquista dalla rigida formula, ov'è incastonata, intesa sempre a rilevare la libera volontà del donatore. L'atto è scritto in latino da Gregorio scribario della Corte di Roma, e si può ripeter, per la verità storica, che non riesce a celare l'imposizione della politica papale.

Or che altro significa nel verso dantesco se non che frate Gomita, senza pensarci su due volte, barattò la libertà dei prigionieri, ch'avea in custodia, aprendo loro la porta del carcere? In bocca del vicario di Nino Visconti, confabulante con un giudice, la frase giuridica non può apparire come una stonatura, e meno se si ritiene che, al tempo del poeta, non era infrequente con un senso derivato. Nei documenti inoltre piú autentici del sardo d'allora, i Condaghi, ove è invece comunissimo l'uso di donno come titolo - Dante non potea designare altrimenti, che come l'avea udito nominare, il giudice del Logudoro non se ne trovano esempi, e tale silenzio non conchiude in prova d'un sardismo. Per ammetterlo occorrerebbe per altro risolver prima una grossa questione, che si connette alla storia del problema linguistico sardo.

Michele Zanche era un logudorese probabilmente de Sassaro. Fin dalla prima metà del secolo XIII, come ha provato il Solmi, staccatasi dal giudicato turritano, Sassari avea formato un comune a sé, dipendente da Pisa, donde le venne la coltura e il traffico, anima

1 Tola, Cod. dipl. sard. (dalle Ant. it. Murat., VI. dissert. LXXI) dipl. LVII, pg. 347.

e moto allo spirito rigenerato. E con le altre forme della vita si venne mano mano cambiando la lingua, che si accostò a quella della Gallura, ove la piú diretta e più antica influenza pisana finiva per creare una varietà dialettale sempre piú differenziantesi dal logudorese. Questo continuò tuttavia a considerarsi come la lingua nazionale, e Dante solo ad esso accenna infatti nella Volgare Eloquenza, ove lo dice vincolato al latino. 1

Del Gomíta non si sa invece più di quanto ne dicono le Chiose anonime, ma essendo dai piú supposto gallurese, vien naturale la domanda: Se il di piano è un sardismo, s' ha da ritenere un sardismo gallurese, che meglio risponderebbe al concetto ordinatore del poema, ovvero logudorese? 2

La risposta potranno darla i filologi riprendendo in esame l'origine del gallurese e il dotto studio del Guarnerio. Nel secondo caso però, la spiegazione parentetica sí com'ei dice dovrebbe giustificare non solo l'uso di una locuzione logudorese, ma anche d'esser messa in bocca ad un gallurese.

Per tutto ciò mi par piú giusto e piú semplice pensare che si tratti d'un latinismo giuridico; il poeta volle caratterizzar brevemente la coscienza venale del barattiere, pronto per danaro a dar l'anima al diavolo, e vi ricorse sicuro di non fare uno strappo alle sue teorie perché al suo tempo era già penetrato in qualche dialetto.

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tradizione cristiana orientale 1. Noi non faremo che raccoglierli, e pensiamo possano giovare alla presente questione, perché colla tradizione orientale s'accorda l'occidentale, la quale anzi, come è noto, del contenuto di quella, per le molte relazioni dei Papi greci e siriaci, ambasciatori, dottori e traduttori, molto si ebbe ad arricchire 2.

Le anime dei giusti, scrive il Lueken secondo la tradizione, sono dagli angeli portate al cielo, come nella parabola di Cristo Lazaro è portato dagli angeli nel seno di Abramo. E, al nostro proposito, nella cattedrale di Ely in Inghilterra, sopra un monumento sepolcrale è raffigurato san Michele portante al cielo un'anima 3.

