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italiche. Ed ecco a che cosa riducesi quella così vantata influenza dei popoli tedeschi, dei barbari del medio evo, sulla nostra lingua: a circa centoquaranta vocaboli che essa ha ricevuto dai conquistatori (1).

Conoscere la storia etimologica dei vocaboli componenti una lingua, non è ancora conoscere pienamente la storia delle sue origini. Noi sappiamo oramai con sicurezza che il vocabolario italiano è quasi tutto nel latino popolare. Ma come accadde la trasformazione? A quali leggi soggiacque? Ecco una seconda parte, ed importantissima, di uno studio sulle origini della lingua. Incominciamo dal verbo (2). Qual forma prese sul suolo romano la conjugazione latina? I verbi attivi conservarono all'indicativo il tempo presente, l' imperfetto ed il perfetto; al congiuntivo rimase il presente e il più che perfetto; disparve l'imperfetto ed il perfetto. L'imperativo non si mantenne in tutte le sue gradazioni di tempo; si formò dal presente dell' indicativo. Il gerundio si formò dal suo ablativo. Del participio si presenta, e quasi sempre con valore adjettivale, il presente; il futuro in pochi casi, e generalmente, come latinismo. Vedesi da ciò come il verbo attivo uscisse sufficientemente integro dal grande naufragio delle forme grammaticali. Alcune forme si abbandonarono quando fu trovato il modo di sostituirle per mezzo della circoscrizione, a cui si adoperò il verbo avere, unito o al participio o all'infinito d'ogni verbo. E per tal modo si guadagnarono alcune altre forme di tempo che non poteva dare la grammatica latina. Unendo il verbo avere al perfetto del participio passivo, si espressero diversi tempi del passato: habeo cantatum prese il luogo di cantavi. Ed habere, deposta la sua significazioue individuale, servi come parola di forma a designare le relazioni personali dell'idea di azione, contenuta nel participio. Al participio poi, oltre quella idea di azione, rimase solo l'indicazione del passato, la di cui determinazione precisa fu espressa dall'ausiliare (ho, aveva, ebbi cantato). Lo stesso verbo habere si adoperò ad esprimere il futuro unendolo all'infinito: costruzione conosciuta anche dai Greci, e che era forse più propria della lingua popolare che della scritta. Habeo audire fu precisamente come habeo audiendum, habeo quod audiam, ho da udire, devo udire. Riguardo poi alla forma si rinnovò qui un fatto che più volte si osservò nella storia della lingua, cioè che il verbo ausiliare, abbassatosi a parola di forma, si incorporò poi coll'infinito quale suffisso. Così per esempio canterò non è altro che cantar-ho (3). Infatti nei tempi primitivi era comune la forma canteraggio, dove aggio apparisce come una ben nota forma secondaria di ho.

E non mi partiraggio

Da voi, donna valente. »
Federico II.

(1) Si calcola che le lingue romane prese tutte insieme abbiano 930 vocaboli di origine germanica. Cf. Diez, Gramm., Einleit., pag. 66. Vedasi tutto il paragrafo che tratta dell'Elemento Germanico. Ved. anche il capitolo De l'Influence des Langues Germaniques in DU MÉRIL, Formation de la Langue Française, 192-244; e FAURIEL, Hist. de la Gaule Mérid.; e un bell'articolo di PATIN, nel Journal des Savants, 1838.

Diamo un breve saggio di parole italiane derivate dalle lingue germaniche: werra (guerra); heriberga (albergo); blacse (blasone); helmbarte (alabarda); halsberc (usbergo), strála (strale); gundfano (gonfalone); sporo (sperone); staph (staffa); brittil (briglia); herold (araldo); manogalt (manigoldo); siniskalh (siniscalco); sclave (schiavo); kiol (chiglia); sperwaere (sparviere); wanka (guancia); skina (schiena); ancha (anca); skinko (stinco); melm (melma); busch (bosco); wat (guado); blanh (bianco); brún (bruno); gagol (gagliardo); gahi (gajo); gelo (giallo); gris (grigio): leid (laido); listig (lesto); sleth (schietto); slimb (sghembo); snel (snello); danson (danzare); drescan (trescare); furban (forbire); hartjan (ardire); lecchón (leccare); rakjom (recare); ridan (riddare); scherzen (scherzare); wogen (vogare). Alcune però di queste etimologie non sono ben certe.

