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Se a costei non ne cale,.

Non spero mai da altrui aver soccorso:
E questa, sbandeggiata da tua corte,
Signor, non cura colpo di tuo strale :
Fatto ha d'orgoglio al petto schermo tale,
Ch' ogni saetta li spunta suo corso;
Per che l'armato cuor da nulla è morso.

6.

O montanina mia canzon, tu vai; Forse vedrai Fiorenza la mia terra, Che fuor di sè mi serra,

Vôta d'amore, e nuda di pietate.

Se dentro v'entri, va' dicendo: Omai
Non vi può fare il mio signor più guerra;
Là, ond' io vegno, una catena il serra
Tal, che se piega vostra crudeltate,

Non ha di ritornar più libertate.

X CANZONE II.

1.

O patria, degna di trionfal fama, 'De' magnanimi madre,

Più che in tua suora, in te dolor sormonta : Qual è de' figli tuoi, che in onor t'ama, Sentendo l' opre ladre

Che in te si fanno, con dolore ha onta.

Ahi! quanto in te la iniqua gente è pronta

A sempre congregarsi alla tua morte,
Con luci bieche e torte,

Falso per vero al popol tuo mostrando.

Alza il cor de' sommersi; il sangue accendi; Sui traditori scendi

Nel tuo giudicio; sì che in te laudando

Si posi quella grazia che ti sgrida,
Nella quale ogni ben surge e s'annida.

2.

Tu felice regnavi al tempo bello Quando le tue rede

Voller che le virtù fussin colonne :

Madre di loda e di salute ostello,
Con pura unita fede

Eri beata, e colle sette donne.
Ora ti veggio ignuda di tai gonne;
Vestita di dolor, piena di vizi;
Fuori i leai Fabrizi;

Superba, vile, nimica di pace.
O disnorata te! specchio di parte,
Poichè se' aggiunta a Marte,
Punisci in Antenòra qual verace
Non segue l'asta del vedovo giglio;

E a que' che t' aman più, più fai mal piglio.

3.

Dirada in te le maligne radici,

De' figli non pietosa,

C'hanno fatto il tuo fior sudicio e vano,

E vogli le virtù sien vincitrici;

Si che la fè nascosa

Resurga con giustizia a spada in mano.
Segui le luci di Giustiniano,

E le focose tue mal giuste leggi
Con discrezion correggi,

Sicchè le laudi 'l mondo e'l divin regno :
Poi delle tue ricchezze onora e fregia
Qual figliuol te più pregia,

Non recando a' tuoi ben chi non n'è degno:
Si che prudenza ed ogni sua sorella

Abbi tu teco; e tu non lor rubella.

4.

Serena e gloriosa in su la ruota D'ogni beata essenza,

(Se questo fai) regnerai onorata :

E'l nome eccelso tuo, che mal si nota,
Potra' poi dir, Fiorenza.

Dacchè l'affezion t' avrà ornata,

Felice l'alma che in te fia creata!
Ogni potenza e loda in te fia degna:
Sarai del mondo insegna.

Ma se non muti alla tua nave guida,
Maggior tempesta con fortunal morte
Attendi per tua sorte,

Che le passate tue piene di strida.
Eleggi omai, se la fraterna pace
Fa più per te, o'l star lupa rapace.

5.

Tu te n'andrai, canzone, ardita e fera, Poichè ti guida Amore,

Dentro la terra mia, cui doglio e piango;
E troverai de' buon, la cui lumiera
Non då nullo splendore,

Ma stan sommersi, e lor virtù è nel fango.
Grida Surgete su, chè per voi clango.
Prendete l'armi, ed esaltate quella;
Chè stentando viv'ella;

E la divoran Capaneo e Crasso,
Aglauro, Simon mago, il falso Greco,
E Macometto cieco,

Che tien Giugurta e Faraone al passo.
Poi ti rivolgi a' cittadini giusti,
Pregando si ch'ella sempre s' augusti.

SONETTO 1.

Se vedi gli occhi miei di pianger vaghi, Per novella pietà che il cor mi strugge, Per lei ti priego, che da te non fugge, Signor, che tu di tal piacer gli svaghi.

Con la tua dritta man cioè che paghi
Chi la giustizia uccide, e poi rifugge
Al gran tiranno, del cui tosco sugge,
Ch'egli ha già sparto, e vuol che'l mondo allaghi.
E messo ha di paura tanto gelo

Nel cuor de' tuoi fedei, che ciascun tace:
Ma tu, fuoco d' Amor, lume del cielo,

Questa virtù, che nuda e fredda giace,
Levala su vestita del tuo velo;

Chè senza lei non è qui in terra pace.

SONETTÓ II.

Poich' io non trovo chi meco ragioni Del signor cui serviamo e voi ed io, Convienmi soddisfare il gran desio, Ch'io ho di dire i pensamenti buoni.

Null'altra cosa appo voi m' accagioni
Dello lungo e noioso tacer mio,

Se non il loco, ov' io son, ch'è si rio,
Che il ben non trova chi albergo gli doni.

Donna non c'è, che Amor le venga al volto Nè uom ancora che per lui sospiri;

E chi'l facesse saria detto stolto.

Ahi, messer Cino, com'è il tempo vôlto,

A danno nostro e delli nostri diri,
Da poi che il ben c'è sì poco ricolto!

SONETTO III.

Io mi credea del tutto esser partito
Da queste vostre rime, messer Cino;
Chè si conviene omai altro cammino
Alla mia nave, già lunge dal lito.

Ma perch' io ho di voi più volte udito,
Che pigliar vi lasciate ad ogni uncino,
Piacemi di prestare un pocolino
A questa penna lo stancato dito.

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