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di Cesare, sì si avvelenò ». Neppur questo tratto sull'avvelenamento di Catone può, secondo accennammo già altrove (1), riguardarsi come un indizio di provenienza francese (2).

Del resto, oltre il Lana, parecchi de' più antichi commentatori della Commedia adoperano Lucano, citandolo an

(1) Pag. 247 e nota. Il Lana anche altrove, ad Inf. XIV, v. 14: « [Catone assediato in un castello] veggendo che non potea scampare, prese veneno e morio». PIETRO DI DANTE stesso, nel suo Commentarium edito dal Nannucci, Firenze, 1845, dice di Catone che « amore libertatis, in Barbaria in civitate Uticensi se venenavit ». Aggiunge, citando S. Agostino, che ai figliuoli persuase l'opposto, motivo anche questo assai diffuso e che è pur ricordato dal Falso Boccaccio e dall'Anonimo Fiorentino: cfr. qui p. 247. Contro il supposto avvelenamento di Catone, vedi invece il commento di BENVENUTO DA IMOLA (ediz. TAMBURINI, Imola, 1855), p. 30. Il Liber ystoriarum Romanorum ha: « Cato devictus, antidoto se sponte peremit», cod. cit., f. 69 r. Una curiosa notizia intorno a Catone è data dal FALSO BOCCACCIO (Chiose sopra Dante, testo inedito ora per la prima volta pubblicato, Firenze, 1846; edit. lord Vernon), p. 289, secondo il quale Catone era amico di Pompeo e nemicissimo di Cesare per una ghotata che ciesare gli avea dato ».

(2) Del Lana si possono ricordare alcune altre curiose notizie, che non concordano tutte col tratto poc' anzi esaminato. Così ad Inf., IV, 128, narra che Pompeo con l'aiutorio de' gentili di Roma tolsero la terra a Julio Cesare in questo modo: ch'essendo cavalcato fuori di Roma Julio con molta gente, elli li serraron drieto le porte», di che nacque grande battaglia come testimone è citato Lucano. Cfr. qui p. 271 e nota. Ad Purg., XVIII, 101-2, Ilerda è posta in Inghilterra e certo la nota tutta non è che una spiegazione del passo, inteso male. Ibid. XXVI, 76, si trova un curioso aneddoto su Nicomede e Cesare: il primo chiamato a Roma, piace troppo all'imperatore, il quale « pensò di volerlo stuprare; mandolli messi secretamente da parte della reina moglie di Cesare, dicendo che a tale ora venisse in tale luogo del palagio, ch'ella intendea per ogni modo avere a fare con lui carnalmente. Lo re vago di civanza fue all'ora ordinata al luogo, trovò ostiarii che il ricevenno molto allegramente. Veduto costui ch'elli sapeano lo trattato, domandò: È qua la reina? fulli risposto: andate oltra. Siché in quella ora Cesare s'udio chiamare reina. Questi andò allo letto, del che Cesare ebbe sua intenzione ». Non è improbabile però che anche questo racconto sia una bizzarra invenzione del Lana, per spiegare il passo di Dante. Finalmente nel luogo da noi esaminato nel testo è detto che « morto Cesare, secretamente la notte lo seppellinno e costituinno Ottaviano imperadore». Potrei pure osservare che, secondo il Lana, Cleopatra si uccide non con uno ma con due serpenti; senonché questa è la tradizione accolta nel medioevo ben più frequentemente che l'altra del serpente unico. Del resto FLORO, IV, 11, ha il plurale: << in Mausoleum se recepit admotisque ad venas serpentibus, quasi somno soluta >; e SESTO AURELIO VITTORE pure: « cum se illi inferias ferre simularet in Mausoleo ejus, admotis serpentibus periit». H Falso Boccaccio rincara la dose e vuole che la regina si uccidesse con tre aspidi sordi, ad Inf., V, 63, p. 45.

che nel testo originale: così Pietro di Dante, il Da Buti (1), l'Anonimo fiorentino; nè questo può in alcun modo farci meraviglia, giacché la Farsaglia non poteva neppur nel medioevo essere ignota a chi possedesse una coltura appena mediocre. Ma che fuori della cerchia dei dotti essa godesse di molta popolarità, certo non basta a provare l'uso che ne fecero Armannino e l'ignoto autore del poema in ottave; mentre una prova in contrario, negativa ma assai importante, abbiamo nel fatto che nessuna traduzione della Farsaglia ci può offrire la nostra letteratura dei primi secoli. Ma a distogliere ognuno dall'opera, certo non agevole ma non priva neppure d'allettamenti, non avrà per nulla contribuito il romanzo francese? Noi crediamo di sì, giacché esso stesso si presentava come una traduzione di Lucano, del quale una delle sue parti, di gran lunga la più vasta e la più considerevole, portava anche il nome. Così alle straordinarie influenze positive che ebbe sulla nostra più antica letteratura la letteratura francese, altre se ne aggiungono negative, meno evidenti, meno facilmente avvertibili, ma certo non meno reali.