(2) Noi non facciamo in questa parte che accennare di volo quello che è svolto ampiamente e magistralmente dal Diez.

(3) Nota il Diez a questo punto come nel dialetto sardo il verbo ausiliare abbia preso il suo posto innanzi all'infinito: canterò = hapu cantai, hapo a cantare,

Ed a lui serviraggio

Mentre ch'io viveraggio. »

Pier delle Vigne.

A te, mio figlio, questo faraggio.
<< Della tua morte io piangeraggio.
Nè di far ciò mai non cesseraggio.

<< E per lo tuo amore ben morraggio. »

B. Iacopone.

In forza del medesimo metodo si creò con habebam un secondo tempo, che corrisponde press' a poco all'imperfetto latino del congiuntivo, e fecesi cantar-avia, cantar-ia, canter-ia. Un' altra unione dello stesso significato col perfetto habui, diede la forma canter-ei.

Le lingue romane perdettero una parte delle vecchie forme flessibili. La causa di ciò sta in una certa naturale trascuranza della lingua popolare. Riuscendo difficile di attenersi alla pronunzia di quelle varie e numerose forme dipendenti dalla quantità, a poco a poco la loro pronunzia stessa ed il loro significato vanno oscurandosi; ed il senso della lingua che aspira a chiarezza, cerca di rimpiazzare questo difetto mediante parole ausiliarie, le quali stanno o isolate od affisse, e sogliono poi passare dal loro individuale significato ad un significato astratto, corrispondente alla forma grammaticale che esse suppliscono. Noi non ci fermeremo qui a parlare del genere e del numero latino, e delle modificazioni introdottesi nelle lingue romane. Fermandoci piuttosto sul caso, ci si presenterà la domanda, quale sia il caso normale, al quale, spenta la flessione nelle lingue romane, si diede la maggiore importanza per sostituire tutti gli altri.

La supposizione cadrebbe sul nominativo, il casus rectus, che, come il suo nome stesso esprime, accenna soltanto l'idea; ma invece l'esperienza ci mostra che i principali casi tipici sui quali le lingue romane si fondarono, furono il nominativo e l'accusativo insieme, e quest'ultimo anzi ebbe predominio sul primo. Formazioni basate sopra altri casi sono assai rare. Per quello poi che riguarda la relazione delle forme finali romane dei due casi normali, è evidente il passaggio di am in a, di um in o; e ciò è confermato dalle forme delle persone dei verbi, dei pronomi e dei numerali, poichè corona, anno, ladrone, stanno in relazione con coronam, annum, latronem, come amava, loro, secondo, ami, dieci, sette, con amabam, illorum, secundum, amem, decem, septem. Ciò trova spiegazione e conferma nella storia della lingua latina.

Nelia flessione dei pronomi le lingue romane esternano maggior vita che nelle altre, poichè in essa la forma dell'accusativo non si spense mai; si conservò il nominativo, ed in alcuni casi anche il genitivo ed il dativo (1). Da ego fecesi eo, io; da tu, nos, vos, tu, noi, voi. Da illic, fecesi egli, elli; da istic, esti, questi. In lui, è un avanzo del genitivo illui, illius; come resti del genitivo plurale sono loro, coloro, costoro, da illorum e istorum. La terminazione italiana ei è da riferire. alla latina ae; da illae, ebbesi lei, coll'aggiunta di un i, per ragione prosodiaca; da illi, dativo masc. sing., gli; da illae, le. Quindi i pronomi italiani che mantengono l'impronta del caso latino, non hanno bisogno del segnacaso. Gli esempi di ciò sono, come ognuno sa, frequentissimi nella lingua nostra. Una caratteristica grammaticale degna di osservazione è la doppia forma del dativo e dell'accusativo. Per questi casi, oltre la forma principale, ne venne stabilita una secondaria, per lo più abbreviata, che si incorpora col verbo, come particella suffissa. Queste paroline che appariscono sempre in compagnia del verbo, e che anzi non hanno esistenza loro propria, possono chiamarsi pronomi personali congiuntivi. Nella lingua

(1) Dies. Gramm. II, 75 nəgg.

de' Romani si osservano alcune abbreviature dei pronomi personali, come mi e me per mihi in Ennio e Lucilio (1).

