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Checchè sia di questi due documenti (dei quali, come dal Ritmo Cassinese, noi confessiamo di dubitar molto), essi non rappresenterebbero ancora per certo, il principio della letteratura. Se veri, non farebbero che confermarci nella certezza che la lingua volgare esisteva in Italia nel secolo XII; se falsi, non distruggerebbero punto questa certezza che si fonda sopra troppe e troppo evidenti e necessarie ragioni.

Per giungere alle origini della letteratura, scritta nella lingua volgare, occorrerà che si compiano grandi avvenimenti, i quali destando nuovi sentimenti e nuove idee, richiederanno anche imperiosamente una forma ed un' arte nuova. Noi vedremo finalmente nel secolo decimoterzo i frutti di quello che andò maturandosi lentamente nei secoli precedenti (1).

che noi sappiamo, si è curato di esaminar criticamente due documenti di tanta importanza. Le ragioni portate dal Tiraboschi contro l'iscrizione di Ferrara non ci sembrano di gran peso. Più forti quelle dell'Affò contro il canto Ubaldini. Certo però è, se non altro, molto strano, che nel secolo XII si scrivesse in volgare una iscrizione, ed in una chiesa, mentre il genere dello scritto ed il luogo richiedevano senza dubbio il latino.

(1) Notiamo qui di passata essere inutile dire il perchè non parliamo delle Carte di Arborea. L'Accademia di Berlino ha confermato quello che molti già pensavano in Italia. Si legga, a questo proposito, anche una lettera del professore D'Ancona ed un articolo del cignor Girolamo Vitelli, nol Propugnatore Auno 3.o, Disp. 2.a e 3.a, 1870.

CAPITOLO SECONDO.

FATTI CHE APPARECCHIARONO LE PRIME MANIFESTAZIONI

DELLA LETTERATURA ITALIANA.

SI.

NORMANNI E PROVENZALI,

Quel giorno nel quale il prode e fortunato Rollone facendosi vassallo di nome a Carlo il Semplice,, fondava il ducato di Normandia, spuntava suila Francia l'aiba di una nuova civiltà, che doveva poi allargarsi ad altre parti d'Europa. La barbara Scandinavia col suo Odino, coi suoi Skaldi, colle sue istituzioni, col suo coraggio, colla sua giovinezza, entrava trionfalmente nella storia europea, destinata a segnarvi un'orma che fu incancellabile. Le nozze del vecchio pirata colla fanciulla carolingia, simboleggiarono le nozze di due popoli; e dalla cerimonia di Rouen in poi, al lugubre canto che chiedeva a Dio la liberazione dal furore normanno, succedè la forte canzone di guerra intuonata da cuori e da labbra francesi. I campi di Hastings sentivano, centocinquant'anni dopo, la voce del normanno Taillefer,

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Ne bastò la Normandia alla forte razza, la quale si trapiantò anche in Italia, e sul vecchio tronco latino, che Bisanzio vie più corrodeva, innestò, essa, un ramo giovane, rigoglioso, robusto, che diede frutti maravigliosamente pronti e superbi.

Inutile dire dell' ardito Drengott, della fondazione di Anversa, di Braccio di Ferro, del Guiscardo, di tutta quella gloriosa epopea che si svolse nel secolo XI, che fu pure il secolo di Eriberto arcivescovo: sincronismo utile a ricordarsi, poichè mentre nelle terre meridionali d'Italia si gittavano le basi di una nuova e forte monarchia, al settentrione sorgevano i primi tentativi d'indipendenza: due fatti disgiunti allora, e che forse parevano anzi contradittorii, ma che il tempo pure riunì e affratello. Dalla Puglia e dal'a Calabria passarono i Normanni in Sicilia, conquistandola sugli Arabi, ed intanto due figliuole di Roberto Guiscardo andavano spose ad Ugo figliuolo di Azzo II di Este, e a Raimondo II di Barcellona; ed andava a Raimondo conte di Provenza una figliuola di Ruggero conte di Sicilia, che era marito di Adelaide di Monferrato. Così noi troviamo già Sicilia, Provenza, Barcellona, le case d'Este e di Monferrato riunite in questi maritaggi: ed il vincolo allora stretto anderà in progresso afforzandosi. Sopravvengono le crociate. Figuriamoci, se al pensiero nostro è possibile, quello che dove essere l'Italia inondata da una turba senza numero di

