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CAPO PRIMO.

I COMUNI ITALIANI NEI SECOLI XII E XIII.

Italia di dolore ostello!

E, se licito m' è, o sommo Giove,
Che fosti 'n terra per noi crocifisso,

Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

O è preparazion, che nell' abisso

Del tuo consiglio fai per alcun bene
In tutto dall' accorger nostro ascisso?
PURG. VI.

Se Dante non fosse stato altro che poeta o letterato, io lascerei l'assunto di scriverne a tanti, meglio di me esercitati nell'arte divina della poesia, o in quella così ardua della critica. Ma Dante è gran parte della storia d'Italia; quella storia a cui ho dedicati i miei studi, che ho tentata in più guise, ma che non ispero guari di poter compiere oramai. Quindi è che non avendo potuto o saputo ritrarre la vita di tutta la nazione italiana, tento ritrarre quella almeno dell' Italiano che più di niun altro raccolse in sè l'ingegno, le virtù, i vizi, le fortune della patria. Egli ad un tempo uomo d'azioni e di lettere, come furono i migliori nostri; egli uomo di parte; egli esule, ramingo, povero, traente dall' avversità nuove forze e nuova gloria; egli portato dalle ardenti passioni meridionali fuori di quella moderazione che era nella sua altissima mente; egli, più che da niun altro pensiero, accompagnato lungo tutta la vita sua dall'amore; egli, in somma, l' Italiano più italiano che sia stato mai. S'aggiugne, che l'età di Dante è, rispetto all'insegnamento morale, la più importante forse della storia d'Italia; quella in che si passò dalle brevi virtù ai lunghi vizi repubblicani. E s'aggiugne, che colle opere e collo scritto ei tentò di rattener la patria in su quel precipizio;

e che cadutovi egli stesso più o meno, rimase pure in tutto lo scrittore più virtuoso che abbiamo: ond' è, che il nome di Dante tanto più risplendette sempre tra le generazioni successive, quanto più elle tornarono a virtù; e che non ultima fra le ragioni di patrie speranze, è il veder redivivo il culto e lo studio di lui. Questi furono i pensieri che mi fecero prendere amore all'opera; questi mi dànno fiducia, che, anche adempiuta con forze troncate, ella possa riuscir non inutile nè ingrata a' miei compatrioti. E se ella giugnesse ad alcuno di quegli stranieri i quali ci restan benevoli per memoria de' nostri maggiori, spero appresso di loro qualche favore dal nome di Dante, il primo grande scrittore della prima lingua moderna, il quale aprì così all' Europa tutta quella carriera di lettere e civiltà che ella corse d'allora in poi. Del resto, io scrivo per gli uomini colti sì e curiosi di particolari, ma non propriamente per gli eruditi. A questi hanno già soddisfatto parecchi altri, e principalmente il Pelli e l'autor del Veltro; ma parmi che sia pur da servire a que' tanti che amano legger disteso, e trovar raccolto ciò che altrove si accenna.

Or, prima d'incominciare la narrazione d'una vita così continuamente frammista alle condizioni della propria età, sarà utile accennar le origini di esse. Nè mi saran d'uopo molte parole. La patria nostra s'è fatta felicemente studiosa delle sue memorie del medio evo; le quali, se non sono le più liete, sono certo delle più gloriose; e se talora vengono

fastidio, perchè risuscitate troppo sovente nelle opere d'immaginazione, sono pur fondamento di tutta la storia. nostra, ondechè elle dovrebbero essere forse meno cantate che studiate. Quindi sarebbe opera perduta pe' leggitori s'io attendessi ad insegnare loro ciò che i più hanno imparato già dal Muratori, dal Sismondi, dal Leo o da altri; e che, speriamo, impareranno in breve da tale, il quale seguendo con animo e fortuna maggiore la via contraria alla mia, salì già dallo studio de' tempi di Dante alla storia ge

nerale d'Italia. Ad ogni modo, giova negli assunti speciali ricordare ciò che li riannoda alle cognizioni generali.

Già allo sfasciarsi dell' antico imperio Romano, l'Italia più infelice che non le sue provincie, era soggiaciuta non ad una, ma a tre conquiste di Barbari: prima i raccogliticci di Odoacre, poi i Goti, in ultimo i Longobardi. Cagione di questa sua privilegiata infelicità, fu l'essere stata antica sede dell' Imperio; l'aver mirato gli Italiani alla restaurazione di quello; e l'averla tentata gli Imperatori orientali. Secondo tristo effetto della medesima causa fu la divisione d'Italia in Greca e Longobarda fin dal 568; dal quale in poi la Penisola non fu riunita più mai. Così mentre le altre nazioni europee conquistate una o due volte al più, ebbero agio d'immedesimarsi coi conquistatori per crescere in que' bei reami or ammirati di Francia, Spagna od Inghilterra; all'Italia, non fermatasi in niuna conquista, in niuna sventura mai, toccò la peggiore di tutte; quella di mutar sempre sventura.