Gli angeli escono incontro all'anima, e la conducono alla porta del Paradiso, dove è ricevuta dall'angelo che vi sta a custodia. Questo spirito, è, secondo l'Apocalissi di san Paolo, san Michele, al quale sono affidate le anime da condurre, com'è pure nella tradizione cattolica, al Paradiso, nel soggiorno dei giusti fino al di della risurrezione: xai ἐξῆλθεν τὸ πνεῦμα εἰς ἀπάντησιν αὐτῶν λέγων. δεύρο, ψυχή, εἴσηλθε εἰς τὸν τόπον τῆς ἀναστάσεως, ἐν ἡτοίμασεν ὁ θεὸς τιᾶς σικαίοις αὐτοῦ.

Per Dante, si rammenti, la porta del cielo, di san Pietro, di vita è tutt'uno.

Michele è il preposito del Paradiso, e tutti sono presentati a lui, anche l'anime liberate dal Limbo dopo la discesa di Cristo all' Inferno cioè quella del buon ladrone, di Adamo e di tutti i santi dell' antico Testamento, come pure, più tardi l'anima di Maria. Egli sta sulla porta di vita, ed è rappresentato con la spada fiammeggiante, che egli tiene fin dalla cacciata dall'Eden di Adamo e di Eva; e tale quella porta appare anche a Seth, venutovi per incarico di Adamo, com'è detto nel Vangelo di Nicodemo. Cosi è Michele che apre la porta a' giusti, ed ha le chiavi del regno dei cieli. Onde nell' Apocalissi di Baruch è detto, in relazione, nota il Lueken,

1 W. LUEKEN, Michael, Eine darstellung und Vergleichung der jüdischen und der morgenländisch-christlichen Tradition, Göttingen, Vandenhoeck, 1898. 2 Op. cit., p. 123-127.

3 Chi vuol conoscere ampiamente la tradizione occidentale intorno a san Michele legga il libro del P. BoNAVENTURA DA SORRENTO, Mi-cha-el. Trattazione biblica dommatica storica morale, II ediz. Napoli-Sorrento, Festa, 1892, e segnatamente, p. 12, 50, 77, 213 ecc.

con le chiavi di san Pietro, Mexanjλ ò xlɛidouxos τῆς βασιλείας τῶν οὐρανῶν, Michele il clavigero del regno dei cieli: ch'è la nota più caratteristica dell'angelo portiere del Purgatorio. Che se l'Apocalissi di Baruch, al par di quella di san Paolo, è un libro apocrifo, vuolsi ricordare quanto insegna san Girolamo : In apocryphis non omnia sunt apocrypha.

Michele fa anche di piú. Oltre essere il custode del Paradiso, purifica le anime dei peccatori pentiti, prima di introdurle dentro il Paradiso o alla celeste Gerusalemme, nelle acque del lago del pianto, candido; dopo di che li conduce alla città di Dio. Né a tal piena purificazione o ingresso del cielo vengono l'anime ammesse subito dopo morte, ma talvolta dopo 3, 8 e 40 giorni, cioè nei giorni ricorrenti della liturgia dei defunti, quando si fa memoria del giorno in cui morirono.

Di che si fa manifesto come il clavigero del Purgatorio dantesco sia veramente S. Michele, perché ha tutti i segni, e i distintivi che la tradizione anche orientale attribuisce al principe delle schiere angeliche. Argo

mento non dubbio che il divino poeta conobbe quanto di meglio era stato detto di quell'arcangelo.

Resta quindi confermato quanto altra volta fu esposto. Al che si potrebbe aggiungere un'altra osservazione, ed è, che dall' essere S. Michele il perenne custode dell' Eden fin dall'esiglio dei progenitori, e insieme il purificatore de' peccatori pentiti è il caso di dedurre che sotto l'autorità di lui e nel lago del pianto che gli sta vicino - prefigurazione o del mare che circonda la montagna del Purgatorio dantesco, o de' due rivi della sua cima - sempre sia stata la regione del Purgatorio, e che quindi, conforme a questa deduzione, anche il Purgatorio dantesco fosse sempre rimasto alle falde e sul pendio della sacra montagna come sostenemmo in altro lavoro. 1

Roma, 1908.

