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al Paradiso terrestre, da quello che ha visto e udito, e però dalle differenti iniziazioni per le quali è passato, già è reputato padrone della scienza e della giustizia; quindi innanzi non ha più bisogno di guida temporale, egli papa e imperatore di sè stesso, è arrivato alla giustificazione, allo stato d'innocenza primitiva, al Paradiso terrestre, donde Adamo ed Eva vennero cacciati dopo la loro caduta; Virgilio non può adunque insegnargli altro: gli bisognerebbe un insegnamento superiore. Allora in una visione simbolica vede svolgersi innanzi la storia dell'umanità da' tempi primitivi fino a' suoi giorni. La quale gl' insegna come sia stata nelle sue origini indirizzata l'umanità, come preparato e introdotto nel mondo il cristianesimo; e gli fa intendere questa verità capitale, che la cristianità più che s'è conformata al genio del cristianesimo più è stata illuminata e felice, e che più s'è allontanata dallo spirito del Vangelo, più è ripiombata nell' errore e nell' avvilimento. Convinto di questa verità, Dante rivede Beatrice, il Genio del Cristianesimo; e la rivede più bella e divina che non dieci anni innanzi. Beatrice non ha più bisogno d' indirizzarlo ne' principii del cristianesimo, che Dante già conosce, ma gli fa intender chiaro che egli ha fatto come ogni altro cristiano: ha abbandonato il Vangelo, la sua Beatrice, che fugli di scorta in gioventù, e s'è lasciato trasportare da ogni vento di falsa dottrina e dall' amor della pargoletta, cioè dall' ancella, dalla Filosofia. Dante non potrà pertanto entrare nel Paradiso celeste se non crede in tutto e per tutto che il solo Vangelo comprende la vera luce e la salute vera. Per condurlo a riconoscere il suo errore o la sua infedeltà, a confessarsi di buona fede, a meritare così l'assoluzione plenaria; e per esser degno infine d'entrare nel Paradiso celeste, Beatrice così rampogna Dante d' essersi abbandonato all' amor della pargoletta:

Tuttavia, perchè me' vergogna porte
Del tuo errore, e perchè altra volta
Udendo le sirene sie più forte,

Pon giù il seme del piangere, ed ascolta;
Si udirai come in contraria parte
Muover doveati mia carne sepolta.

Mai non t'appresentò natura ed arte
Piacer, quanto le belle membra in ch' io
Rinchiusa fui, e che son terra sparte:

E se il sommo piacer sì ti fallio
Per la mia morte, qual cosa mortale
Dovea poi trarre te nel suo disio?

Ben ti dovevi per lo primo strale
Delle cose fallaci, levar suso
Diretr' a me che non era più tale.

Non ti dovea gravar le penne in giuso,

Ad aspettar più colpi, o pargoletta,
O altra vanità con si brev' uso. (1)

Sarebbe dunque un volersi ingannare a partito il credere con alcuni de' comentatori che la pargoletta significhi qui una qualche amante dell' Alighieri, e che Beatrice, l' antica amante platonica di lui, gli rimproveri con collera e gelosia l'infedeltà commessa al suo sguardo. Qui si tratta di cosa più grave che non è la infedeltà volgare tra gli amanti. Beatrice non è una donna terrestre, gelosa, garrula, che rampogna il suo amante d' averla abbandonata per un' altra più giovane: essa è qui la figlia della Trinità, il Genio del Cristianesimo, la personificazione della Fede, della Carità e della Speranza. Dante non è mica un zerbino volgare, frivolo e leggiero; egli è qui l'uomo giusto, il saggio, che meritò d'esser coronato e mitriato da Beatrice, dal Genio del Cristianesimo; per diventar quind' innanzi

(1) Purgatorio, Canto XXXI, 43-60.

