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La bizzarra contaminazione dei due testi prosegue nei fogli che seguono, e non s'arresta se non col termine della Catilinaria; solo è da notare che Bartolomeo da San Concordio viene d'ordinario preferito, come più completo, ai Fait. Dal punto ove siamo giunti, la Catilinaria è seguita sin quasi al fine del suo primo capitolo; qui vengono ripresi per un momento i Fait, ma non per molto:

«... e tanto più in ciò mi fermai, quant' io potea sicuramente dire, sentendomi l'animo libero da speranza e da paura e di ricontare dela congiurazione cioè del tradimento di Catelina tanto verissima mente quanto più potroe in brievi parole; perciò che quello fatto estimo e giudico inprima ricordevole per novità di grande fallo e di pericoloso. Ma inprima comincieremo nostro conto principalmente a Giulio Ciesare, e fineremo i[1]libro a Domiciano, che fue il duode

l'ame a en soi l'ymage et la semblance de Dieu, et li cors est plus communs a bestial foibleté. Et pour ice, qui veut aquerre gloire, il la doit plus covoitier par richesce de sens et d'enging que par richesce de force et d'avoir. La vie de l'ome est bries, mès vertuz, resons et engins fet longue la memoire de l'ome après la mort, car la gloire de biauté et de richesce est frelle et tost trespassée.

Granz estrivemens fu entre les enciens pour savoir comment chevalerie pooit estre essauciée, ou par force de cors ou par vertu ou par sens de cuer. Car avant que l'en face la chose doit l'en conseil prendre; après le conseil doit suivre le fet. Ne vaut donques riens conseil sanz œuvre, ne œuvre sanz conseil. Pour ce aŭsoient li un des enciens leur enging, li autre aŭsoient leur force, que l'en s'aperceüst que sens et enging pooit mout profiter es batailles avoec la force, puis icele heure que li roi commencierent a esmou

vertù è posta nell'animo e nel corpo; l'animo per comandare, il corpo per servire più principalmente usiamo e usar dovemo. L'uno, cioè l'animo, con lí Dii, l'altro, cioè il corpo, con le bestie avemo comunale. Per la qual cosa a me più diritto pare per istudio d'ingegno d'animo, che di forze di corpo, addomandare gloria e cercare onore; e in questo modo, per cagione che la vita è brieve, la memoria di noi distendere e rallungare. Perciocché gloria e onore di ricchezza e di bellezza è mutevole e fragile; la virtù è famosa e tesoro eternale.

Ma di questo fue lungo tempo fra gli uomini grande questione, se per forza di corpo, o per vertù d'animo li fatti cavallereschi più e maggiormente andassono innanzi. Perché anzi che si comincino e' fatti è mestieri 'I buon consigliamento, e poiché 'l consiglio è preso, si è sbrigatamente mestieri 'l fatto; e cosi e l'uno e l'altro insufficiente per sé, l'uno dell'altro ha bisogno. Dunque al cominciamento i re, perciocché in terra questo fue primo nome di signoria, alcuni di loro studiavano e adoperavano in loro e

cimo inperadore, e ci metteremo molte persone ch'ebero diverse dingnità i [r]Roma al tenpo de' XII inperadori, donde Giulio fue il primaio e inanzi. E per meglio continuare nostra materia, noi conteremo tutto inanzi primiera mente de' costumi dela città di Roma e degli ordinamenti e statuti de' nostri magiori, cioè degli antichi, in che modo egli governavano il comune e in citade e in oste, e come copioso lo lasciaro e come a poco a poco sia mutato, da bellisimo e ottimo sia divenuto reissimo e pistolenzioso »> (1).

Tutta la rubrica seguente « Come la città di Roma si fecie e chi fuoro quelli che la feciero e abitaro inprima » è il cap. VI di Sallustio; ma il compilatore non poteva omettere le preziose notizie che si contenevano, circa l'origine

voir guerres premierement pour achoison de leurs seingnories acroistre, car ainz que les guerres commençassent, li home estoient sanz covoitise, et souffisoit a chascun ce qu'il avoit. Lors [se] estudioit chascun[s] plus volentiers en son enging aŭser en sens que en amonceler richesces, que nus hom n'a fors a prest. Ainsint lo tesmoingne Cycero, qui dist: « Ce qui me puet estre tolu n'est pas moie chose ». Des ore més n'entent nus fors a conquerre avoir. Li un aiment mieux peresce que travail et li autre plus uxure que continence ne que droiture. Mout y a de cenx qui ne querent ne mès que mengier et boire et dormir et acisier les cors; des ames ne leur chaut. Cil ne puent pas monter en grant pris...