îrancesi del mezzogiorno e del settentrione: quelli che per la Lombardia, sotto la guida del Conte di Tolosa, che conduceva con sè la moglie ed un figliuolo ancora lattante, passano nel Friuli, e quindi in Dalmazia; questi che traversano in tutta la sua lunghezza l'Italia, ed entrano in Puglia. Erano uomini d'arme, preti, donne, fanciulli, contadini, servi, male armati, mal vestiti, alla cui testa stavano il duca di Normandia, il duca di Bretagna, il conte di Fiandra, ed altri nobili e potenti signori. attorno ad essi, accorrono d'ogni parte gli Italiani:

<< Quos Athesis pulcher praeterfluit Eridanusque,
Quos Tyberis, Macra, Vulturnus, Crustumiumque,
Concurrunt Itali. >>

Tutta la moltitudine si riversa nella Puglia; e nelle città di Brindisi, di Bari, di Otranto attende che sia pronto alla partenza l'esercito di Boamondo.

Le popolazioni italiane, noi già lo sappiamo, non parlavano più certo il latino, ma una lingua che andava ogni giorno più trasformandosi nel futuro volgare. Ed ora Sentono un altro volgare, simile al loro, parlato da mille e mille labbra: lo sentono nelle pianure lombarde, come già lo hanno sentito in Puglia, in Calabria, in Sicilia.

Alla Sicilia specialmente fermiamo la nostra attenzione. Quivi la dominazione Normanna si costituisce in vera e forte signoria; una guerra di nazionalità si combatte contro gli Arabi: siculi e normanni si affratellano, e una gente sola si forma, che ha comune la religione, i costumi, la lingua:

Moribus et lingua quoscumque venire videbant
Informant propria, gens efficiatur ut una.

Il conquisto normanno, ripeteremo col La Lumia (1), s'offre alla storia come una successione non dubbia di atti ardimentosi e stupendi; una insegna di vittoria opportunamente spiegata a proteggere un moto nazionale, che inaugurato in terraferma, si comunicava e si compiva nell'isola; e ne usciva tutta giovane e forte una società, la quale, animata di latini ed italici spiriti, pur assimilavasi insieme quanto del mondo occidentale e germanico attingeva, più o meno, da' condottieri normanni, quanto del mondo orientale ritraeva dagli Arabi, e da' superstiti avanzi del dominio dei Greci.

La monarchia normanna in Sicilia andò svolgendo gradatamente le sue proprie forze; sotto Ruggero II, prode nelle armi c dotto nelle lettere, sali a tanta potenza ch'esso Ruggero potè darsi il titolo di re d'Italia (2). Tre popoli, tre civiltà, tre lingue tendevano a confondersi insieme: era una nuova nazionalità che sorgeva ricca di elementi svariati. Dai più remoti paesi si chiamavano i dotti a Palermo: le scienze e le arti, fiorivano splendidissime, vivificate dall' alito mussulmano, amate e protette dalla munificenza normanna. Lusso orientale, che si adornava delle sete fabbricate nella corte stessa del re; donne, cavalieri, amori, costumi, quali potevano essere sotto quel cielo, in mezzo a quella natura incantevole, fra quegli uomini di sangue greco ed arabo, sotto la influenza di quella nuova civiltà che si sviluppava potente. Sembrava veramente che la poesia avesse voluto fabbricare a sè il proprio regno: aspettiamo ancora un poco, e ne sentiremo le dolci note, le quali dovranno uscire dal labbro del popolo, appena codesto popolo possa cantare in una lingua sua, ch'egli senta parte di sè, della sua vita nazionale.

(1) Studi di storia Siciliana, I, pag. 18.

