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restiere in poi, ella sia per poco la medesima: la medesima, dico, in sostanza, cioè ne' corpi de' vocaboli e non negli accidenti, cioè nelle passioni delle voci.

Coloro che tengono dietro ai progressi odierni degli studi filologici nel campo delle lingue romane, non vorranno certo ricusare la lode dovuta a Celso Cittadini, il quale scriveva tali ed altre importantissime cose trecento anni prima che comparissero Fauriel, Du Méril, Fuchs, Grimm e Diez. E noi dobbiamo bene rallegrarci che l'Italia abbia una serie non interrotta di scrittori, da Leonardo Bruni e dal Cittadini fino a Giovanni Galvani, i quali compongono una scuola ed una tradizione che ha certo grandemente giovato a porre i dotti stranieri moderni per quella via che li ha condotti alle scoperte ed alle conclusioni di cui oramai è in possesso la scienza. Il dotto Gravina (1) scrive potersi fondatamente credere che la nostra presente lingua sia stata volgare anche in tempo degli antichi latini . . . . ., e che colla naturale mutazione delle cose e col commercio dei Goti, Eruli e Longobardi abbia mutato figura, non nel corpo e nella sostanza, ma nell'esteriore e nelle desinenze. Lo stesso press'a poco pensa il Castelvetro (2). E Scipione Maffei (3), più temperato de' precedenti, pur dichiarando non doversi credere che la favella italiana esistesse già fino dal tempo de' Romani, perchè quei volgarismi non bastavano a formare una lingua, ritiene però essere stato comune a Roma, avanti le irruzioni dei barbari, un linguaggio plebeo, differente da quello rimastoci nei libri; e cita di esso dialetto plebeo molti esempi, come testa, bucca, caballus, tonus, iornus, bellus, russus, bramosus, camisia, grossus, vernus, coda, tre, susum, cinque, sedici. Anche il Lanzi (4) professa la opinione stessa, che non fossero straniere lingue quelle che in Italia estinsero il latino; ma sibbene un linguaggio di volgo che fin da antichissimi tempi annidato in queste contrade, anzi in Roma stessa, e restatosi occulto nei migliori secoli, si riprodusse nei peggiori; e dilatandosi a poco a poco, e prendendo forza, degenerò in quella che anche per questa sua origine possiam chiamar volgar lingua d'Italia.

Che dobbiamo noi pensare di tutto questo? E, innanzi che altre questioni ci si presentino, possiamo noi ritenere per certa e scientificamente provata l'esistenza del volgare latino? La risposta ad una tale domanda è resa meno difficile dalle opere che in questi ultimi tempi sono andate pubblicandosi in molte parti d'Europa, e che hanno trattata e sviscerata la questione sotto ogni aspetto. I tempi moderni che hanno veduto tanti e così splendidi progressi nella scienza linguistica, hanno pure confermate le induzioni del Bruni e del Cittadini. La prova della esistenza del volgare latino si è ricercata nelle testimonianze degli antichi scrittori, nelle parole di quel dialetto che fino a noi sono pervenute, e nel fatto naturale e necessario, comune a tutti i popoli, che accanto alla lingua letteraria vivano i dialetti plebei, i dialetti dell'uso. Le testimonianze degli scrittori sono molte. Cicerone in più luoghi accenna a queste forme volgari, come là dove dice doversi fuggire così la rusticam asperitatem, come la peregrinam insolentiam (5); e dove dice che alcuni si compiacciono delle voci rustiche e agresti (6); e dove ricorda il sermone plebeo (7).

(1) Della Ragion Poetica, lib. II, § 5.

(2) Giunte al Bembo, pag, 29, 31. Il signor Demattio nel suo recentissimo ed utile libro, Origine, formazione ed elementi della lingua italiana, Innsbruck, 1869, ci sembra che erroneamente ponga il Castelvetro tra coloro che fanno derivare l'Italiano dalla corruzione del latino. Ecco le parole sue proprie: « la lingua volgare, quanto è al corpo naturale delle parole, era al tempo che fioriva il comune di Roma, ma tra le persone rozze, e vili e di contado. . . . I modi del dire e le voci usate dal volgo, al tempo che fiorisce il comune di Roma, i quali erano rifiutati dagli scrittori e da' dicitori nobili, principalmente e per la maggior parte sono rimaste nelle bocche degli italiani uomini. » (3) Verona Illustrata, Dell' Istoria di Verona, lib. II, pag. 312 e segg.

(4) Saggio di lingua Etrusca.

(5) De Oratore, III.

(6) « Rustica vox et agrestis quosdam delectat, quo magis antiquitatem, si ita sonet, corum sermo retinere videntur. » De Orat. III.