padrone e donno di sè stesso. Il luogo ove Beatrice, dopo dieci anni, lo rivede per la prima volta, non è poi un gabinetto nel quale la donna rinfaccia al suo volubile amante la infedeltà di lui; questo luogo è il Paradiso terrestre, ove i giusti e i santi soli hanno accesso, e che sta chiuso a tutti coloro a' quali avrebbesi ragione di rimproverare le debolezze della carne. Or quando la Figlia della Trinità rimbroccia di traviamento colui che merita d'esser papa ed imperatore di sè stesso, e lo rimbroccia proprio nel santuario del Paradiso terrestre, ei non può trattarsi che d'uno di que' rari falli ne' quali cadono anche gli uomini giusti e gli spiriti elevati. Qual'è il fallo rimproverato a Dante da Beatrice? quello appunto d'aver dimenticato, alla morte di lei, il suo primo e verace amore, Beatrice, la fede e la beatitudine cristiana; e d' essersi troppo abbandonato all'amor della donna pietosa o, come dice il Poeta, della pargoletta, cioè della Filosofia.

Questo nome della pargoletta, che ricorre nella ballata e nel passo sopracitato del Purgatorio, essendo sinonimo di Filosofia, è chiaro che non prova in verun modo aver voluto Dante significar con esso una giovane e gentile innamorata, per la quale abbia messo in non cale il suo antico amore per Beatrice, la figlia di Folco Portinari.

(Continua)

CIULLO D'ALCAMO

E LA SUA TENZONE

COMENTO

DI L. VIGO.

A

FRANCESCO MASSI

PROF. DI ELOQUENZA E STORIA

NELL' UNIVERSITÀ ROMANA

A SEGNO DI AMMIRAZIONE E STIMA

L. VIGO

COMENTO

Allorchè il sapiente contempla ammirato ì trionfi ottenuti dalla mente umana la mercè della luce, dell' elettrico, del vapore su gl' innumerevoli ostacoli oppostigli dalla natura, non può non retrocedere col pensiero all'età di pietra, e serbarne con venerazione i memori avanzi. Cosi quando si eleva alla meditazione della potenza e della bellezza delle sublimi e svariate creazioni de' grandi prosatori e poeti informati dall' italica favella, non potrà non risovvenirsi de' primi inconditi carmi, quand' essa ancor balbuttiva. E siffatta rimembranza riuscirebbe improduttiva, se irriverente od efimera: nè fu tale quella

degli antichi filosofi, i quali ebbero sacri i vetusti cimelii della mano e dell' intelletto dell' uomo; per cui Cicerone dolorava di essersi smarriti i canti convivali anteriori al vecchio Catone, e religiosamente venerava la effigie dell'antichità, e la prisca vetustà dell' eloquio delle XII tavole 1. Senza Pacuvio e Nevio, non avremmo Ennio, e senza costui Lucrezio e Virgilio; senza i ducentisti l'Alighieri; come senza i monumenti trogloditici e ciclopei, il Partenope, S. Pietro, Suez. E certo non può essere di gentile animo chi guata le antiche maravigliose opere artistiche, o sfoglia i volumi de' magni spiriti, senza accendersi di fervido culto per chi fu lucifero a così luminoso meriggio.

Palermo, capitale della potente e vasta monarchia siciliana, i suoi dinasti normanni, seguiti dagli svevi e meglio dall' imperatore Federico II, crearono la grande era italica, e se non riuscirono a collegare i popoli ausonii, colpa i Papi e la Francia, li dotarono almeno di lingua e letteratura nazionali. E primo documento scritto e ancora superstite di così nobile risorgimento, è la Tenzone di Ciullo d' Alcamo, tenuta meritamente in massima estimazione dagli ottimi. Nel 1858 fui astretto da municipale convenienza a dettarne estemporaneamente una parziale Disamina, che oggi elargo e tramuto in Comentario, non solo per il pregio di quel Canto, ma si pure perchè estimo potersi meglio e a preferenza di qualsiasi altro interpretare da quanti parlano e studiano dall' infanzia la parlata nella quale essa fu scritta. 2. Dal secolo XIII sinora minestrelli e giullari, copisti ed editori l'hanno lacerato abbastanza; in sei centennii, la stampa del 1856 del Nannucci è la più ingenua; egli la risanò di molte piaghe giovandosi spesso del Codice Principe Vaticano anteriore a Dante. Non possiamo gloriarci della pubblicazione fattasene in Sicilia nel Notiziario di Corte dal Gregorio, e poscia

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