L'articolo è un elemento del discorso che era sconosciuto ai Romani, e che le nuove lingue tolsero dal pronome dimostrativo ille, e dal nome numerale unus. I vantaggi che alle lingue romane derivarono dalla introduzione dell'articolo sono noti e chiarissimi. Per quello che riguarda la storia dell' articolo indeterminato, sappiamo che gli scrittori romani, specialmente antichi, ponevano in modo più o meno pleonastico il nome numerale unus come pronome indefinito; ed in questo significato di unus sta veramente il principio dell'articolo indeterminato. L'uso dell'articolo determinato è assai antico, e trovasi già in documenti del 6.° secolo.

La maggior parte degli avverbi si formò unendo agli aggettivi l' ablativo di mens; anco in quei casi nei quali tale unione può parere contraria alle leggi logiche del pensiero (2).

A quale epoca si può far risalire la prima apparizione dell'italiano, come lingua nettamente staccata dal tronco latino? La questione è meno facile a risolversi di quello che a primo aspetto non sembri. Ed anzi tutto, perchè dobbiamo considerare l'italiano separatamente dalle lingue sorelle, le quali è certo che andarono formandosi insieme ad esso? Se le condizioni delle varie province romane fossero state uguali, certo è che in tutte avrebbe dovuto simultaneamente apparire la lingua nuova, fosse pure divisa in varii dialetti. Ma queste condizioni erano invece diverse. Noi sappiamo oramai che due lingue (ci si passi l'espressione) stavano sulle labbra dei popoli romani, l'una propria dei dotti e dei gentili, l'altra dei rustici, della plebe, dei soldati; la prima va dopo il 5.° secolo decadendo, spegnendosi, quasi a grado a grado morendo, col morire della gentilità romana; l'altra invece, la povera e dispregiata lingua del volgo, che erasi fino allora tenuta nascosta davanti alla aristocrazia letteraria, eccola uscire alla luce del giorno, fatta vittoriosa da quelle spade di barbari che imponevano silenzio al nobile eloquio dei signori del mondo. Non fu però vittoria d'un giorno, nè poteva essere. Per molto tempo il latino letterario durò; durò corrompendosi, durò agonizzando, ma pure durò; e questa sua vita tenace impediva il libero svolgimento di quell'altra lingua che andava però ogni giorno acquistando in estensione e in profondità, che si dilatava e penetrava ogni classe sociale. La fondazione della famosa Scuola Palatina, il capitolare del 789 che ordina l'insegnamento della Grammatica, quella insomma che fu ben chiamata da un moderno la petite Renaissance, (3) non basta più a rimettere il sangue della gioventù nel corpo fatto decrepito: è un tentativo, un nobile tentativo, che, come quello di Giuliano, è vinto dalla forza fatale dei tempi; tanto è vero che soli ventiquattro anni dopo lo stesso Carlomagno ordina che ognuno debba, se non può in latino, imparare « in sua lingua» l'orazione domenicale; e un mezzo secolo dopo, i discendenti dell' autore stesso del capitolare sono i primi ad attestare al mondo che la nuova lingua esiste, stretta tuttavia, se si vuole, al corpo materno, ma avente già persona sua propria. I giuramenti di Carlo il Calvo e di Luigi il Germanico dell' 842 sono il documento più antico delle nuove lingue romane. Che lingua è dessa? È il latino, è il francese, è l'italiano, è lo spagnuolo? Non ci sia grave leggere quelle parole antichissime: « Pro Deo amur et pro christian poblo

(1) Cf. Diez, op cit. 78, 79. Chi voglia può vedere quale fosse la formazione dei pronomi italiani nella quarta parte del libro terzo dell'opera di Diez, che ne tratta diffusamente: Pronominalbildung, pag. 419-427.

(2) Per la formazione degli avverbi cf. Diez, op. cit., Partikelbildung, Adverbia, pag. 428-451.

(3) Non si dimentichi che maestro di latino a Carlomagno stesso fu un italiano, Pietro di Pisa. E si abbia in memoria che i dotti della sua corte si compiacevano nel farsi chiamare con nomi latini. Il grande Alcuino si chiamò Albinus Flaccus.

<< et nostro commun salvament, d'ist di en avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo et in adjudha et in cadhuna cosa, << si cum om per dreit son fradra salvar dist, in o quid il mi altresì fazet, et ab « Ludher nul plaid nunquam prindrai qui meon vol cist meon fradre Karle in << damno sit.