(7) Epist., IX, 21.

Notabilissime sono le parole di Quintiliano: « nam mihi aliam quandam videtur habere naturam sermo vulgaris, aliam viri eloquentis oratio» (1). Ma noi non vogliamo però accumulare qui inutilmente tutte le citazioni che ci sarebbe pur facilissimo di raccogliere (2). L'esistenza del dialetto volgare parlato a Roma è un fatto di cui nessuno può più dubitare, un fatto, scrive il Diez, che non abbisogna di esser provato, perchè le prove sarebbero invece necessarie per il suo contrario (3). Qui però una questione grave si presenterebbe: se la natura di questo volgare latino sia veramente stabilita con certezza dagli scrittori mcderni. Secondo il Diez (4), esso volgare non sarebbe che l'uso della lingua comune trasportato presso le infime classi, ed avente per caratteri proprii una pronunzia trascurata, la tendenza a sottrarsi alle regole grammaticali, ed alcune espressioni, alcune frasi, alcune costruzioni particolari. Tutt' al più l'opposizione tra le due lingue, popolare e scritta, potrebbe ammettersi che si fosse mostrata più spiccatamente, quando la lingua scritta si immobilizzò, poco tempo prima della caduta dell'impero di occidente. Altri invece sembra voler dare alla distinzione tra i due dialetti molta maggiore importanza (5). E questi è specialmente lo Schuchardt (6). Vediamo quali sieno le sue conclusioni, valendoci del riassunto che del voluminoso lavoro del paziente tedesco fece il professore Tamagni (7). Lo Schuchardt ammettendo col Fuchs (8), ciò che del resto è naturalissimo, che nel territorio romano già ab antico si parlassero diversi idiomi, ma negando che le differenze tra il latino volgare ed il classico traessero origine dalle differenze degli ordini della cittadinanza, viene a concludere che ci doveva essere eziandio in Roma, come dappertutto, un divario tra il sermone quotidiano famigliare, e la lingua che uno adopera scrivendo o parlando al pubblico; e che se quel divario ne' primi secoli non poteva ancora dirsi totalmente idiomatico, conteneva però in sè i germi e le cagioni della futura divisione del latino in due distinti dialetti. Perocchè, dice egli, nel linguaggio le variazioni di una medesima forma stanno fra loro come il vecchio sta al nuovo, il primitivo al derivato, in una naturale attinenza di successione; si seguono, per parlar chiaro, in ordine cronologico. Ma siccome una lingua non si muta da un giorno all'altro, così le varie dizioni e forme devono necessariamente coesistere per un certo tempo, acciocchè, mentre l'una va morendo, possa l'altra sorgere e prevalere. Ed in ciascuno di questi tempi la forma o la dizione volgare rappresenta sempre il periodo più recente, la nobile ed elevata invece il più antico. Codesta coesistenza accidentale di forme e dizioni diverse in una medesima favella diventa nel periodo letterario coesistenza di due diversi dialetti: ciò che era transitorio si fa stabile; e quello che dapprima era un'antitesi dinamica, diventa una vera antitesi materiale. Nel quinto secolo di Roma, che fu l'ultimo di questo periodo, l'alterazione della prisca latinità aveva fatto passi rapidissimi, essendo già entrata in quello stadio, quando le consonanti

(1) Instit. Or., XII.

(2) Ved. tra gli altri, la dotta introduzione al Saggio di un Glossario Modenese del Conte Giovanni Galvani. Modena, 1868.

(3) Gramm. der Roman. Sprach., Einleitung.

(4) 1. c.

(5) Du Méril scrive: « Ce n'était pas l'idiome littéraire que les soldats et les colons romains portaient dans les provinces, mais un langage vulgaire, ayant un vocabulaire spécial et des formes particulières ». (Formation de la langue Franc., 166); e cita il passo di Festo: << Latine loqui a Latio dictum est; quae locutio adeo est versa ut vix ulla pars ejus maneat in notitia ».

(6) Der Vokalismus des Vulgärlateins, Leipzig, 1866.

(7) Prima nel Politecnico, vol. VI, an. 1868; e poi nella sua Storia della Letteratura Latina. A noi sarebbe piaciuto entrare, su questo argomento importante e nuovo per l'Italia, in molte maggiori particolarità; ma dovemmo astenercene riflettendo che ci saremmo allontanati troppo dallo scopo del nostro lavoro. Forse ci si presenterà l'occasione di fare altrove quello non potemmo far qui.

(8) È noto che il Fuchs nell'opera Die Romanischen Sprachen in ihrem Verhältnisse zum Lateinischen diede un saggio della storia del latino volgare.

