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Ma poichè Amore si face sentere
Dentro del cor signoreggiar la gente,
Molto maggiore pregio de' avere.
Che se'l vedesse vesibelemente.

Per la virtute de la calamita
Come lo ferro atrae, non se vede,
Ma si lo tira signorevolmente.

E questa cosa a credere me 'nvita
Ch'Amore sia, e dammi grande fede
Che tutt'or fia creduto fra la gente.

Sullo stesso tema si esercitava rettoricamente anche il notajo Jacopo da Lentino in quel sonetto, tra gli altri, che principia:

Amore è un disio che vien dal core;

sfogando poi le sue innocenti furie erotiche, o dicendo a Madonna che lo suo core
In tante pene è miso
Che vive quando muore;

o giocherellando altrimenti di parole e di concetti.

Noi non andremo qui citando poesie note ad ogni cultore delle lettere: nè faremo differenza tra gli uni e gli altri di que' poeti Cortigiani. Essi si rassomigliano tanto, che letto uno di essi, si può quasi dire di averli letti tutti: la monotonia della forma corrisponde alla monotonia del concetto: è sempre lo stesso argomento, che si stempera in frasi passate per lambicco. Nessuna individualità, ma sempre. anzi la solita falsariga: amore cavalleresco, cantato accademicamente. Si paragoni, ad esempio, alle forti tinte di Ciullo quello sbiadito dialogo di Mazzeo Riccio, sbadigliato da Messere e Madonna (1), e tutta la differenza si parrà manifesta tra la poesia della piazza e la poesia della corte (2): quella che erompe dal sentimento, e sbizzarrisce liberissima pei campi della fantasia; questa che si strascica sonnolenta dietro ad un'ombra che le fugge davanti, vestendosi di artifizì che non valgono però a nascondere la sua ingenita rozzezza.

Ma è egli almeno da credere che le poesie della corte siciliana fossero scritte nella forma ch'è a noi pervenuta? Noi vogliamo in una tale questione portare la

(1) Si paragoni anche la poesia pubblicata dal Carducci:

Cantilene e Ballate etc., pag. 53.

Levati dalla porta :
Lassa, ch'or foss' io morta
Lo giorno ch'i' t'amai!

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(2) Le poesie de' Siciliani anzi (doloroso a dirsi) tutte le poesie del primo secolo, aspettano ancora una edizione critica condotta sui manoscritti. Per ora le principali raccolte dove esse si trovano, sono le seguenti: Allacci, Poeti Antichi, 1661. Poeti del primo secolo della Lingua Italiana, 1816. Rosario di Gregorio, Discorsi intorno alla Sicilia, 1821, Parnaso Italiano, 1819. Lirici del secolo primo, secondo e terzo, 1846. - Per più particolareggiate notizie si può consultare Le Opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV indicate e descritte da F. Zambrini, Bologna, 1866. Con grande sodisfazione abbiamo letto in un articolo bibliografico della Nuova Antologia che stiasi apparecchiando dal prof. A. D'Ancona la pubblicazione del Cod. Vaticano Reale per la Collezione dei Testi di Lingua di Bologna. Di esso intanto ci dà l'indice il signor G. Grion nel quaderno I dei Romanische studien di Boehmer, pagg. 61-113.

più gran calma possibile, appunto perchè sappiamo quanta passione altri vi porti. I letterati siciliani fanno di ciò quasi una questione di onore nazionale: e chiunque non ripeta le fanciullaggini che non senza mala fede, scriveva il Perticari, è per essi un nemico, invidioso delle glorie della loro isola. E pure sarebbe tempo oramai che, dimenticandoci tutti di essere o siciliani o lombardi o toscani, non ricordandoci che d'essere italiani, almeno nelle questioni letterarie ci mettessimo d'accordo, esaminando freddamente i fatti, e traendo da essi le conseguenze che la logica impone.