Succeduta la quarta conquista de' Franchi sotto Carlomagno, e stabilito un Regno Italico, se non indipendente, almen separato sotto un figliuolo di lui, parve l'Italia entrare nella condizione delle altre nazioni europee. Ma non seguì il fatto, impedito che fu dalla restaurazione dell' Imperio operata da Carlomagno il dì di Natale dell'anno 800. Fu salutata probabilmente dalle speranze degli ingannevoli Italiani, e fatta forse con intenzioni d'ordine e civiltà; quasi i regni cristiani avessero quindi a raccogliersi intorno al maggior trono imperiale, e quasi il nome preso da Roma avesse a far risorgere la lingua, gli usi e l'antica civiltà di essa. Ma le restaurazioni delle cose troppo anticamente cadute non sogliono riuscire a gran pro; e tutto quell'ordinamento sognato a lunga durata, non esistè in fatti se non pochi anni. I Regni Franchi se ne separarono in breve, e la Germania e l'Italia ne furono impacciate lunghi secoli; quella, d'un principe incoronato, acclamato fuori di essa;

questa, d'un principe di schiatta, nascita, elezione ed interessi a lei stranieri. Fra le nazioni, come tra gli uomini, chi fa infelice altrui, fa tale sè stesso.

Ma entrano nelle vie della Provvidenza anche le infelicità delle nazioni, e convien talora che soffra una per tutte. Così pensò già, così previde meravigliosamente Dante in que' primi versi da noi citati, che si potrebbon dire la spiegazione filosofica e religiosa di tutta la storia d'Italia. Imperciocchè, tra i dolori di questa, nacque la indipendenza delle sue città; da cui poi la civiltà universale. Già fin dall'età dei Longobardi, causa il mal governo degli Imperadori greci, occasione la loro eresia Iconoclasta, promotori i Papi, eransi liberate Roma, Venezia, Ravenna, e parecchie altre città con governo proprio e sotto i consoli. E durata variamente tale indipendenza sotto il manto pontificio, ma non estésasi di molto nella Penisola dal secolo VIII all' XI, quando poi l'immortal Gregorio VII (l'Ildebrando tanto stoltamente vituperato!) si rivolse, in occasione non dissimile dalla prima, contro gli imperadori Franconi o Wibelini, usurpatori delle libertà della Chiesa, protettori d' ogni scandalo che si facesse in essa; allora anche le altre città italiane, quasi tutte si sollevarono, si liberarono, si costituirono in Comuni, e sotto ai Consoli. Fu compiuta tal rivoluzione in pochi anni, dopo la morte del santo e sommo papa, tra l' ultimo decennio del secolo XI e i due primi del XII. Pisa, Lucca, Milano, Asti, Genova sembrano essere state delle più precoci a costituirsi da sè in Comune. Altre, rimaste fedeli nel parteggiar per gli Imperatori, furon liberate per concessioni varie, o lasciate liberarsi. E così divise le città in parte della Chiesa ed Imperiale, erano libere tutte, queste non men che quelle, con poca differenza.

Naturalmente, il primo imperadore che sorse di grand' animo, non volle sopportare siffatte novità. E Federico I era tal imperadore. Guerreggiò a lungo; vinse, fu vinto; ed alla pace di Costanza, sancita l'anno 1183, i Comuni della lega

di Lombardia serbarono sotto il nome di regalie la realtà dell' indipendenza, e a governo di essi i loro Consoli. Delle città che erano state per l'Imperadore, molte, perchè non fossero in peggior condizione, ebber le regalie da lui; altre se le acquistarono con altre leghe, poco appresso. E tra tutta questa conquista d'indipendenza, un'altra erasi fatta i dialetti popolari delle città eran diventati lingua nazionale. Dicevasi lingua volgare, ed era la lingua italiana.

Della nascente ed operante indipendenza fu natural compagna la virtù; sia che da quella questa, o che da questa quella venisse; o meglio, che l'una e l'altra s'ajutassero e crescessero a vicenda. Certo, le tre immortali difese di Milano, la ricostruzione di lei pe' vicini allora non invidiosi, la concorde fondazione e poi la difesa di Alessandria, gli altri assedii non meno fortemente sostenuti, la lega di Pontida, e quella vera battaglia da eroi combattuta e vinta a Lignano, sono fatti che dovettero a un tempo e procedere da virtù, e generarla. Questa è senza contrasto l' età più bella della storia d'Italia; quantunque, per la decadenza della lingua antica e l'infanzia della nuova, ella rimanga men celebrata delle altre posteriori e minori. Sia poi per quel difetto di storici, o perchè quando è universale la virtù non si fa pompa di virtuosi, o perchè in una nazione concorde non risplende niuno qual duce, certo niun gran nome di condottiero o gran cittadino ci rimane di quei tempi, oltre a quello di papa Alessandro III; ma restano invece immortali i nomi di quelle città.

Del resto, la maggior parte degli storici moderni chiaman Repubbliche quelli che noi abbiam qui chiamati Comuni. Ma Comuni o Città elle chiamavan sè stesse per lo più; e se repubbliche talvolta, elle non intendevan per tal nome ciò che ora, cioè un popolo che si regga senza principe. Riconoscevano la supremazia dell'imperadore e re tedesco in ogni cosa non compresa nelle regalie conquistate od ottenute; in queste sole erano lor libertà, lor diritti, lor vanto.

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