Lo scopo del nostro lavoro era in primo luogo di precisare certi fatti, non ancora bene esaminati, riferentisi a relazioni tra le due antiche letterature; ma quello si aggiungeva, più generale, di continuare lo studio, intrapreso già altrove, della lotta combattuta in Italia fra la materia classica e la materia di Francia. In un lavoro precedente noi potemmo concludere che tutto il vantaggio era stato per la prima, avendo Virgilio colla sua poderosa popolarità resi vani gli sforzi dei rivali stranieri: qui invece è forza riconoscere la vittoria della materia di Francia, rappresentata da un fortissimo combattente, un romanzo tutto intessuto di autori latini, dei quali s'attribuisce anche il nome. Tuttavia le conclusioni non potranno essere molto diverse. Anche qui

(1) Commento sopra la D. C. pubblicato per cura di CRESCENTINO GIANNINI, Pisa, 1858-62. Potrei aggiungere il Bargigi, ma esso è un po' tardo e d'altra parte spesso non fa che copiare o rifoggiare il Da Buti.

il popolo, che non sa di fonti classiche o di fonti francesi, attesta nondimeno le sue tendenze verso l'antichità ed il suo amore per le grandi figure degli eroi classici col favore onde accoglie i racconti, di qualunque genere sieno, che li prendono a loro protagonisti. La Toscana, dove già la vita letteraria ferveva assai più viva che nelle altre provincie, è la patria di quasi tutte le varie traduzioni o redazioni di siffatti racconti; anzi - sebbene fra i manoscritti parecchi ci conducano nella Lombardia, nel Veneto, nell'Umbria ed altrove più che la Toscana Firenze. E davvero la città che vantava suoi fondatori il re Fiorino e Giulio Cesare, che si diceva vera e prediletta figliuola di Roma, che a Catilina faceva risalire la distruzione della nemica Fiesole e la fondazione della non meno nemica Pistoia, (1) era la terra

(1) La leggenda della fondazione di Firenze è senza dubbio di origine dotta ed ha il suo fondamento in Sallustio, Catilin., LVI sgg.; ma presto dovette divenire popolarissima. Con essa si congiunge quella della distruzione di Fiesole e della fondazione di Pistoia, delle quali la prima senza dubbio, la seconda con molta probabilità ebbero pure la loro origine a Firenze e furono dapprima, io credo, l'espressione de' sentimenti poco amichevoli che questa nutriva per le due antiche avversarie. Il testo più antico della leggenda, che abbia una data sicura, è quello, frammentario, che si ha nella cronaca fiorentina di SANZANOME (ap. HARTWIG, Quellen u. Forschungen f. den ältest. Geschichte d. Stadt Florenz, parte 1.a, Marburg, 1875, pp. 1 segg.; vedi le pp. 1-2), il quale appartiene al principio del sec. XIII; nondimeno egli stesso dové servirsi della Chronica de origine civitatis, sebbene i mss. di questa sieno di gran lunga più recenti e non si abbiano elementi sicuri per assegnare alla composizione una data. Della Chronica de origine civitatis è una traduzione, alquanto modificata, il cosidetto Libro fiesolano (cfr. Studj, II, pp. 275 sgg.). In quella, Catilina è battuto in Campo Piceno da Antonio e pochi scampano dall'una parte e dall'altra; i superstiti dell'esercito di Catilina, come più sotto è detto, fondano Pistoia: in questo Catilina, battuto nel medesimo luogo, rientra in Fiesole e quando la città s'arrende a Cesare, egli ne parte, coi cavalli ferrati a ritroso per ingannare il nemico sulla direzione delle orme; ma inseguito, si appicca battaglia nel luogo dove fu poi Pistoia, e questa infine è fondata dai scampati dell' esercito di lui. Il VILLANI è d'accordo con la Chronica, ma aggiunge esso pure il particolare dei cavalli ferrati a ritroso, come ne aggiunge in seguito tanti altri, dovuti alla sua propria erudizione, nella descrizione degli antichi edifizî di Firenze. I MALESPINI s'unisce invece col Libro Fiesolano. Di Sanzanome nulla si può dire, giacché esso comincia alla morte di Catilina. Il magro cenno del Trésor, lib. I, part. I, cap. XXXVI, sta con la Chronica e così quello di Armannino, da noi citato a pp. 435-36 e 437-38, quantunque in questo ci sieno poi delle gravi differenze. Colla Chronica s'accorda pure il breve passo che trovasi nell' Ameto del BOCCACCIO, ediz. Moutier, pp. 179-80. n Centiloquio

più opportuna e più preparata alla diffusione del romanzo che e di Catilina e di Cesare narrava partitamente la storia.

