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SONETTO XXXVI.

S'ella non fosse morta sì giovane, e' avria cantato più degnamente le lodi di lei.

Mentre che 'l cor dagli amorosi vermi

Fu consumato, e 'n fiamma amorosa arse;
Di vaga fera le vestigia sparse
Cercai per poggi solitarj, ed ermi;

Ed ebbi ardir, cantando, di dolermi

D' Amor, di lei, che sì dura m'

apparse: Ma l'ingegno, e le rime erano scarse In quella etate a' pensier novi, e'nfermi.

Quel foco è morto, e 'l copre un picciol marmo:
Che se col tempo fosse ito avanzando,
Come già in altri, infino alla vecchiezza;

Di rime armato, ond'oggi mi disarmo,
Con stil canuto avrei fatto, parlando,
Romper le pietre, e pianger di dolcezza.

Tom. II.

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SONETTO XXXVII.

La prega, che almen di lassù gli rivolga tranquillo e pietoso lo sguardo.

Anima

Anima bella, da quel nodo sciolta,

Che più bel mai non seppe ordir Natura;
Pon dal ciel mente alla mia vita oscura
Da si lieti pensieri a pianger volta.

La falsa opinion dal cor s'è tolta,

Che mi fece alcun tempo acerba e dura
Tua dolce vista: omai tutta secura

Volgi a me gli occhi, e i miei sospiri ascolta.

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Mira' gran sasso donde Sorga nasce;

E vedravi un, che sol tra l'erbe e l'acque,
Di tua memoria, e di dolor si pasce.

Ove giace 'l tuo albergo, e dove nacque
Il nostro amor, vo', ch'abbandoni e lasce,
Per non veder. ne' tuoi quel, ch'a te spiacque.

SONETTO XXXVIII.

Dolente, la cerca; e non trovandola, conchiude esser ella dunque salita al Cielo.

Quel

uel Sol, che mi mostrava il cammin destro Di gire al Ciel con gloriosi passi;

Tornando al sommo Sole, in pochi sassi Chiuse 'l mio lume, e 'l suo carcer terrestro:

Ond' io son fatto un animal silvestro,

Che co' piè vaghi, solitarj, e lassi

Porto 'l cor grave, e gli occhi umidi e bassi Al mondo, ch'è per me un deserto alpestro.

Così vo ricercando ogni contrada

Ov'io la vidi; e sol tu, che m'affligi,
Amor, vien meco, e mostrimi, ond' io vada.

Lei non trov' 10; ma suoi santi vestigi,
Tutti rivolti alla superna strada,

Veggio lunge da' laghi Averni e Stigi.

SONETTO XXXIX.

Ella era sì bella, ch'ei si reputa indegno di averla veduta, non che di lodarla.

I.

o pensava assai destro esser sul' ale,
Non per lor forza, ma di chi le spiega,
Per gir, cantando, a quel bel nodo eguale
Onde Morte m' assolve, Amor mi lega:

Trovaimi all' opra via più lento e frale
D'un picciol ramo, cui gran fascio piega;
E dissi: A cader va chi troppo sale;
Nè si fa ben per uom quel, che 'l Ciel nega.

Mai non poria volar penna. d' ingegno,

Non che stil grave, o lingua, ove Natura
Volò tessendo il mio dolce ritegno:

Seguilla Amor con sì mirabil cura
In adornarlo, ch' i' non era degno
Pur della vista; ma fu mia ventura.

SONETTO XL.

Tentò di pinger le bellezze di lei, ma non ardisce di farlo delle virtù.

Quella,

, per cui con Sorga ho cangiat' Arno, Con franca povertà serve ricchezze;

Volse in amaro sue sante dolcezze,

Ond' io già vissi; or me ne struggo, e scarno.

Da poi, più volte ho riprovato indarno
Al secol, che verrà, l'alte bellezze
Pinger cantando, acciocchè l' ame, e prezze;
Nè col mio stile il suo bel viso incarno.

Le lode mai non d'altra, e proprie sue,
Che 'n lei fur, come stelle in cielo, sparte,
Pur ardisco ombreggiar or una, or due:

Ma poi ch''i giungo alla divina parte,
Ch' un chiaro e breve Sole al mondo fue;
Ivi manca l'ardir, l' ingegno e l'arte.

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