Sayfadaki görseller
PDF
ePub

contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di quelle cose che gli altri fanno lor signori. Per che avviene che le genti misere che ciò mirano, ripensando il loro difetto, dopo il desiderio della perfezione, caggiono in fatica di sospiri. E ciò s'intende, dicendo che gli occhi di color dov' ella luce, Ne mandan messi al cor pien di disiri, ecc. Poi nella stanza che comincia : « In lei discende la virtù divina » Dante piglia a commendare l' Amore, che è parte di filosofia.

E qual donna gentil questo non crede, ecc. Per donna gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera nella sua propria potestà, che è la ragione: Conv., ivi. Mercè della ragione si veggono molte cose, e per lei si crede ogni miracolo in più alto intelletto poter essere: onde la nostra buona fede viene aiutata: Conv., III, 14.

Negli occhi e nel riso della sapienza si mostrano dei piaceri di Paradiso. Ora qui conviene sapere che gli occhi della sapienza sono le sue dimostrazioni, colle quali si vede la verità certissimamente: e il suo riso sono le sue persuasioni, nelle quali si dimostra la luce interiore della sapienza sotto alcuno velamento. E in queste due si sente quel piacere altissimo di beatitudine, che è massimo bene in Paradiso: ivi, 15. Solamente nello sguardare in quegli occhi e in quel riso si acquista la perfezione della ragione, dalla quale, siccome dalla principalissima parte, tutta la nostra essenza dipende.

Sua beltà piove fiammelle di fuoco: dice che la bellezza della sapienza, cioè la sua moralità, produce appetito diritto, che si genera nel piacere della morale dottrina. Il quale appetito ne diparte dalli vizi naturali, non che dagli altri. Le virtù poi sono beltate dell' anima.

Questa filosofia è ben colei che umilia ogni perverso, dacchè volge dolcemente chi fuori del debito ordine è piegato.

Costei penso Chi mosse l'universo. Ultimamente in massima lode di sapienza si dice lei essere madre di tutto qualunque principio, dicendo che Dio con lei cominciò il

Mondo, e specialmente il movimento del cielo; il quale tutte cose genera e dal quale ogni movimento è cominciato e mosso.

[merged small][ocr errors][merged small]

Le dolci rime d'Amor ch' io solia.

Per quelle amorose rime Dante si è fatto celebre siccome maestro del dolce stile nuovo (modo soave), inspirato e formato da Amore: Purg., XXIV, 51. Ed ora in questa canzone

intende riducere la gente in diritta via sopra la propria I d

conoscenza della verace nobiltà. Ond'è che dovendosi per essa provvedere a rimedio cosi necessario, non era buono sotto alcuna figura parlare.

La donna, di che qui si ragiona, vuolsi intendere pur sempre per quella luce virtuosissima che è la filosofia, i cui raggi fanno i fiori rinfronzire e fruttificare la verace nobiltà degli uomini: Conv., IV, 1. Gli atti di questa donna sono riguardati come disdegnosi e fieri, non in sè, ma secondo l'apparenza, discordante dal vero per infermità dell'anima, che di troppo disio era passionata: Conv., III, 10.

E dirò del valore, per lo quale l'uomo è gentile veramente. E qui si prende valore, quasi potenzia di natura, ovvero bontà da quella data.

Con rima aspra e sottile: dice aspra quanto al suono del dettato, che a tanta materia non conveniva esser lene: e dice sottile quanto alla sentenza delle parole, che sottilmente argomentando e disputando procedono.

Riprovando il giudizio falso e vile, cioè rimosso dalla verità e da viltà d'animo affermato e fortificato.

E cominciando chiamo quel signore, la verità, che sia meco; la quale è quel signore che negli occhi, cioè nelle dimostrazioni della filosofia dimora.

Per ch'ella di sè stessa innamora, perocchè essa filosofia, che è amoroso uso di sapienza, se medesima riguarda, quando apparisce la bellezza degli occhi suoi a lei; quando

[ocr errors]

? the ef 270

[ocr errors]

CANZONIERE fever enter af hs. • Xxe cioè contempla il suo contemplare medesimo: Conv., Iv,

3.

Notabile è poi singolarmente che il nostro Poeta considera gentilezza e nobiltà essere tutt' una cosa: Conv., Iv, 9.

2. Tale imperò (tenne impero, usò l'ufficio imperiale) che, domandato che fosse gentilezza, rispose: « Che era antica ricchezza e be' costumi. » Costui è Federico di Soave (di Svevia) ultimo imperatore dei Romani; ultimo, dice Dante, per rispetto al tempo presente: Conv., II, 3.

Ed altri fu di più lieve sapere, che pensando e rivolgendo quella difinizione in ogni parte, levò via l'ultima particola, cioè i belli costumi, e tennesi alla prima, cioè all'antica ricchezza. E questa opinione del volgo è tanto durata, che senza alcun rispetto, senza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è chiamato ciascuno che figliuolo sia d'alcun valente uomo, tutto che esso sia da niente, nullo; senza valore o bontà di natura: Conv., Iv, 7. Anzi chi discese di buono, ed è malvagio,.... e quegli che dal padre o da alcun suo maggiore di schiatta è nobilitato, e non persevera in quella nobiltà, non solamente è vile, ma vilissimo e degno d'ogni disprezzo o vituperio più che altro villano.