Alcuni gradi al disopra del popolo, con tendenze più decisamente classiche, alle quali però non sanno mantenersi fedeli, stanno i semidotti come Armannino, fors' anche come l'ignoto autore della Farsaglia in ottave, e aggiungiamo come Giovanni de' Bonsignori. Armannino accumula errori sopra errori, e dove non sa inventa; attratto dalla superficie brillante dei romanzi francesi, traveste secondo la loro foggia anche le severe ed armoniche descrizioni classiche; tuttavia l'opera antica è sempre il vero fondamento del suo paziente lavoro, mentre le invenzioni od i colori stranieri non sono accolti se non per i minuti adornamenti esteriori. L'autore del poema, uomo probabilmente un poco letterato ancor esso, ma inclinante verso i cantori di piazza, pare

del Pucci è come si sa una versificazione del Villani, cui però riduce a poche parole: vedine il cap. I, terzz. 44 sgg., in Delizie degli eruditi toscani, III. I commentatori di Dante quasi tutti accennano alla leggenda, tranne però Iacopo e ser Graziolo. Pietro di Dante, ad Inf. XV, p. 176, parla d'una sola battaglia; il Buti, ad Parad. VI, vv. 53-54, dice che Catilina fu sconfitto in campo Piceno, ma una parte dell'esercito si rifugio in Fiesole, che fu assediata da Cesare per sette anni e presa a patti. D'una seconda battaglia non v'è cenno. Il Lana, ad Parad. VI, copiato dall'Anonimo fiorentino, pare intenda d'una sola battaglia, e così pure le Chiose pubblicate dal SELMI (Chiose anonime alla prima Cantica, Torino, 1865) ad Inf. XXV, 12, le quali però si esprimono poco chiaramente. Gli altri hanno dei cenni insignificanti, se si eccettui tuttavia Benvenuto da Imola, che ad Inf. XV, pp. 377-78, combatte tutte queste leggende con molto acume e dottrina, deride l'identificazione del Sarno con l'Arno etc. Assai più credulo è p. es. GIANNOZZO MANETTI, Historia pistoriensis, in R. 1. S., XIX, 989 sgg. È noto infine che il Malespini introduce nel suo racconto il nuovo episodio di Tiberina e del Centurione, del quale una forma meno complessa è data nelle note del l'Avventuroso ciciliano, attribuito a BOSONE DA GUBBIO (ma cfr. Studj, I, pp. 277 e segg ): si veda l'ediz. del DE NOTT, Firenze, 1832, pp. 254 sgg. Questo racconto con altri particolari ben curiosi trovasi pure nello Zibaldone attribuito ad ANTONIO PUCCI: V. Giorn. Stor. d. lett. ital., I, 296 sgg.; ed il Pucci medesimo, nel Contrasto delle donne, stampato nel Propugnatore, II, da A. D'Ancona, tocca della leggenda di Belisca, traditrice di Catilina, alle strofe LIX e LX, pp. 432-33. Terminerò con alcuni versi attribuiti a CHIARO DAVANZATI, tratti dal cod. Vatic. 3793, e pubblicati nel vol. III, pagg. 67-68, dell'edizione del codice fatta dal D'ANCONA e dal COMPARETTI.

Ai dolze e gaia terra fiorentina
Fontana di valore e di piagienza,
Fior dell' altre, Fiorenza "

Studi di filología romanza, IV.

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tenti di fondere nell'opera sua quella quasi doppia sua natura; ed il letterato adotta come fonte principale Lucano, cui scrupolosamente rispetta, mentre il cantatore popolare non può a meno di volgersi al romanzo, che gli fornisce colori forse per il suo gusto medesimo più vivaci e poetici. Un caso più curioso ci presenta il Bonsignori, meno sincero e scrupoloso, ma pure trascinato dalla stessa tendenza. Egli adopera bensì senza discrezione il romanzo straniero, ma tuttavia protesta che le sue fonti sono classiche e, con procedimento opposto a quello d' Armannino, di fronde classiche tenta abbellire il lavoro e con esse nascondere il plagio. Senza dubbio v'era ancora bisogno d'un lungo e pertinace lavoro a dissodare il terreno, prima che la coltura classica potesse mettervi profonde radici, quando l' Imperiale di Giovanni de' Bonsignori poteva tranquillamente sfidare la luce del sole, senza che il graculus corresse troppo pericolo di essere subito riconosciuto sotto le penne del pa

Nel verso

Qualunque à più saver ti ten reina.
Formata fue di Roma tua semenza,
E da Dio solo data la dotrina,

Ché per lucie divina

Lo re Fiorin ci spese sua potenza.

Ed ebe in sua seguenza

Conti e marchesi, prencipi e baroui,

Gientil d'altre rasgioni.

Ciesati fuor d'orgoglio e villania,

Miser lor baronia

A ciò che fossi dell' altre magiore.

Come fosti ordinata primamente
Da sei baron che più avean d'altura,

E ciascun puose cura

Vêr sua parte com' fosse più piacente.

Da San Giovanni avesti sua figura,

I be' costumi dal fior dela giente,

Da' savi il convenente,

In planeta di Leo più sicura,

Di villania fuor pura,

Di piacimento e di valore ornata,

In sana aira e in gioia formata,

Dilletto d'ongni bene ed abondosa,

Gientile ed amorosa,

Imperadrice d'ongni cortesia.

In sana aria ed in gioia formata par di sentire perfino le parole della Chronica de crigine civitatis.

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