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finali si offuscano e cadono, e le vocali per commistione o per sincope mano mano si alleggeriscono e si distruggono. Siffatte novità non potevano però dirsi ancora compiute, chè anzi durava vivissima la lotta tra il vecchio ed il nuovo, quando, nel principiare del sesto secolo i fondatori della letteratura romana sopravvennero a fermarla, riacquistando alla lingua tutto ciò che non erasi interamente perduto. Fu quella come chi dicesse una reazione degli scrittori, e massime de' poeti, contro primi attentati di una rivoluzione che accennava di volersi compiere nella lingua; fu la ristorazione di forme e di vocaboli che erano stati cacciati o si andavano perdendo. Con questo ragionamento lo Schuchardt viene dunque a dimostrarci : 1o. che il sermo plebejus ed il sermo urbanus non nacquero già l'uno dall'altro, ma sono gemelli d'una madre più antica, che è la favella originale del popolo latino, la prisca latinitas; 2°. che pertanto il sermo plebejus nacque da un latino di forme più pure e piene, ma non dal sermo urbanus; e questo alla sua volta uscì da un latino di forme volgari e rozze, ma non dal sermo plebejus; 3.o che la prisca latinità si venne durante quei cinque secoli mutando in questo dialetto rozzo e volgare per l'opera concorde di due forze, le quali furono, la tendenza propria d'ogni lingua ad alterare co' suoni le forme, e colle forme le dizioni e la sintassi; e la necessità che ebbero gli uomini in ogni tempo e luogo di accomodare il linguaggio agli atti ed agli usi diversi della vita; 4o. che finalmente all'apparire de' primi grandi scrittori, e quando i Romani, accortisi del prossimo sfacimento dell'antica loro favella, corsero al riparo, cominciò allora a disegnarsi nettamente la separazione tra il dialetto del volgo che indefesso seguitava la sua strada, e la lingua nobile e classica, la quale nella grammatica e nella letteratura greca trovò l'ajuto che le bisognava, per salvare dalla corruzione i resti del vecchio e buon latino, e renderlo atto a produrre alla sua volta una letteratura ch'emulasse la greca. Tale è la genesi dei due idiomi che sul finire di questo periodo uscirono dal prisco latino. Vissuti insieme finchè Roma non ebbe letteratura, si separarono quel giorno che ad una parte eletta del popolo romano non bastò più di avere comunque fosse un dialetto per parlare, ma senti il bisogno di possedere una lingua che si potesse scrivere, e che fosse abile a significare cosi le ispirazioni dell'arte come i veri della scienza. E la parte degli scrittori nella formazione della lingua latina fu più grande che nelle altre, perchè là non si trattava solo di reggere o moderare il naturale andamento della lingua, ma quasi dissi, di fermarlo e di ricondurlo fin dove era possibile a ritroso verso le sue origini. Il che se non si fosse fatto o potuto fare, restituendo, per modo di esempio, le terminazioni de' casi che già si venivano perdendo, certo è che la sintassi latina sarebbesi mutata da cima a fondo, e che o i Romani non avrebbero avuto una letteratura, oppure Tacito e Giovenale avrebbero scritto non molto diversamente da Dante e Dino Compagni (1).

(1) D'altra opinione sembra il signor Littré (Hist. de la langue Franç., 1,36): « Une autre hypothèse a été de supposer que les langues romanes provenaient d'un certain latin rustique. Si par là on a voulu dire qu'au moment de la désorganisation ce fut le langue populaire qui prévalut, on a raison. Mais si l'on entend que le patois latin, qui se parlati sans doute dans les campagnes au temps d'Auguste et de ses successeurs, est plus particulièrement l'origine du roman, c'est-à-dire ques les mots bas-latins, tels que cupiditare, hominaticum, coraticum, étaient dans les patois, je crois qu'on est dans l'erreur. En général ces formes du bas-latin sont des formes qui allongent; par cela elles indiquent que les populations qui les avaient créées, et qui s'en servaient, avaient perdu le sens des formes plus courtes et plus analogiques qui étaient propres à la latinité. Or un patois u'a pas ce caractère, et il tient plus de l'archaisme que de toute autre chose, tandis que ces formes allongées sont néologiques, étant dictées par la nécessité d'assurer le sens des mots qui s'obscurcit. Ces conditions reportent donc le bas-latin non à des patois où les tendances auraient été plutôt archaïques, mais à la corruption qu'entraîna le mélange des populations. » Si paragoni con DIEZ, Gramm., Einleit., Lateinische Benstand., 52.