E tocca a tal, ch'è morto, parendo vivo. Dove è da sapere che veramente morto il malvagio uomo dire si può e massimamente quegli, che dalla via del buono anticessore si parte, fuorviando dall'uso di ragione, che è propria vita del

l'uomo.

3. Chi diffinisce « uomo è legno animato » prima dice falso, in quanto dice legno: e poi parla non intero, cioè con difetto, in quanto dice animato, non dicendo ragionevole, che è differenza per la quale l'uomo dalla bestia si parte: Conv., iv, 10.

Chi tenne impero; non dice chi fu Imperatore, ma quegli che tenne impero a mostrare che il determinare questa cosa (definire cioè la nobiltà) è fuori dell'ufficio imperiale. Ed errò Federico II nel dare la definizione della nobiltà, in prima perchè pose della nobiltà falso soggetto, cioè antica ricchezza: poi perchè procedette a difettiva forma ovvero differenza, cioè belli costumi, che non comprendono ogni

forma di nobiltà, (nobiltà nel suo essere intero), ma molto picciola parte.

Che le dovizie, siccome si crede, ecc. Mostra che le ricchezze non possono causare nobiltà, perchè sono vili. E qui s'intende viltà per degenerazione, la quale alla nobiltà s'oppone, e non la può quindi produrre, l'uno contrario non potendo essere fattore dell' altro.

Poi chi pinge figura, ecc. Inoltre non possono le dovizie far nobile altrui, come niuno dipintore potrebbe porre (in disegno) alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura esser dee e si vuole che sia.

Ancora le ricchezze non possono togliere nobiltà, da cui son molto disgiunte: laddove ciò che altera è corrompe alcuna cosa, conviene che sia congiunto con quella. E però anco riguardando la nobiltà quasi come torre diritta, e le dovizie fiumi da lungi correnti, soggiunge: Nè la diritta torre Fa piegar rivo, che da lungi corre: Conv., iv, 10.

E che le ricchezze sien vili ed imperfette appare da ciò che, quantunque adunate, non quietano, ma danno più sete e rendono altrui più difettivo e insufficiente: Conv., IV, 12. La loro imperfezione può vedersi in tre cose apertamente, nello indiscreto loro avvenimento, nel pericoloso loro accrescimento e nella dannosa loro possessione.

Onde l'animo che è diritto d'appetito e verace di conoscenza, per loro perdita non si disface, dacchè mai non ama le ricchezze, e non amandole, non si unisce ad esse: nè perciò se ne lascia guastare: Conv., IV, 11.

4. Nè voglion che vil uom gentil divegna. Dove è da sapere, che opinione di questi erranti è, che uomo prima villano, mai gentile uomo dire non si possa; e uomo che figlio sia di villano, similmente mai dicer non si possa gentile. E ciò stesso fa contra loro medesimi quando dicono, che tempo si richiede a nobiltà. Imperocchè è impossibile per processo di tempo venire alla generazione di nobiltà, qualora si voglia concedere quant' essi affermano in lor ragione, cioè che villano uomo non possa mai essere gentile per opera che faccia o per alcun accidente. Ed ove si ponga questo per

che

verità, segue l'uno dei due inconvenienti: il primo si è, nulla nobiltà sia: l'altro si è, che il mondo sempre (da che fu) sia stato con più uomini, sicchè da uno solo l'umana generazione discesa non sia: Conv., Iv, 13. Ma l'uomo non ebbe che un solo cominciamento. Dunque, ragionando al modo di coloro, si dovrebbe conchiudere che se esso Adamo fu nobile, tutti siamo nobili; e se esso fu vile, tutti siam vili: Conv., IV, 15.

Nè eglino altresi, se son cristiani, perocchè la cristiana sentenza è di maggior vigore ed è rompitrice d'ogni calunnia, mercè della somma Luce del cielo che quella allumina.

Per che a intelletti sani È manifesto i lor diri esser vani, cioè senza midolla di verità. L'intelletto poi si può dire sano, quando per malizia d'animo o di corpo impedito non è nella sua operazione, che è conoscere quello che le cose sono: Conv., iv, 15.

5. Se vogliamo avere riguardo alla comune consuetudine di parlare, questo vocabolo nobiltà s'intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa: Conv., Iv, 16. Questo è necessario che si attenda da chi vuol raggiugnere il concetto che Dante si è formato della nobiltà umana.

Dico che ogni virtù principalmente, ecc. Due cose qui sono ad osservare: l'una è che ogni virtù venga da un principio; l'altra è che queste virtù sieno le virtù morali (Conv., Iv, 17) che nascono tutte da un principio, cioè dall' abito della nostra buona elezione.

Nobilitate e virtute cotale cioè morale, convengono in questo, che l'una e l' altra importano loda di colui, di cui si predica. E perciò essendo cagione d'un medesimo effetto, conviene che l' una proceda dall'altra ovvero ambe da un terzo. E soggiugne che piuttosto è da presumere l'una venire dall'altra, che ambe da un terzo, se egli appare che l'una vaglia quanto l'altra e più ancora.

Onde nobiltà, che comprende ogni virtù e molte altre nostre operazioni laudabili, si dee aver per tale, che la virtù sia da ridurre ad essa, prima che ad altro terzo che in noi sia: Conv., IV, 18.

« ÖncekiDevam »