E quali sono questi fatti? Ci perdoni il lettore se noi non entriamo qui nel decrepito argomento della lingua che in qualibet redolet civitate nec cubat in ulla. Sarebbe cosa troppo arcadica. Le dottrine moderne impediscono di credere a siffatta fenice. Noi sappiamo oramai che una lingua ha la sua esistenza naturale nei dialetti; e che una lingua scritta nasce dal linguaggio del popolo, sia col trasportare immediatamente alla scrittura un dialetto particolare più o meno appurato ed ingentilito; sia conciliando gli estremi dei varii dialetti e fondendoli in una lingua comune (1). Che i siciliani del mille dugento tentassero questa conciliazione tra i varii dialetti, non è nessuno, neppur siciliano, che lo dica. Essi, a detta del Perticari, avrebbero adoperata una lingua illustre, che si sarebbero fabbricata non si sa come, e che (più mirabile a dirsi) avrebbero fabbricata esattamente uguale ad un dialetto parlato nel bel mezzo d'Italia (2). Tale assurdo non merita, in verità, che nessuno perda ormai il tempo a confutarlo. Seguitino pure i siciliani, se ciò può far loro piacere, a compiacersi nell'idea di aver data la lingua all'Italia, e chiamino in loro testimonianza quanti vogliono degli scrittori antichi e moderni. Noi sappiamo che ciò è falso, ed i fatti parlano chiaro.

Che lingua si adoperava in Sicilia nel secolo XIII? È notissima la scrittura di Frate Atanasio da Jaci, del 1287: « La vinuta di lu re Japicu a la gitati di Catania, fu a lu primu di Maju di l'anno 1287 all'Ave Maria: trasiu per la porta di Jaci, e fu incuntratu da tutti li gitatini cu' alligrizza; ma chiui di tutti vinia multu malenconicu pirchi havia vidutu multi galeri franzisi vicinu di Catania, e si cridia chi nixianu di lu portu di Catania » etc. (3). Verso lo stesso tempo scrivevasi Lu Ribellamentu di Sicilia: «A li milli dui centu sessantanovi anni di la incarnationi di nostro Signuri Jesu Cristu, lu Re Carlo havia prisa una grandi guerra cu lu Imperaturi Plagalogu di Rumania; e per quilla guerra lu dittu Re Carlu fici fari multi navi grossi e galeri..... E stando misser Gioanni di Procida in Sicilia, si pinsau in che modu putissi sturbari l'andata, la quali havia fatta lu Re Carlu contra lu Plagalogu, e comu putissi fari distrudiri e moriri lu Re Carlo e ribellari Sicilia, et aucidiri tutta sua genti, etc. (4).

(1) Cf. Heyse, Sist. della Scienza delle lingue.

il Toscano

(2) Ci si permetta di riportare queste parole di uno storico siciliano: « Le circostanze si connessero in modo che il dialetto de' popoli, fra' quali prima i Normanni, e poscia Federigo tennero splendidissima corte, ricevesse una forma, la quale potendo convenire in certo modo alla intera massa, fu abbracciata da tutta la nazione italiana, ma si fermò ed ottenne pieno sviluppo presso un popolo nello idioma del quale la ingenita disposizione era maggiore. » Ed altri scrive: « Pare che la lingua nobile uscita di Sicilia, dopo la caduta degli Svevi si fosse in que'secoli XIII e XIV riparata in Toscana. » — Non facciamo commenti, bastandoci di riferire a quali asserzioni conduca il voler sostenere un paradosso. E potremmo di siffatte citazioni empire molte pagine!

(3) Vedi Cronache Siciliane dei secoli XIII, XIV, XV, pub. per cura del Prof. V. Di Giovanni; pag. 166. Questa scrittura fu pubblicata anche dal Biondelli (Studii linguistici, pag. 156), come saggio del Romanzo Siculo.

(4) Di Giovanni, op. cit., pag. 115.