GIOVANNI BUSNELLI.

1 La Concezione del « Purgatorio dantesco, Roma, 1906, p. 72 e segg.

RECENSIONI

S. DE CHIARA. Per il Canto XI dell' « Inferno». Cosenza, tipografia della « Cronaca di Calabria », 1908, in 8°.

È un opuscolo polemico di carattere vivacissimo, provocato dall'oramai famigerata pubblicazione dell'egregio magistrato Luigi Righetti: Di un canto falso nella Commedia » di Dante. (Cfr. Giorn. dant., XVI, 248).

Veramente io penso che le buone cause non abbian bisogno di aspre e smodate difese e che soprattutto in letteratura e, in genere, nelle cose di pensiero, sia degno di vittoria quasi sempre il piú sereno. Quindi a mio avviso nulla indica meglio il progresso de' moderni studi danteschi in Italia quanto la semindifferenza con cui v'è stata accolta la strampalata tesi del dilettante dantista, che in sostanza è caduta donde s'era fatta piccola strada tra la gente, cioè su le affrettate colonne de' giornali quotidiani.

E non meritava, parmi, miglior fortuna. Però bisogna dire che il De Chiara, che pur sa col suo Dante che in tantissimi casi «< il tacere è bello », è stato trascinato alla vivacità dalla inurbanità del. l'avversario, il quale cinque anni or sono spostò su di un giornale i termini di una sua acuta osservazione.

Il professore cosentino s'era domandato: Sapeva Dante della sfericità della terra? E senza risolvere la questione rimandava ai men noti lavori dell' Angelitti.

Gli pareva intanto che nella descrizione dell'angelo traghettante le anime dei « ben finiti » dalla foce del Tevere al Purgatorio, vi fosse racchiusa una delle piú lampanti fra le prove addotte dai geografi a comprova della sfericità del nostro pianeta. Dante, egli scriveva, dice d'aver visto dapprima in lontananza uno splendore diffuso e indistinto, poi un bianco, cioè le ali dell'angelo « dritte verso il

cielo », e dopo, «a poco a poco », il corpo e il resto. Or questi varî momenti della visione celestiale non rispondono all' esempio della nave dei geografi, che, avvicinandosi al porto, scopre prima agli occhi dello spettatore la punta delle antenne e poi, a poco a poco, il bordo e le parti piú basse? Ha scoperto dunque Dante la sfericità della terra? Nessuno potrebbe affermarlo. Ma in questo mondo appaiono a volte, si rispondeva il De Chiara, delle nature privilegiate che vedono le cose non con vista abbagliata, ma con limpidezza ed esattezza matematica e lo sanno rendere con chiarezza e particorità maravigliosa. Di tali nature fu quella di Dante, che poeta davvero grandissimo, seppe vivere ed esprimere tutta la vita dei suoi fantasmi.

Il Righetti spostò i termini della sottile osservazione e se la prese con chi aveva avuto il coraggio di negare, secondo lui, che Dante avesse avuto notizia della sfericità della terra. Inoltre attaccò, senza rivelarsi, in veste d'anonimo.

Qualche mese addietro fu chiesto poi anche al De Chiara che cosa pensasse intorno alla falsità dell' XI Canto di Dante, ed egli rispose che non reputava giusto né onesto discorrerne, ignorando la strombazzata pubblicazione; ma che non gli sembrava seria l'opinione che Dante impernasse tutto il suo Poema sul numero 3 e i suoi multipli, mentre tanti valentuomini avevan dimostrato che i numeri diletti al Poeta erano il 3 co' suoi multipli e l' 1: specialmente 9 + 1 10: «lo numero perfetto ». Il Righetti súbito rispose altezzoso, rivelando che il professore criticato in fine al suo volume era precisamente il De Chiara, che in addietro egli << aveva convinto » d'eresia dantesca. Ond'è spiegato perché il valente dantista abbia intesa la curiosità di scorrere il libro del Righetti e sia sceso, bene armato, in battaglia.

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