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RINALDO DA MONTALBANO

(V. la pag. 213 Vol. III Part. 1.a Continuazione e fine)

III.

L'autore comincia il secondo libro con una osservazione, che mostra in lui la pretesa di filosofare: «Per le nuove apparenze e dimostrazioni che la fortuna fece, si può conoscere alcuna volta essere grande differenza della nostra natural vita, cioè nell' essere uno nato sotto la stella di pace, e un altro sotto la stella di guerra, come fue Rinaldo, a cui la fortuna sempre apparecchiava guerra ». Pertanto erano appena scorsi due mesi dal suo ritorno, e già i maganzesi si ristringevano insieme per trovar modo a farlo morire. Un giorno egli sta giuocando a scacchi con Bertolagi, che è cugino di Gano e uno dei congiurati alla sua morte; costui prende dal giuoco occasione di contesa e mette mano al coltello, ma Rinaldo, più pronto, lo percuote sul capo collo scacchiere e lo fa stramazzare privo di vita. Si leva il romore: il Chiaramontese si difende da prode, e in suo aiuto accorrono i fratelli. Carlo, offeso da certe parole, ordina che tutti sieno presi; ma ad essi vien fatto di ricoverarsi nel palagio di Orlando, e poscia di uscir salvi da Parigi, mentre l'imperatore li mette al bando

della cristianità, vietando ad ognuno, e perfino ad Amone, di soccorrerli in niuna maniera, pena la vita.

I quattro fratelli vanno a Dordona alla madre, la quale, suo malgrado, è costretta dai messaggi di Carlo e di Amone a rinviarli. Essi allora si ricoverano sulla selva di Dardenna, e quivi sopra un monte, presso il fiume Musso (Mosa), fabbricano il castello di Montesoro, dove conducono molta gente ad abitare. Nella Pasqua di Pentecoste un messo, per opera di Gano, viene ad accusarli di continue ruberie dinanzi all' imperatore, il quale pertanto, seguito dai suoi baroni, eccettuatine Orlando, Ulivieri ed Astolfo, muove ad assediarli. Il conte Rinieri, che scorta le salmerie, scostatosi dall' esercito, è assalito da Ricciardetto, che fa grande bottino, e conquista buon numero di prigioni.

Molti baroni consigliano l'accordo, e Carlo, fingendo consentire, a istigazione di Gano manda per il Danese e per Namo a invitare a parlamento Rinaldo e Ricciardetto, con pensiero di ucciderli: ma come essi non si fidano, stringe il castello. Nondimeno Amone permette talvolta ai figliuoli l'uscita, la qual cosa, rapportata da Gano all'imperatore, muove questi a far giurare al duca mortale nimicizia contro il suo sangue. Rinaldo allora esce una mattina e si spinge fin dentro al padiglione imperiale, affine di trucidare Carlo; ma non ve lo trovando, è costretto a sostenere insieme coi fratelli una cruda battaglia, nella quale si scontra col padre istesso. Tuttavia riesce a ritrarsi salvo nella rocca, dove per ben tredici mesi regge allo sforzo nemico. Da ultimo un traditore, Rinieri di Losanna, stretto un segreto accordo coll' imperatore, si fa accettare nel castello, fingendosi cacciato dal campo, e nottetempo, messo il fuoco agli edifici, apre le porte a trecento nemici. Ma la fortuna ajuta i fratelli, che uccidono costoro e squartano Rinieri; pure, l'essere distrutte dal fuoco tutte le vettovaglie li co

stringe a fuggire per una via celata. Inseguiti, combattono; tre di loro perdono i cavalli; allora montano tutti in groppa a Bajardo e si salvano per la selva, dove vivono a guisa di ladroni, eludendo le genti mandatevi dall'imperatore, tornato a Parigi, dopo avere smantellato Montesoro. Qualche tempo appresso Amone, andando con due mila dei suoi verso le sue terre, passa per la selva Ardenna, e vi trova addormentati i figliuoli con certi compagni. Non li volendo uccidere a tradimento, li sfida, e quindi combatte con essi. Dopo fiera zuffa Rinaldo e i fratelli si fuggono, e rimasti alcun tempo in quelle parti, si ritraggono nella Guascogna, mentre Amone, recatosi a Parigi, e rimproverato aspramente da Carlo dell' aver lasciato scampare i figliuoli, si parte di nascosto, giurando nimicizia alla corona.