« Si Lodhuvigs sagrament quae son fradre Karlo jurat, conservat, et Karlus, << meos sendra, de suo part non lo stanit, si io returnar non s'int pois, ne io ne neuls cui eo returnar int pois, in nulla ajudha contra Lodhuvvig nun li iu er ». Noi non vorremo qui ripetere quello che già scrisse il Perticari, di questo documento, sebbene molte delle osservazioni sue ci sembrino vere, pur rigettando il sistema della comune lingua romana (1). Noi sappiamo esser falsa la teoria del Raynouard; ma sentiamo insieme che nel giuramento si nascondono e si palesano al tempo stesso, non questa piuttosto che quella delle lingue neo-latine, ma tutte insieme confuse, quasi come più feti non distinti ancora nell'utero materno, formanti tuttavia una massa che sembra unica, ma che ha in sè i germi che, sebbene in tempi diversi, si svolgeranno in altrettante vite separate. Noi abbiamo colto, abbiamo sorpreso le nuove lingue in uno dei punti più importanti della loro formazione, mercè le parole di Carlo il Calvo e di Luigi il Germanico; le quali, se sono sempre improntate della materna effigie latina, hanno pure, ci si conceda l'espressione, una effigie del futuro, francese, provenzale, italiano e spagnuolo. Insieme però a questo fatto che è fuori di ogni dubbio, un altro dobbiamo ammetterne, cioè, che mentre la Francia ha dal secolo IX in poi una serie non interrotta di documenti scritti, che le servono a tener dietro ai progressi della sua lingua, l'Italia non può parlare di vera lingua italiana fino a tempi assai posteriori.

Il período che chiameremmo anteistorico della nostra lingua dura, quando già la Francia ha una letteratura. Il cantico di Sant'Eulalia e quello per la battaglia di Saucour, nel secolo X; il poema sulla passione di Cristo e sulla vita di S. Léger nell' XI; il Mistero delle Vergini savie e delle Vergini folli e il frammento di Alessandro nel XII, per tacere di altri, compongono già una letteratura. la quale si svolgerà rapidamente, toccherà il colmo della sua perfezione e comincerà già a decadere, quando noi saremo ai principii dell' arte nostra. E pure chi potrebbe negare che anco in Italia non si parlasse una lingua nuova fino forse dal secolo VIII e IX? Le prove non fanno difetto. Basta gettare gli occhi sulle carte di quei tempi, basta fermarsi un momento sugli esempi copiosi raccolti nelle Antichità Italiane del Muratori, ne' Documenti Lucchesi, nel Codice Diplomatico del Brunetti, nella memoria del Barsocchini, in cento altri libri (2). Dal 700 al 900, per es., scrivevasi:

De uno latere corre via publica.

Cui de uno latere decorre via publica.

In via publica, et per ipsam viam ascendente in suso.
Locus qui vocatur Palagiolo..... abeat in simul casa

De suprascripto casale Palatiolo.

In fondo Veterana Casale, qui vocatur Granariolo.
Uno capo tene in vinea de filio qm. Lopardi

(Mur., An. Ital.) (Docum. Lucc.) (Mur., An. Ital.) Magnacioli.

Et per singulos annos gustare eorum dava in ipsa casa.
Per singulos annos reddere debeamus vobis una turta,

pullo et animale, valente dinari septe.

(Docum. Lucc.) (Brunetti.)

(Docum. Lucc.) (Brunetti.) (Docum. Lucc.) duo focacie bone, uno (Docum. Lucc.)

Vendo tibi una casa mea massariccia, quem habeo in loco Pulinio, ubi resede Ouriprandulo massario meo.

Decimus de Villa quae vocatur Casale grande.

(Docum. Lucc.) (Mur., An. Ital.)

(1) Sono ad ogni modo importantissimi a leggere i capitoli XXIV della Difesa di Dante, e accanto ad essa i Dubbi sulla verità delle dottrine Perticariane, del sig. Galvani. (2) Ved. anche le due belle lezioni del Fauriel (op. cit.), Formation de l'italien.

