Anzi i dritti comuni e di natura: Perchè frode, perfidia e qual si sia Pretta, solenne, autentica impostura, È cosa verso lor lecita e pia,
E quelli soppiantar può con sicura Mente ogni estrania o patria monarchia, Che popolo e nessun tornan tutt' uno; Se intier l'ammazzi, non ammazzi alcuno. Quanto al proposto affar, che interrogato Capo per capo avria la nazione,
Non essendo in sua man circa lo stato Prender da se deliberazione;
E che quel che da lei fosse ordinato Faria come per propria elezione, Caro avendo osservar, poi che giurollo, Lo statuto. E ciò detto, accommiatollo. L'altra mattina al general consiglio Il tutto riferì personalmente,
E la grandezza del comun periglio Espose e ragionò distesamente,
E trovar qualche via, qualche consiglio, Qualche provvision conveniente
Spesse volte inculcò, quasi sapesse Egli una via, ma dir non la volesse.
Arse d'ira ogni petto, arse ogni sguardo,
E come per l'aperta ingiuria suole
Che negl' imi precordii anche il codardo Fere là dove certo il ferir dole,
Parve ancora al più vile esser gagliardo Vera vendetta a far non di parole.
Guerra scelta da tutti, risoluto Fu da tutti morir per lo statuto. Commendò Rodipan questo concorde Voler del popol suo con molte lodi, Morte imprecando a quelle bestie sorde Dell' intelletto e pur destre alle frodi; Purchè, disse, nessun da se discorde Segua il parlar, non poi gli atti de' prodi: E soldatesche ed armi e l'altre cose Spettanti a guerra ad apprestar si pose. Di suo vero od al ver più somigliante Sentir, del quale ogni scrittore è muto, Dirovvi il parer mio da mal pensante, Qual da non molto in qua son divenuto, Che per indole prima io rette e sante Le volontà gran tempo avea creduto, Nè d'appormi così m'accadde mai, Nè di fallar poi che il contrario usai. Dico che Rodipan di porre sciolta La causa sua dalla comun de' topi In man de' granchi avea per cosa stolta, Veduto, si può dir, con gli occhi propri Tanta perfidia in quelle genti accolta, Quanta sparsa è dagl' Indi agli Etiopi, E potendo pensar che dopo il patto Similmente lui stesso avrian disfatto. Ma desiato avria che lo spavento Della guerra de' granchi avesse indotto Il popolo a volere esser contento
Che il seggio dato a lui non fosse rotto,
Sì che spargendo volontario al vento La fragil carta, senza più far motto, Fosse stato a veder se mai piacesse Al re granchio adempir le sue promesse. Così re senza guerra e senza patto Forse trovato in breve ei si saria,
Da doppio impaccio sciolto in un sol tratto, E radicata ben la dinastia ;
Nè questo per alcun suo tristo fatto, Per tradimento o per baratteria, Ne violato avendo in alcun lato Il giuramento alla città giurato. Queste cose, cred'io, fra se volgendo Meno eroica la plebe avria voluta. Per congetture mie queste vi vendo, Che in ciò la storia, come ho detto, è muta. Se vi paresser frasche, non intendo Tor fama alla virtù sua conosciuta. Visto il voler de' suoi, per lo migliore La guerra apparecchiò con grande ardore. Guerra tonar per tutte le concioni Udito avreste tutti gli oratori, Leonidi, Temistocli e Cimoni, Muzi Scevola, Fabi dittatori, Deci, Aristidi, Codri e Scipioni, E somiglianti eroi de' lor maggiori Iterar ne' consigli e tutto il giorno Per le bocche del volgo andare attorno. Guerra sonar canzoni e canzoncine Che il popolo a cantar prendea diletto,
Guerra ripeter tutte le officine,
Ciascuna al modo suo col proprio effetto. Lampeggiavan per tutte le fucine
Lancioni, armi del corpo, armi del petto, E sonore minacce in tutti i canti S'udiano e d'amor patrio ardori e vanti. Primo fatto di guerra, a tal fatica Movendo Rubatocchi i cittadini, Fu di torri e steccati alla nemica Gente su del castel tutti i confini Chiuder donde colei giù dall' aprica Vetta precipitar sopra i vicini Poteva ad ogn'istante, e nella terra Improvvisa portar tempesta e guerra.
Poi dubitato fu se al maggior nerbo De' granchi che verrebbe omai di fuore Come torrente rapido e superbo
Opporsi a mezza via fosse il migliore, Ovver nella città con buon riserbo Schernir, chiuse le porte, il lor furore. Questo ai vecchi piacea, ma parve quello Ai damerini della patria bello.
Come Aiace quel dì che di tenebre Cinte da Giove fur le greche schiere, Che di salvar Patroclo alla funebre Cura fean battagliando ogni potere, Al nume supplicò che alle palpebre Dei figli degli Achei desse il vedere, Riconducesse il dì, poi, se volesse, Nell' aperto splendor li distruggesse ;
Così quei prodi il popolar consiglio Pregàr che la virtù delle lor destre Risplender manifesta ad ogni ciglio Potesse in parte lucida e campestre, Nè celato restasse il lor periglio Nel buio sen di quella grotta alpestre. Vinse l'alta sentenza, e per partito Fuori il granchio affrontar fu stabilito. E già dai regni a rimembrar beati Degli amici ranocchi, che per forza Gli aveano insino allor bene albergati, Moveva quei della petrosa scorza Brancaforte co' suoi fidi soldati,
Per quel voler ch' ogni volere sforza Del lor padrone e re, che di gir tosto Sopra Topaia aveva al duce imposto. Dall'altra parte orrenda ne' sembianti Da Topaia movea la cittadina Falange che di numero di fanti A un milione e mezzo era vicina. Serse in Europa non passò con tanti Quando varcata a piè fu la marina. Coperto era sì lunge ogni sentiero Che la veduta si perdea nel nero.
Venuti erano al loco ove diè fine Alla fuga degli altri il Miratondo, Loco per praticelli e per colline E per quiete amabile e giocondo. Era il tempo che l'ore mattutine Cedono al mezzodì le vie del mondo,
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