È agevole intendere la gravità e la importanza della questione. Noi però non intendiamo come il signor Littré parli di un momento di disorganizzazione, parendoci che tutto ci

Se i dotti non concordano ancora pienamente tra loro intorno alla natura del volgare latino, concordano però tutti nel ritenere derivate da esso le lingue romane. Provarsi oggi a dubitare di ciò, dopo i lavori di Du Méril, di Fauriel, di Littré, di Blanc, di Fuchs, di Diefenbach, di Diez, sarebbe non altro che arrogante ignoranza. Però intorno al modo della derivazione non abbiamo ancora un sistema che sia scevro di dubbi. Fuchs, per esempio, sostiene quello della evoluzione, secondo il quale le lingue neo-latine dovrebbero considerarsi come il resultato della legge naturale di cambiamento, di sviluppo, di evoluzione. Le lingue romane non sarebbero già figlie del latino, ma anzi il latino stesso fatto adulto; poichè esaminandole attentamente si vede che hanno lo stesso genio e la costruzione medesima, solo ad un grado più avanzato di sviluppo. Se anche l'impero romano avesse continuato la propria vita simile in tutto a quella de' suoi tempi migliori, il latino si sarebbe nel modo stesso trasformato nelle lingue romane. Tale opinione ha trovato però forti oppositori; può dirsi anzi che sia oggi universalmente rigettata. Ma se non fu evoluzione, fu dunque corruzione? È noto a tutti come per lungo tempo siasi creduto e sostenuto che le lingue neolatine non fossero appunto altro che una barbara corruzione del latino. Nella lunga agonia dell'Impero, dicevasi, andò sempre diminuendo il numero dei dotti; i barbari presero il luogo dei Romani; l'educazione si trascurò, il linguaggio andò alterandosi. A poco a poco non si distinsero più i casi, si confuse il genere neutro col genere mascolino, i solecismi ed i barbarismi irruppero da ogni parte, e si ebbero cosi nuove lingue inferiori in tutto alla loro lingua madre. Oggi neppure la teoria della corruzione può essere ammessa. Infatti in queste lingue neolatine, che a primo aspetto sembrano tipi degradati, noi vediamo apparire uno degli elementi più preziosi per la precisione e per la chiarezza, che è l'articolo, che fu già chiamato con elegante verità dal Fauriel, una specie di gesto grammaticale, e che costituisce un perfezionamento reale sul latino. Così la coniugazione delle lingue romane è più ricca della coniugazione latina, avendo diviso in due il passato, ed avendo aggiunto il condizionale. Nè può essere considerata come decadenza la soppressione del genere neutro, poichè la stessa lingua latina aveva perduto il sentimento delle ragioni che in origine aveano fatto preferire per certi oggetti il neutro al mascolino (1). Non evoluzione sola adunque, nè sola corruzione; ma una qualche cosa dell'una e insieme dell'altra (2). Fino a che per cercare l'origine delle lingue romane non si ebbe ricorso che al latino scritto, al latino letterario, è certo che la questione rimaneva insolubile. Ma oggi essa assume un carattere affatto diverso. La lingua scritta per la sua propria natura non era capace di una produzione nuova, mentre la lingua popolare conteneva in sè stessa il germe e la capacità dello sviluppo che i tempi ed i nuovi bisogni resero necessario (3). Così le nuove lingue sorsero

conduca a supporre una serie continuata di tali momenti, che risalgono appunto ai tempi di Augusto o forse più indietro. Ci pare che abbia detto benissimo il signor P. Meyer: Le moment où une langue se forme n'existe pas, ou, pour mieux dire, sa condition est d'être en perpétuelle formation. Nè con ciò vogliamo mettere in dubbio che ai tempi della dissoluzione dell'Impero non crescesse la intensità della disorganizzazione.

(1) Cf. LittrÉ. op. cit. I, 105.

(2) Le passage du latin aux langues romanes, scrive il signor P. Meyer (Biblioth. de l'École des Chartes, Ser. V, t. 4o), est une évolution naturelle et spontanée, mais entachée de corruption; il est arrivé au latin ce que l'on voit se produire dans l'histoire de tous les idiomes, à savoir que peu à peu le peuple a perdu le sentiment de la langue et lui a fait subir des modifications illogiques.