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(2) Rogerius Siciliae et Italiae Rex. Nell' Ughelli, Italia Sacra (x, 98), si legge: << Anno 1136 fecerunt Pisani stolum, mirabilem hominum multitudinem continentem, contra Rogerium Siciliae Comitem, qui faciebat se vocari in tota terra sua regem Italiae. » Cr, La Lumia, op. cit.

Ecco questa cara e nobile figura di Guglielmo II. Bello, gentile, buono veramente come la storia lo chiama, cresciuto in mezzo alla sapienza araba, tollerante di ogni credenza (1), amante degli studi, egli dà alla Sicilia diciassette anni di pace, di prosperità, di potenza. Fiorente l'agricoltura, lieti e popolosi i villaggi; le palme, le cannamele, gli ulivi, le viti lussureggianti; un sorriso di cielo su quella terra bellissima; ed intenti gli uomini a migliorarne ogni giorno le sorti. Le manifatture per le sete in ispecie e per gli arredi di ornamento e di lusso prosperavano negli opifici di Palermo e Messina. Le Crociate, i diuturni passaggi degli Occidentali in Levante offerivano occasione continua di commerci e di cambi. Le navi dell'Isola e quelle delle mercantili nazioni di allora empivano i porti. In Messina ed in Trapani, case di Ospedalieri e Templari, ad accogliere e albergare i pellegrini e i guerrieri che recavansi in Palestina ed in Siria. Nelle marittime città principali, fondachi banchi, fattorie di Amalfitani, Veneziani, Genovesi, Pisani (2). Le colonie lombarde sparse per l'isola. Dappertutto l'operosità, la ricchezza, la pace; e a lato di esse, le arti del bello, che lasciavano di sè memorabili monumenti. Non ci sembri inutile dare uno sguardo a quella bellissima Palermo, di cui Beniamino da Tudela diceva: « nullum aedificiorum exemplum hujus urbis aedificiis par spectatur; » e che Ibn-Giobair chiamava, città antica ed ornata, magnifica e piacevole, città sorprendente, costruita sullo stile di Cordova. Già, sotto il grande Ruggero, tra cento altri monumenti, era sorta la chiesa della Martorana, e quella Cappella Palatina, dove fu prodigato, dice il Selvatico, tutto quanto l'arte del dodicesimo secolo potè inventare di maraviglioso: musaici brillantissimi, pitture, marmi preziosi, dorature, tarsie. Regnando il buon Guglielmo si innalzò quella famosa cattedrale, miracolo di magnificenza e di eleganza, ai quattro lati della quale torreggiano ancora quattro campanili che colla sveltezza loro ricordano gli arabi minareti; ed arabi si manifestano gli archi acuti incrociantisi, che accerchiano le due absidi minori, come la centrale; araba la maschia cornice, coronata da merli ondeggianti; arabi i fregi, che vestono la superiore muraglia e chiudono le finestre de' campanili (3).

Ibn Giobair (4) ci parla degli atrii, delle porte, delle spianate, degli anfiteatri a gradini, ch' egli vide e che tanto lo meravigliarono; della sala che gli dissero servire al pranzo del re, cinta da portici, ammirabile per grandezza e bellezza, dei palagi come castelli, con torrette slanciantisi in aria a perdita d'occhio, delle ville situate intorno alla citta, come collana che adorni il collo di vezzosa fanciulla. Ugo Falcando ci descrive la città stessa, divisa in tre parti, e contenente come tre città distinte, e rimane stupito davanti a tanta grandiosità e leggiadria, davanti alle mille fontane, agli alberi sempre verdeggianti, agli acquedotti bellissimi. Nè mancava la scienza, in mezzo a tanto splendore di arti. Romualdo Salernitano, il Protonotario d'Ajello, il Falcando, Guglielmo di Blois, l'Offamill, vissero tutti alla corte di Guglielmo; sotto il suo regno fiorì la Scuola Salernitana; e ai dotti Arabi egli fu largo di favori regali.

