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DELLE CARTE DI ARBOREA

E DELLE POESIE VOLGARI IN ESSE CONTENUTE

ESAME CRITICO

DI GIROLAMO VITELLI

PRECEDUTO DA UNA LETTERA

DI ALESSANDRO D'ANCONA

A

PAUL MEYER

II. (1)

Se ad onta di quello che già osservammo nella prima parte di questo scritto, voglia tuttavia il lettore tenere per sinceri i nuovi documenti sardi e quelli che ad essi strettamente si congiungono, benchè venuti fuori in altra parte d'Italia, e' dovrà anche rassegnarsi ad ammettere:

» 1.° Che gl' Italiani ebbero una letteratura, in con» trario a quanto fu asserito sinora, anteriore alla pro» venzale, e perció indipendente da essa;

» 2.° Che nel sec. XIII la poesia delle lingue d'oc » e d'oïl infiacchi e corruppe l'italiana per guisa da ren» dere i poeti di quel tempo di molto inferiori per me» rito a quelli del secolo precedente;

» 3. Che gli antichissimi poeti d'Italia non scris» sero soltanto, come è comune opinione, versi amorosi;

(1) V. Propugnatore, Luglio-Ottobre 1870, p. 265-322.

» 4. Che in Firenze cento anni prima della nascita >> di Federico di Svevia v'era una fiorente scuola di » poetica letteratura; »

5. Che finalmente al tempo di quegli antichissimi poeti erasi già formata la così detta lingua comune italiana (1).

(1) Le prime quattro deduzioni sono ammesse e frequentemente ripetute da' sostenitori dell' autenticità delle carte sarde (V. Baudi, passim, Guasti, op. cit. p. 2, Giozza, p. 38); che poi, ammessa la sincerità delle carte arboreesi, debba anche necessariamente ammettersi l'esistenza di una lingua comune italiana bella e formata nel XII secolo, è opinione sostenuta ripetutamente dal sig. Baudi, e basta riportar qualche brano de' supposti antichi poeti per provarlo.

p. 51:

Bruno de Thoro, cagliaritano (1110-1206) in Martini App. << Da quel di che con più giocondo viso Ascoltasti pietosa lo meo orare, E temprando le labia a dolce riso L'alma di gioj' mi festi inebriare, Tale allegranza pari a paradiso, Ch' altra quaggiù non evvi a pareggiare In me dimora ognor, e piue l'aviso Se tue bellezze intendo più a membrare etc. ».

Lanfranco de Bolasco, genovese (morto poco dopo il 1162) in Martini, p. 489: - «Onde trovar piacere Nel vostro orto verduto entrai, Siguore: Che mi fu certo a cuore Fiori galdenti e alberi giojosi, E di frutti gustosi, Di grande valimento e di dolciore, Non fur certo si cari, Nè galdenti e gradivi, a meo viso, Quelli del paradiso etc. ». Aldobrando da Siena (1112-1186) in Martini, App. p. 170:

« Venti e più vidi giovane giojose In dilettoso e bel giardino ameno, Ove, poi colte le vermiglie rose Ed altri fiori, ne abbellavan seno; Poi con dolci canzoni ed amorose Rendean quel loco d' allegranza pieno etc. ».

Aggiungerò anche il madrigale ormai notissimo del grandi homine romano, che sarebbe del 1127, come giustamente osserva il sig. Baudi, e non del 1227, come erroneamente troviamo scritto nel memoriale di Comita de Orru. << Ahi! disventura, la fedel Corinta, Bella qual rosa inver giardin piacente, Ch' a li chiari occhi suoi diceasi vinta La luna risplendente, Morbo fatal da lo meo sen divise, E lo meo cor conquise. Ahi, pietosi pastori, al pianto meo Lo vostro pure unite, E mesti a piè di questo marmo dite De le ninfe l'onor, ahi destin reo! Lo nostro amore, qui Corinta giace; Possa gauder fra li astri eternal pace>.

Giorgio di Lacon nella sua lettera al nipote Pietro, per primo ci dice qualche cosa di un Bruno de Thoro autore «<italicorum carminum » (Racc. p. 147). Vennero quindi altri schiarimenti e altre poesie, come soleva avverarsi via via per tutte le altre carte arboreesi (vedi Perg. III p. 130138; Foglio cartac. VIII p. 489-95; cod. cartac. VI etc. etc.). Così si ebbero anche notizie di un Lanfranco de Bolasco genovese, e si trovò anche un frammento di prosa e poesia italiana dovuto a penna sarda del XII secolo, e probabilmente ad Elena, una delle tre figlie di Gennario d' Arboréa (1). In Italia però non si fece gran caso di questo; ma la Fortuna volle confermare solennemente la sincerità di tutta la farraggine dei codici sardi. Essa ebbe dunque l'ingegnosa idea di far capitare in mano d'un palermitano due codici di antiche poesie italiane. Questo palermitano, al quale dovremmo appropriare un epiteto che non sarebbe quello di galantuomo (2), li avrebbe trovati in luogo di cui non ci dà notizia (3) durante i trambusti del 1860, e, ad onta della sua ignoranza, avendo

Se è vero che per far la critica di antichi monumenti letterari, fa bisogno più che altro di un certo sentimento storico dell' età cui si vorrebbero riportare, dovrà ammettersi che i sostenitori della sincerità delle carte d'Arborèa, a' quali non dà punto sospetto un madrigale con le ninfe e i pastori nel XII secolo (e sia pure nel XIII), intendano la critica un po' troppo a modo loro.

