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Qui invece Arnaldo dice di avere alla sua partenza lasciato un bambino di tre anni, che se vive ancora, potrà averne intorno a venti. Simigliantemente nel Gui de Bourgogne si fa durare questa medesima impresa ventisette anni, per dar tempo agli Epigoni di farsi adulti. Da questa discordanza, che si poteva togliere con assai poca fatica, appare che il nostro episodio non fu già inventato per continuare la Chanson, ma venne qui trasportato non saprei donde. Ciò peraltro dovette farsi in età remota, se noi ve lo vediamo congiunto per mezzo di certi tratti, che non potrebbero supporsi invenzione del secolo XIII. Taccio di certi versi, in cui ci si pone innanzi Gano: poichè agevolmente, potrebbero togliersi dal luogo ove sembrano stare a pigione; ma quando Arnaldo sta per partire da Nerbona, è bello udirlo dichiarare che non mentirà il vero, e rifiutare obbedienza all' imperatore, il quale gli vuole imporre di celare la catastrofe, e di rispondere una menzogna a chi, passando da Parigi, gli chiederà nuove dell'esercito :

Dites che grant çoia a l'imperer puissant.

Carlo stesso è obbligato a piegarsi, e il conte, interrogato a Parigi, svela il tradimento di Gano e la morte dei pari:

Les dames quant l'intendent font li dol si grant,
Tal mai non fu in le seigle vivant.

Queste tristi novelle gli convien poi ripetere nuovamente alla moglie ed al figlio.

A codesti segni di antichità se ne ponno aggiungere altri ancora. Come nella Chanson de Roland, così qui

Dio manda il suo messaggiero celeste a confortare Carlo

supplichevole :

Jesu li manda li angle cherubin:
Droit imperer, no te doter de rin,

Che Dio fara alquant de ton plaxin.

E qui ognuno potrà agevolmente scorgere un' assonanza, mal dissimulata dall' amanuense, che abbandonò per disperata quest' impresa in un' altra serie:

Deo ama Carlo e olde le soe voxe;
Quel çorno li manda aher et solibione,
E un aure et un si fort deluvione,
Che da mille parte faxea runer le mure.

Quand li temps est remes, françois prendent li arme,
Vient a Nerbona, entra per me le porte.

Di qui non sarebbe forse soverchio ardire il dedurre che il nostro episodio, rimato nel resto, derivi nondimeno tutto da una versione appartenente all' età in cui le assonanze tenevano ancora il luogo delle rime. E ben si noti, che il miracoloso acquisto della città, che ci richiama la caduta di Jerico, non è già un' invenzione o un'imitazione propria del nostro testo. Non solo il falso Turpino riferisce il medesimo miracolo a proposito di Pamplona, non solo Filippo Mousket e il falso Philomena, convalidati da tradizioni locali, narrano che a questo modo fu conquistata da Carlo Carcassona, ma Ramon Feraud (1) narra che Nerbona istessa venne presa grazie ad un terremoto, che fece crollare le mura; solo v'è questa differenza, che costui, com'era naturale, dà il merito della cosa al

(1) Vie de Saint Honorat.

suo santo, narrando che Carlo volgesse a lui la preghiera, e che alla sua intercessione fosse dovuto il miracolo. Da ultimo non è neppure da trascurare un altro indizio: quando Carlo, conferita la signoria ad Aimeri, si parte da Nerbona, non s'avvia già a Laon, come nei rifacimenti, ma bensì ad Aix (Asia), l'antica capitale dei Carolingii, come nel testo d' Oxford. Così l'episodio viene a trovarsi in disaccordo colla parte del romanzo che gli tien dietro.

Questa narrazione a me pare così notevole, che mi piace riportarne per saggio il luogo ove si racconta come Arnaldo e Amerigo giungessero a Nerbona f. 90, r.o:

Filz, dist li cont, inver mi intendé
Veez de Nerbona li tor et li sollé,
La est Carlo de Franza l'imperé;
Or sieç pro et saço all' acuité.
Oit i Aimerig, si 'l prist a rampogé;
Pere, dist il, no ven conven parler;
Ia hom veiardo no m' avra presenter,
Tut per mi sol e voi al roi parler.
Se davant li roi no me so apresenter,
Deo no me lassi mes corona porter,
Se de soa tera me donara a baillé.
Oit i Arnaldo, si se prese adiré:
Gloto, dist il or, vos convera fé;

Se vos non faites cum eo vos ai vanté,
Deus in Bellanda no me lassi torné,

Se de sor le spalle no ve faro li cef colpé.

Sotto la dura scorza di una forma rozzissima, si nascondono, a mio parere, in tutto questo episodio non comuni bellezze. Però non mi è rincresciuto spendere un lungo discorso a trattarne, mentre poche parole basteranno per l'ultima parte del testo.

Questa presi io a confrontare colla versione del codice settimo, e coll' altra pubblicata dal Michel. In quest'ultima essa risponde ai versi 11138-13109; non deriva peraltro nè dall' uno, nè dall' altro testo, poichè ora s' accosta maggiormente al primo, ora al secondo. Questi poi convengono tra di loro meglio che non facciano colla versione del codice quarto.

(Continua)

PIO RAJNA.

LEGGENDA

DI S. MARGARITA V. e M.

IN OTTAVA RIMA

AL CAV. PROF. ALESSANDRO D' ANCONA
STRENUO INVESTIGATORE

E PROMULGATORE

DI ANTICHE POPOLARI LEGGENDE

F. Z.
CONSACRA

AVVERTENZA

In un cod. Miscell., cognominato Quolibet, cartaceo in f., a due colonne, del sec. XV, num. 157, che si conserva nella R. Bibl. di questa città, del quale offersi una minuta descrizione dalla pag. 122 alla 136, e dalla 251 alla 272, Anno I del Propugnatore, trassi questo componimento in rima, che io credo inedito, e dettato, a quel che si pare, sul finire del sec. XIV, o circa. Letto con diligenza, sembrami che vi spicchino alcune ottave molto graziose e degne dell' approvazione dei cultori veraci della nostra letteratura e delle antiche tradizioni popolari, sulle quali a' di nostri molti valentuomini fanno studii profondi, dimostrandone la utilità storica e letteraria, e profferendone al pubblico diversi esemplari. Onde come quelli furono bene accolti, così per la stessa ragione mi confido avverrà del presente, che, a parer mio, non dissomiglia loro gran fatto.

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