Se così si scriveva, chi vorrebbe credere che si parlasse latino? (1) E se non si parlava latino, quale altra lingua potevasi parlare fuori dell' italiano, di un italiano latineggiante, che non era ancora per certo la lingua nuova, ma non era più neppure l'antica? Questo italiano che si parlò dal settimo secolo, probabilmente, fino all'undecimo o duodecimo, era, se cosi possiamo esprimerci, una lingua novella sotto spoglie vecchie, cioè conservava tanto del latino ne' vocaboli da non potersi chiamare ancora italiano; ed aveva già tanto dell'italiano nella sintassi e ne' vocaboli stessi, da non poterlo più chiamare latino. Saremmo quasi tentati di dire che la strana lingua de' giuramenti durò per noi molti secoli, modificandosi lentamente, così lentamente che il periodo di formazione abbraccia quasi seicento anni. Ed ecco la lingua dell'uso comune, la lingua volgare parlata del secolo VIII, IX e X, della quale non possono certo darci un'immagine esatta i documenti scritti, ma che pure da quei documenti possiamo indurre quale fosse (2).

Gonzone, un italiano stimato per la sua dottrina, è chiamato nel 960 in Germania. da Ottone I. Si ferma al monastero di San Gallo, e quivi parlando latino coi frati, mette un accusativo dove la grammatica voleva un dativo, onde n'è deriso così, ch'egli crede dovere scrivere a propria difesa una lettera. E in questa lettera dice: << falso putavit S. Galli monacus me remotum a scientia grammaticae artis, licet aliquando retarder usu nostrae vulgaris linguae, quae latinitati vicina est » (3). Testimonianza più esplicita di questa mal potrebbe desiderarsi. Nè è sola. Vitichindo attesta che Ottone I sapeva parlare questa lingua d'Italia:

<< Romana lingua, sclavonicaque loqui sciebat, sed rarum est, quod earum uti dignaretur» (4).

E l'epitaffio di Gregorio V, morto nel 999, diceva:

Usus francisca, vulgari et voce latina
instituit populos eloquio triplici (5).

Ma perchè dunque non troveremo noi che tanto più tardi un documento che si possa dire schiettamente italiano? O, in altre parole, perchè la lotta tra il romano volgare e il latino classico durò tanti secoli fra noi, a differenza della Francia? Che cosa c'era dunque in Italia, quali speciali condizioni esistevano qui perchè lo svolgersi della lingua popolare romana fosse nelle scritture cosi tardo, e perchè, quindi, tanto sforzo occorresse ad uscire dall'involucro latino? C'era, risponderemo sommariamente, questo fatto capitalissimo, che il latino si considerava in Italia come in casa sua propria; che il latino era per gli Italiani lingua nazionale, e per conseguenza erasi come abbarbicato non all'uso soltanto, ma al sentimento degli Ita

(1) Le forme della declinazione latina erano affatto dimenticate fino dai secoli VII e VIII; e giustamente scrive il Fauriel (op. cit., II. 415) che fino da questi secoli « tout autorise à penser que il existait à cet égard, en Italie, une sorte de convention grammaticale consacrée par l'usage général, convention en vertu de laquelle on dépouillait les noms latins des désinences qui en marquaient les cas, pour les réduire autant que possible à une terminaison uniforme et constante >>.

(2) Si veda più giù il Canto per l'imprigionamento di Lodovico II, del secolo IX; e si leggano queste parole del XII: « Incipiendo da li Finaudi et recte vadit per Serram Sancti Viti; et la Serra ad hirta esce per dicta Serra Groinico; e li fonti aqua trondente inverso Torilliana, e esce per dicte fonte a lo Vallone de Ursara; e lo Vallone Apendino cala a lo forno, et per dicta flumaria adhirto, ferit a lo Vallone de li Caniteli; et predicto Vallone adhirto esce sopra la Serra de li Palumbe a la crista custa; et deinde vadit a lo vado drieto da Thomente; et dicta Ecclesia Sancto Andrea abe ortare unum et non aliud. Et dicta Serra Apendino cala a lo Vallone de Donna Leo; et lo Vallone Apendino ferit alla riva che vene ad Santo Jorio, et volta supra l'ara de li Meracini, et ferit a la Gumara de li Lathoni ecc. » In Muratori, Antiquit. Ital. M. E., II, 1047.

(3) Marténe, Veter. scrip. ampl. Collectio. I., 298. - Raynouard, Choix, I, XIV. - Fauriel, Les origines ecc. II, 399. Diez, Gramm., Einleitung, 78.

(4) Cf. Diez, 1. c.

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(5) ivi.

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