(1) F. 88 a.

in lor gente lo ingegno, e alcuni altri il corpo. E infino a quel tempo senza avarizia e desiderio vivevano, e le sue cose propie a ciascuno piaceano e contentavano assai. Ma poiché in Asia il re Ciro, in Grecia li Laciedemoni e li Ateniesi cominciarono a conquistare e sottomettere cittadi e gente; e ad avere cagione di guerra e di battaglia la grande voglia del signoreggiare; e a credere che somma gloria fosse in avere grandissima signoria, allora finalmente per pericoli e altri fatti fu trovato e veduto che in guerra e in battaglia molto puote e vale ingegno. E se la vertù dell'animo de' re e de' signori, come s'ingegua e si sforza di valere nel tempo delle brighe, così facesse in tempo di pace, piu chetamente e più fermamente starebbono gli stati umani: né non vedresti altro stato ad altri andare, né così mutare, né mischiare tutte cose; perciocché la signoria agevolmente si ritiene con quelle arti, per le quali al cominciamento fu acquistata. Ma poi ché in luogo di faticare viene la pigrizia e in luogo di contenenzia e di drittura vengono i disordinati desiderî, lussuria e superbia, allora la ventura insieme co' costumi si rimuta.

Come si vede, si ha qui la fine del Prologo, riportato dal Meyer,

e poi si ritorna, coll'ultimo periodo, a frà Bartolomeo.

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e le cariche di Roma, nel proemio dei Fait, ed inserì anche queste, subito dopo, nelle rubriche IV e V: « Chi fuoro i governatori della città di Roma al cominciamento e che ufici aveano » (1) e « Come i Romani ordinaro .ij. singniori i [r] Roma apresso la sengnioria de' re e chiamarsi consoli » (2), le quali del resto molto devono anche a frà Bartolomeo, e nella sesta « Come i Romani chiamarono dittatori » (3), nella quale sono poi inseriti da capo a fondo i capp. V-VIII della Catilinaria tradotta.

Il fine di questa rubrica ci annunzia che si ritorna a parlare di Giulio Cesare, cioè ai Fait, e difatti segue il racconto della nascita di lui, secondo trovasi nel cap. II della stampa del Banchi, sebbene più ampio: continua poi la contaminazione, inserendo, oltre a periodi singoli, il cap. IX di frà Bartolomeo, tra il detto racconto e quello in cui si narra della prima cavalleria di Cesare, cioè della sua andata in Asia, col pretore Marco Termo (4).

E così, come dicemmo, si continua per tutto il tratto che nel nostro cod. comprende la congiura di Catilina, mescolando e completando l'una opera coll' altra, con una scrupolosa cura di non perdere nulla di nessuna delle due. Più curioso è che il compilatore non si contenta affatto dei due autori fin qui seguiti e procedendo ci abbattiamo in nuovi imprestiti, ove essi non hanno nulla a vedere. Il primo è al f. 97 b, dove Catilina, chiamato in Senato per discolparsi, non dubita di recarvisi e Cicerone, mosso dalla sua audacia, lo assale con veementi parole:

Alora Marco Tulio Ciecierone consolo (o) per paura dela grandeza di Catelina dimorava di non abandonarsi di fare di lui quella giustizia che ssi convenia al suo misfatto, ma pure disiderava di caciarlo fuori di Roma. Ma vegiendolo venire uno die nel consiglio del Sanato, il quale iera

(1) F. 88 b.

(2) F. 88 c.

(3) Ibid. Tutto ciò è compreso nel cap. II della stampa. (4) F. 90 b. Il cod. Marcus Ternius.

ragunato per udire la scusa di Catelina dela richiesta che gli era fatta, o per paura dela presenza di Catelina overo per ira comosso e che cruciato iera, perché il Comune iera in pericolo, il detto Marco Tulio Ciecerone fecie una molto bella dicieria e molto utile ala Republica; la quale elli poi formò e recò in iscritto, donde tutti si ne maravigliarono. La quale dicieria no mise Salustio in suo libro, però che no volea bene a Marco (1) Tulio Ciecierone (2), e però metteremo noi qui la detta dicieria, sicome Marco Tulio disse e parlò contro a Catelina, dinanzi al Sanato e a più altra giente che ragunata v'era... (3).

pur

« Quanto tempo, Catelina, t' ai tu posto in cuore d'usare male la tua vita incontro ala nostra paciefica sofferenza? E quanto tenpo farà beffe di noi la tua grande crudeltà? E a che fine dee venire il tuo isfrenato ardimento?... ».