Dalla Guascogna tornano quindi i banditi alla selva Ardenna, e vi soffrono nel verno le maggiori durezze. Tornata la primavera, determinano di andare per soccorso alla madre e di uccidere il padre, se ancora persevera a volere la loro morte. Venuti a Dordona, penetrano nel palagio, e da niuno riconosciuti, si pongono nella sala a sedere. Poco stante soppravviene la madre, la quale da principio non li ravvisa pur essa, tanto li ha sfigurati la vita selvaggia; ma poi dopo varî discorsi, riconosciuto Rinaldo da una cicatrice, li abbraccia e bacia con molte lagrime e si studia riconfortarli. Ma non va molto, ecco ritornare dalla caccia Amone, che vedendo i figliuoli, dice loro villania, sebbene la moglie si sforzi d'impietosirlo. L'animo fiero del padre e di Rinaldo per poco non è cagione di qualche orribile fatto; pure alla fine Amone si rammollisce, e per offendere il meno che può la fede data a Carlo, si parte dal castello e si trasferisce ad una sua dimora, non lungi a Dordona. Rimastovi otto giorni, si torna, e fa che i banditi, abbondantemente provvisti in

questo frattempo d'oro, vesti e compagni, si partano di qui. Quando appunto stanno per andarsene, ecco sopravvenire Malagigi con quattro some d'oro, da lui rubate all'imperatore per soccorrere la loro povertà. Il ladrone insieme coi cugini si reca allora in Guascogna dove offre i servigi della franca brigata ad Ivone, re di Bordella, assediato dal re Mambriño d' Ulivante, passato in Francia per vendicare Brunalmonte e Gostantino, suoi fratelli. Ivone, pur temendo di Carlo, per paura che si prodi cavalieri s'acconcino col nemico, accetta la proposta. E presto hassene a chiamar lieto: i Chiaramontesi gli rendono segnalati servigi, tantochè Beatrice, di lui figlia, invaghisce delle virtù di Rinaldo, cui il padre la promette in isposa, se Carlo lo ribandisce. Ma un giorno, mentre la fanciulla si sollazza ad un giardino fuori della terra, Mambrino la rapisce, e il di lei scampo è tutto merito di Rinaldo e dei fratelli. Alla fine Carlo istesso viene con un esercito a recare soccorso, ma oltremodo s' adira, quando ha notizia del ricovero dato agli sbanditi. Questi allora si partono e si vanno a porre sopra un monte vicino, aspettando opportune occasioni. Ben presto cristiani e saracini s'azzuffano fieramente, e Carlo viene in gravissimo pericolo; Rinaldo allora si muove coi suoi, rinfresca il combattimento, dà Bajardo all' imperatore, che si trovava scavalcato, e da ultimo, venuto a duello con Mambrino, lo uccide. Così la vittoria rimane ai cristiani e Carlo riceve nuovamente in grazia Rinaldo e i fratelli, i quali fanno pace coi Maganzesi, e si sentono chiedere perdono da Gano. Poco stante, mentre l'imperatore si riposa in Bordella, Rinaldo, essendo con Malagigi a cacciare, giunge a un poggio in vista della terra e vicino alla Gironda, e s' invoglia di fabbricarvi un castello. Ivone, pregatone, concede il paese, e Carlo dà la sua licenza; del che poi tosto si pente, allorchè viene a sapere come in quel medesimo luogo sorgesse già prima un'al

tra rocca, che Pipino aveva dovuto disfare con grande stento. Ma senz' altro aspettare, per non dar tempo ai pentimenti, Rinaldo si parte la notte con Malagigi, il quale per forza di demonii fa innalzare un fortissimo castello, a cui sarà poi dato nome di Montalbano. La mattina Carlo ed Ivone veggono con somma meraviglia questa novità; ma non essendovi omai riparo, consentono, invitati da Rinaldo, a recarsi al castello colla baronia. Malagigi si prende cura del desinare, che si compone di trentasei vivande, tolte per arte alle mense del soldano, del Papa e di altri principi. Tornatasi poi la brigata a Bordella, Rinaldo vi sposa la bella Beatrice, dalla quale egli avrà due figliuoli, Amonetto e Ivonetto.

Tale è la fine del secondo libro, l'ultimo della storia in prosa di Rinaldo, a cui si possa assegnare un' origine antica; gli altri tutti e sono parecchi sono intieramente invenzione italiana. Ma invero le simiglianze di questo libro secondo col testo francese sono così prossime e continue, che se noi non avessimo la versione in rima, la quale ci porrà sulla buona strada, ci lasceremmo di leggieri condurre a induzioni contrarie alla verità; poichè notando la somma diversità che passa tra i due libri, derivato il primo da fonti molteplici, il secondo da una sola, questo pieno di casi avventurosi, quello fedele alla tradizione, di leggieri c' indurremmo a ritenere l'autore della prosa un compilatore, che componesse insieme quanto attingeva di qua e di là, e aggiungesse molto di sua invenzione. Eppure, o io m' inganno a partito, o le cose stanno ben diversamente: mi si permetta dunque di indugiare ancora qualche poco la questione dell'origine, e di starmi pago per ora di porre in mostra le differenze della versione in prosa e del testo francese.

Cotali differenze sono la più parte di poco momento, mentre d'ordinario v' ha un meraviglioso accordo an

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