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Ci sia permesso anche qui di citare le parole del signor Meyer: « Cette littérature tout artistique a fixé la langue écrite, mais sans pouvoir l'empêcher d'obéir, dans la bouche du peuple, à la loi universelle du mouvement, si bien que, après plusieurs siècles, quand le changement des conditions politiques eut permis à l'idiome vulgaire de se produire lui aussi par l'écriture, un écart considérable s'était formé entre les deux idiomes.... l'idiome écrit ne vivait que par la tradition... l'idiome parlé, au contraire, n'avait point de passé, aucun scrupule philologique ne venait entraver sa marche naturelle. » Ivi.

quando coll'Impero mancata l'urbanità e la cortesia, e però l'ascitizio magistero dell'arte, tutta l'Italia non ebbe nei conquistati, salvo poche eccezioni, che plebe, e con lei quel solo linguaggio che non si apprendeva dai retori, ma che venia istillato disartificialmente dalle balie (1). Le quali parole del primo filologo italiano noi abbiamo citate tanto più volentieri poichè esse concordano pienamente con quelle di Diez, il sommo maestro della filologia romana (2). A mano a mano che andava cancellandosi l'urbanitas, prendeva dunque maggiore estensione la rusticitas. Già alcune espressioni popolari si trovano in Ennio ed in Plauto; tra gli scrittori del buon tempo il più ricco ne è Vitruvio. Quando poi negli ultimi secoli dell'Impero venne meno lo spirito aristocratico della scuola classica, andò rapidamente introducendosi nella lingua un numero grande di idiotismi. Quando fu accordata la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell'Impero, questi non riconobbero più nè la supremazia politica nè la supremazia letteraria del Lazio, ed il provincialismo andò sempre più estendendosi. A ciò contribui pure, e grandemente, il diffondersi del Cristianesimo. La lingua delle catacombe che parlavasi ai poveri ed agli schiavi, non poteva per certo essere la lingua letteraria; ed appresso, gli scrittori ecclesiastici, sia per amore di chiarezza, sia per uniformarsi a quella che era oramai la lingua officiale della liturgia romana, usarono un latino sempre più corrotto (3). E mentre gli scrittori della decadenza aprivano le porte della letteratura alle forme volgari, i grammatici ne facevano argomento dei loro studi, per tentare di ricondurre la lingua alla purità primitiva (4). Così Aulo Gellio ci ha conservato il titolo di un libro di Tito Lavinio De verbis sordidis (sordidi, comuni, popolari) disgraziatamente perduto. Festo ci conservò una abbondante raccolta di parole oscure, vecchie e popolari, nell'opera De significatione verborum, pervenutaci in parte nel compendio di Paolo Diacono. Altre notizie ci giunsero dai lavori di Nonio Marcello e di Fabio Planciade Fulgenzio. Il volgarismo si dilatò e in certo modo si approfondi sempre maggiormente; spenta la lingua classica, esso solo continuava la sua via, in capo alla quale noi troviamo le lingue

romane.

Ecco una lunga nota di vocaboli usati da scrittori latini, e da essi designati come vocabula rustica, vulgaria, sordida (5):

ABBREVIARE (in Vegezio, De re mil.): ital. abbreviare.
ACREDO (in Palladio): ital. acredine.

ACUCULA (in Cod. Teodos.): ital. agocchia, aguglia.

ADITARE da adire (in Ennio): ital. andare (6).

ADJUTARE (in Terenzio, in Pacuvio, in Lucrezio, in Varrone, in Aulo Gellio): ital. ajutare. Il primitivo adjuvare si perdè nelle lingue romane. Il semplice juvare diede l'ital. giovare.

ADPERTINERE (negli Scritt. Agrarii): ital. appartenere.

ADPRETIARE (in Tertulliano): ital. apprezzare.

AERAMINA UTENSILIA AMPLIORA (in Festo); AERAMEN (nel Cod. Teodos.): ital. rame. AETERNALIS per aeternus (in Tertulliano): ital. eternale.

AMPLARE (in Pacuvio pr. Nonio): ital. ampliare.

APIARIA vulgus dicit loca in quibus siti sint alvei apum, sed neminem eorum ferme,

(1) GALVANI, Della utilità che si può ricavare dal latino Arcaico e Popolare, ecc. (2) Als nachher durch das grosse Ereigniss der germanischen Eroberung mit den höhern Ständen die alte Cultur untergieng, erlosch das vornehme Latein von selbst und das Volkslatein verfolgte, vorzugsweise in den Provinzen, seine Bahn nun um so rascher und ward endlich der Quelle, aus der es hergeleitet ward, in hohem Grade unähnlich.

(3) Si noti però che la lingua liturgica in Italia si mantenne meno corrotta, più schiettamente latina, che presso gli altri popoli romani. È questo un fatto di grande importanza,

secondo noi.

(4) DIEZ, op. cit. pagg. 5 6.

(5) DIEZ, op. cit., pagg. 7-28.

(6) Sull'etimologia di andare da aditare cf. LITTRÉ, Hist. de la Lang. Franc.

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