Potevano forse in tale città, a una tal corte tacere le letterc? (5). E che non

(1) Entrando un giorno in una sala del suo palazzo, dove donne e paggi mussulmani (atterriti dalle scosse spaventose del terremoto del 1170), invocavano Allà e il suo Profeta, sentì ch'essi ammutolivano alla sua presenza; onde egli rivolse loro queste parole: « Chc preghi ognuno di voi quel Dio che adora; chi ha fede nel proprio Dio, sentirà la pace nel

suo cuore. »

(2) La Lumia, op. cit., pag. 184.

(3) Selvatico, Storia delle Arti del Disegno, II, 237.

(4) Viaggio in Sicilia sotto il regno di Guglielmo il Buono; presso La Lumia, op. cit. (5) Il Fauriel (Histoire de la Poésie Provençale, I, 2, 29), ricordando che Matilde, figlia di Raimondo Berengario andò sposa nei 1080 a Ruggero conte di Sicilia, dice: «Il ne serait pas absurde de supposer que les pays et les cours où s'etablirent les princesses que j'ai nommées, durent acquérir à cette occasion quelque vague connaissance de cette poésie provençale qui, un peu plus tard, devait y faire si grand bruit. »>

tacessero abbiamo testimonianze non poche. Il Malaterra de' Normanni scrive: << eloquentiae studiis inserviens in tantum ut etiam ipsos pueros quasi rethores attendas. » Che Guglielmo stesso amasse le lettere ci è detto dalle parole non sospette di Pietro di Blois (1). Alla sua corte on cantoit et sons et lais (2). Di lui, posto da Dante tra i più nobili e virtuosi re (3), così annota Jacopo Della Lana, seguito poi quasi letteralmente da Francesco da Buti e dall'Ottimo:

<< Questo fu lo re Guglielmo di Cicilia, lo quale era re per successione; rimase di esso solo una figliuola la quale fue mogliera di Enrico quinto, e però succedette poi lo reame allo re Manfredo. Questo re Guglielmo fue uno uomo giusto e ragionevile, e amava li suoi sudditi di dilettazione regale, la quale fae differenzia dalla iniqua volontà tirannica, e teneali in tanto trastullo, pace e diletto, che si potea estimare uno paradiso terrestre. Costui era liberalissimo, non era cavalieri nè d'altrá condizione uomo che fosse in sua corte o che passasse per quella contrada, che da lui non fosse provveduto, ed era lo dono proporzionato a sua vertude; ben tenea elli questa regola entro li uomini di corte in sua corte, incontanente era cognosciuto per quelli, che sopra ciò erano posti, e incontanente li era donato roba e altri doni perchè avesse cagione di partirsi; se erano tanto conoscenti si si partivano: se non, cortesemente li era dato commiato; e s'ello venia uno virtudioso e curiale, a questo era similmente donato, ma continuo lo teneano in speranza di maggior dono, e con cotali genti erano si legati che raro si partiano; per la quale regola in essa corte si trovava d'ogni perfezione gente: quivi erano li buoni dicitori în rima d'ogni condizione, quivi erano li eccellentissimi cantatori, quivi erano persone d'ogni solazzo, che si può pensare virtudioso e onesto, in questa corte era tanta pace, tanta tranquillità, che li abitanti e sudditi notavano in allegrezza» (4).

(1) Egli scrive ad Offamill: «Nam cum rex vester bene litteras noverit, rex noster (Enrico II di Inghilterra) longe litteratior est. Ego autem in litterali scientia facultates utriusque cognovi. Scitis quod dominus rex Siciliae per annum discipulus meus fuit, et qui a vobis versificatoriae atque litteratoriae artis primitias habuerat, per industriam et sullicitudinem meam beneficium scientiae plenioris obtinuit. >>

(2) Cf. Emiliani Giudici, Storia della Lett. Ital. I, 61.

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(4) Ci sia concesso riferire quì il compianto ritmico composto in morte del re Buvo da Riccardo di San Germano, e già pubblicato dal signor Gaivani :

Plange planctu nimio,

Sicilia, Calabriae regio,

Pulia, Térraque laboris

Vocem intonet moeroris;

Personet haec nostris oris,
Suspendatur organum
Omnis oris.

Rex noster amabilis,
Virtude laudabilis

Acvo memorabilis

Guilielmus, decessit!

Mors crudclis hunc oppressit.

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