Della lingua che pochi anni prima parlavasi in Sicilia ci ha lasciato memoria Riccardo di San Germano nella sua cronaca (ad an. 1232) ..... « cum cornu quodam convocabat populum, et alta voce cantabat alleluja; et omnes respondobant alleluja; et ipse consequenter dicebat: benedictu laudatu et glorificatu lu Patri; benedictu laudatu et glorificatu lu Fillu, benedictu laudatu et glorificatu lu Spiritu Santu (1), Lo stesso dialetto seguitò a scriversi nel secolo XIV; e ne sia prova, tra mille, la conquèsta di Sicilia falla per manu di lu Conti Rugeri (an. 1358) (2); anzi, per tutto il trecento, a detta di un siciliano scrittore, non ha la Sicilia che una sola scrittura di prosa nel volgare illustre (3), tutto il rimanente in dialetto. E bene sta: per tutto il secolo XIII ogni provincia italiana scriveva il proprio dialetto: Fra Paolino come Matteo Spinelli; Fra Atanasio come il Malespini; una lingua ricevuta come letteraria da tutta la nazione non c'era ancora, non poteva esserci, sebbene già fosse nel suo pieno sviluppo il dialetto destinato a divenire la lingua della letteratura.

Ma che cosa sono dunque queste poesie della Corte Sveva, che hanno dato occasione a tante dispute, e che hanno così stranamente arruffate le idee intorno all'origine delle lettere? Noi non esitiamo un momento a rispondere che la forma nella quale esse sono pervenute a noi non può essere la forma nella quale furono scritte. E diciamo pensatamente non può essere, volendo significare che, se anche ogni prova ci mancasse, noi dovremmo essere indotti a ritenerle alterate, delle leggi razionali che governano le origini di ogni letteratura. Si ha un bel discorrere di lingua illustre, aulica, cortigiana, si ha un bel dire tutto quello che è stato detto dai perticaristi antichi e moderni: resterà sempre il fatto che la prima e più caratteristica qualità di una lingua è quella di essere parlata. Senza di ciò si ha, come ha detto un acuto ed arguto scrittore moderno, non una lingua, ma un frasario.

Ma a dimostrarci codeste poesie sicule, alterate, non mancano neppure alcune prove. È noto che uno tra i poeti della Corte di Federigo, fu Stefano Protonotario, di cui si possono leggere le rime nella raccolta dell'Allacci ed altrove. Or bene, di costui ci è pure, per caso, arrivata una poesia schiettamente siciliana, conservataci dal Barbieri nel suo libro: Origine della poesia rimata.

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(2) Di Giovanni, op. cit. pag. 1. Vedi anche Borghini, Giornale Fiorentino, II, 138., dove

è pubblicato Lu Libru di lu Munti de la Santissima Oracioni.

(3) Di Giovanni, La prosa volg. in Sicilia.

Ben lu diuiria fari

Plui dilittuosamenti

Eu, ki son de tal donna innamoratu,

Dunde è dolci placiri

E di bellici tanta banitanza,

K'illu m'è pir simblanza

Quandu eu la guardu sintiri e' dulzuri

Ki fu la Tigra in illu miraturi:

Ki si vidi livari

Multu crudilimenti

Sua meritura, k'illu a nutricatu.
E si bono li pari

Mirarsi dulcimenti

Dintru uno speclu, chi li esti amustratu

Ki lublia siguiri,

Così m'è dulci mia donna vidiri,

Ken lei guardando metu in ublianza

Tutt'altra mia intindanza,

Si ki instanti mi feri son amuri

Dun culpu, ki inananza tutisuri.

Di kieu putia sanari

Multu legeramenti,

Sulu chi fussi a la mia donna agratu
Meu serviri e pinari.

Meu duitu fortimenti,

Ki quando si rimembra di son statu,

Nulli dia displaciri.

Ma si quistu putissi adiviniri

Ch'amuri la ferisse de la lanza,

Che me fere, mi lanza,

Ben crederia guarir li miei doluri,
Ca sintiramo engualimenti arduri.

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Dal medesimo codice donde trasse il Barbieri questa poesia, trae il Signor Galvani (1) la prima strofe di una canzonetta di Enzo re, che così suona :

(1) Ver. d. Dottr. Perticar., 57.