(1) Come di questi, si ebbero anche notizie di sardi meno antichi poetanti in lingua italiana, del qual numero sono Torbeno Falliti, Gavino Chelo, Francesco Carau, Michele Conco, Gavino Gambela, Arnosio vescovo di Ploaghe, Antonio Pira etc. (V. Martini, Introduz. parte V ).

(2) Non esito a pronunziare siffatto giudizio sull'anonimo palermitano, perchè non credo si trovi veramente fra quanti mangiano, bevono e vestono panni in Sicilia.

(3) Ognuno ricorderà come le carte del Manca abbiano anche esse la stessa origine misteriosa.

potuto leggere il nome di Firenze nell' uno e di Siena nell' altro, pensò di mandare l'uno al gonfaloniere di Firenze e l'altro a quello di Siena con lettera anonima in cui diceva: «essergli sembrato che restituire i versi di » antichi poeti (alle città cui appartenevano) sarebbe atto » di giustizia e al tempo stesso di riconoscenza verso i » generosi fratelli italiani che con tanto sacrificio opera» rono la redenzione della patria ». Aggiungeva poi come lo avesse spinto a mandarli il desiderio di saperne il contenuto, e perciò esortava con notevole insistenza a darne qualche notizia ne' pubblici diarii.

Certo è qui da ammirare nuovamente il saggio procedere della Fortuna la quale, ne' trambusti della rivoluzione palermitana, fece capitare queste preziose carte in mano appunto di chi non era tanto ignorante da gettarle al fuoco, o venderle al pizzicagnolo, nè così poco dotto da non prevedere (sebbene e' non sapesse leggervi dentro) che la loro vera sede doveva essere in Siena ed in Firenze. Nè per un pezzo si fece motto di queste carte; chè non era impresa da pigliarsi a gabbo quella d' intenderci qualche cosa. Finalmente Adolfo Bartoli, nella prefazione a' viaggi di Marco Polo, fè menzione del codice fiorentino, ne pubblicò un sonetto, e congetturò che l'autore Aldobrando, dovesse farsi discendere un secolo più giù della data fornita dal codice. Intanto il 28 Giugno 1865 il Manca vendeva al Martini due nuovi codici, di cui già qualche tempo prima gli aveva dato contezza (App. p. 115 segg.); e il 22 Agosto dello stesso anno il Martini inviava una lettera al Comm. Zambrini, facendo noto per tal modo che in uno de' due codici acquistati si contenevano più o meno le stesse materie del codice fiorentino e se ne confermavano le date. Letta la lettera del Martini, il Grottanelli, bibliotecario di Siena, gli scrisse, annunziandogli che un codice dello stesso genere del fio

rentino e del cagliaritano trovavasi nella sua biblioteca fin dal 1862, anno in cui eravi stato mandato dall'anonimo palermitano.

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Il lettore ricorderà che anche per le carte slave di Boemia trovammo che, come dice il Paris, « un manuscrit fut mysterieusement envoyé au Museum national de Prague e che in un foglio di pergamena trovato nella biblioteca di quello stesso Museo si conteneva un piccolo poema epico-lirico, « qui se trouva aussi dans le ms. de Königinhof ». Questi non sono certo argomenti, ma analogie molto significative: nè è senza importanza il vedere come due raccolte di carte egualmente sospette, sien venute a luce in tanta distanza di luoghi e di tempi, colla stessa particolarità di casi concomitanti. Analogia perfetta troviamo anche tra la scoperta dei codici sardi e quella de' codici fiorentino e sanese. Quelli mette fuori il Manca, nè ci dà notizie precise della loro provenienza, forse (dicono i credenti) perchè non ne era affatto legittimo possessore colui che glieli aveva affidati; questi, li manda un palermitano che scrive soltanto una lettera anonima, forse perchè........ non erano roba sua: sicchè gli uni e gli altri hanno la stessa macchia, quella del peccato d'origine, che se può tanto sulla specie umana, non è verisimile non abbia punto valore trattandosi di opere della mano dell'uomo.

Oltredichè tanto ne' codici sardi quanto ne' toscani, se diamo un'occhiata alle indicazioni della loro origine, troveremo conformità certo non insignificanti. I codici arboreesi sarebbero roba degli archivii di Oristano, dove una serie di principi dotti e amanti di cronache e di versi nel XIV e XV secolo li avrebbero fatto raccogliere; i codici toscani dovremmo ripeterli da un vicerè e da un tesoriere di Sicilia. Così negli uni come negli altri le indicazioni della provenienza son fatte con la stessa precisione e con le stesse solite formule; e l'esattezza

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