E dunque inserita la prima orazione di Cicerone contro Catilina, secondo un antico volgarizzamento, che, come si vede, risale ben alto (4): essa finisce al f. 100 d, con queste parole:

...

« e tutti coloro che sono nimici de' buoni uomini e rubatori d'Italia e intra lloro ánno fatta felonesca compangnia di tutte perfide e crudeli opere, manterà vivi e morti con eternale tormento ».

Dopo la risposta che alla violenta invettiva di Cicerone fa Catilina e dopo il suo prorompere con minacciose pa

(1) F. 97 c.

(2) Sulla leggendaria inimicizia tra Sallustio e Cicerone vedi GRAF, op. cit., II, 267 e nota.

(3) Segue la rubrica, che tralascio.

(4) Non è quello attribuito a Brunetto Latini. Entrambi si possono vedere editi dal REZZI, Le tre orazioni di Marco Tullio Cicerone, dette dinanzi a Cesare, per M. Marcello, L. Ligario e il re Deiotaro, volgarizzate da Brunetto Latini... giuntovi due volgarizzamenti della prima orazione detta da Tullio contro Catilina, fatti nel buon secolo della lingua..., Milano, 1832. Il volgarizzamento inserito nel nostro cod. trovasi a pp. 115 — 137, comprendendovi il breve prologo ed una sconclusionata giunta in fine. Dell'uno e dell'altro testo v'è qualche ristampa posteriore: citerò quella che trovasi negli Opuscoli di Cicerone volgarizzati nel buon secolo della lingua Toscana, Imola, Galeati, 1850. In questo stesso capitolo, § 2, vedremo che in parecchi codd. dei Fatti a stampa venne inscrito il volgarizzamento che si vuole dal Latini.

role dalla Curia, si può dire che per un lungo tratto frà Bartolomeo sia adoperato esclusivamente, vale a dire dal f. 101 a, al f. 106 d, dove finisce l'orazione pronunziata da Cesare in Senato in favore dei congiurati. Ma eccoci ad una nuova interpolazione:

<< Poi che Ciesare ebe fatto fine al suo dire, molti s'acordavano al suo detto, e altri al detto di Decio Silano. Ma questa dicieria di Ciesari trovamo noi per altri traslatatori più brieve mente iscritta, ma pur (1) tutto ciò contiene in questo modo. Ma perché in questi tenpi sono tenute le dicierie brievi più belle che quelle che contengnono troppe parole, si lla iscriveremo quie apresso, sicome maestro Brunetto Latini di Firenze la traslatò di gramatica in volgare (2). « Ancora come Giulio Ciesare parla per li congiurati per parole dorate.

«< Sengniori padri scritti, tutti quelli che vogliono dare diritto consiglio nele cose dubiose, no deono guardare nè a ira nè a odio, nè [a] amore nè a pietade; ché queste .iiij. cose possono fare a l'uomo lasciare la via di dirittura e di ragione, e disviare da diritto giudicamento. Senno non vale niente là ove l'uomo vuole del tutto conpiere la volontà sua... >>

Finita l'orazione di Cesare e osservato che « quasi tutto il Sanato s'acostava a la sua sentenzia e altri al detto altrui isvariata mente », parole nelle quali riconosciamo di nuovo frà Bartolomeo, l'amanuense, che non vuol così presto staccarsi dal Tesoro di Brunetto, inserisce, sotto la rubrica XXXVI Come Ciesare parlò secondo rettorica nella dicieria», anche il paragrafo seguente (3), quasi per intero:

« Sopra questa sentenzia potete voi intendere che 'l primo parlatore, ciò fue Decio Sillano, si ne passoe brieve mente con poche parole, sanza prolago e sanza covertura niuna, perciò che sua materia iera di cosa (dis)unesta, sicome di

(1) Il cod. per

(2) F. 107 a.

(3) § 3 del lib. III, part. I, cap. XXXVI.

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