Allegru cori plenu
Di tutta beninanza,
Suvvengavi, seu penu
Per vostra innamuranza,
Chil nu vi sia in placiri

Di lassarmi muriri talimenti,

Chiu v'amo di buon cori e lialmenti.

Che è dunque ciò? Quegli stessi poeti che scrivevano in lingua illustre, scrivevano anche nel loro dialetto? Ma, di grazia, quale criterio, quale regola seguivano essi per mutare la parola dialettale in parola illustre? Chi è che aveva detto ad essi questo tale vocabolo che così vi ha insegnato la balia, oggi dovete mutarlo in quest'altro? voi dovete seguire le tali e tali leggi eufoniche e per le tali e tali ragioni? Chi avesse l'autorità di dir questo, in Sicilia, nel secolo XIII, noi in verità non sappiamo. E quando pure alcuno lo avesse detto, e gli altri lo avessero ascoltato, ne sarebbe uscito fuori un linguaggio tutto artificiale, quasi direi una specie di lingua furbesca, nella quale potevano forse intendersi tra loro i Trinacrii, ma che non avremmo certo inteso mai noi, ma che non avrebbe mai dato le sue composizioni alla letteratura italiana. La quale, giova qui ricordarlo, muoveva allora i primi passi, faceva sentire i suoi primi vagiti, non aveva ancora nessun grande scrittore, nessun grande lavoro, per cui fosse stabilita l'autorità di una lingua scritta. I poeti della corte Sveva erano i primi (così i Siciliani asseriscono) che tentassero nell' arte le forme volgari. Ebbene, chi dunque avrebbe potuto dire a Frate Atanasio, in luogo di all'ammucciuni tu devi scrivere celatamente, in luogo di assicutari, inseguire, e rumore invece di rimurata, e pianse invece di chiangiu, e diedero invece di desiru? Chi poteva aver dato alla cosiddetta lingua illustre, questa supremazia questa autorità questa qualità appunto di illustre, se essi, i Siciliani scrittori, erano stati i primi ad usarla?

Un sapiente uomo ha detto: «i gai cortigiani della Sicilia aveano cercato sulla imitazione provenzale foggiare la lingua nobile della poesia » (1); e può esser vero, in parte; vero per noi che crediamo i poeti siculi posteriori agli occitanici, non vero per coloro che vanno sognando sè precursori anzi de' provenzali. Ma coll'aiuto del solo provenzale si può credere possibile il passaggio dal dialetto siculo a quella lingua che leggiamo ne' siculi poeti? Ammettiamo pure che, come l'Alta Italia si modellò sui dialetti veneti, cosi sulla lingua d'oc si volesse modellare la Sicilia; ammettiamolo, sebbene le ragioni storiche del fatto non ci appariscano chiare, ammettiamolo per certe desinenze di nomi, per certe parole; supponiamo pure che doptanza abbia suggerito dottanza; comensailla, cominciaglia; accordansa, accordanza; esbaudir, sbaldire, e via discorrendo. Con cento o duecento vocaboli modellati sul provenzale non si muta ad una scrittura il colorito generale della lingua: si può modificare, abbellire, ingentilire, lisciare un dialetto; ma la sua tinta fondamentale rimane: ci si scorgerà lo sforzo di chi ha voluto modificarlo; ma quello sforzo non potrà cancellarne i tratti caratteristici. Nell'Italia Settentrionale noi distinguiamo subito il poeta milanese dal veronese; il genovese dal bergamesco; li distinguiamo sebbene ognuno abbia seguito un tipo uniforme, abbia tentato un'opera letteraria, abbia voluto rinunziare all'uso plebeo del proprio vernacolo.

Ma di siculo che cosa rimane in questi versi, per esempio, di Guido delle Colonne ?

Non dico ch'alla vostra gran bellezza
Orgoglio non convenga e stiale bene,
Chè a bella donna orgoglio ben convene,
Che la mantene in pregio ed in grandezza.

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