Di Senzacapo, e i giorni e le stagioni A passar cominciò fra gli spioni. Rodipan mi cred' io che volentieri Precipitato i granchi avrian dal trono. Ma trovar non potendo di leggieri Chi per sangue a regnar fosse sì buono, Spesi d'intorno a ciò molti pensieri, Parve al re vincitor dargli perdono, E re chiamarlo senz' altro contratto, Se per dritto non era, almen per fatto. Ma con nome e color d'ambasciatore Inviogli il baron Camminatorto, Faccendier grande e gran raggiratore, E in ogni opra di re dotto ed accorto, Che per arte e per forza ebbe valore Di prestamente far che per conforto Suo si reggesse il regno, e ramo o foglia Non si movesse in quel senza sua voglia. Chiuso per suo comando il gabinetto, Chiuse le scole fur che stabilito Aveva il conte, come sopra ho detto, E d'esser ne' caratteri erudito
Fu, com' ei volle, al popolo interdetto, Se di licenza special munito
A ciò non fosse ognun: perchè i re granchi D' oppugnar l'abbiccì non fur mai stanchi. Quindi i reami lor veracemente
Fur del mondo di sopra i regni bui. Ed era ben ragion, che chiaramente Dovean veder che la superbia in cui
La lor sopra ogni casa era eminente Non altro avea che l'ignoranza altrui Dove covar: che dal disprezzo, sgombra Che fosse questa, non aveano altr' ombra. Lascio molti e molti altri ordinamenti Del saggio nunzio, e sol dirò che segno Della bontà de' suoi provvedimenti Fu l'industria languir per tutto il regno, Crescer le usure, impoverir le genti, Nascondersi dal Sol qualunque ingegno; Sciocchi o ribaldi conosciuti e chiari Cercar solo e trattar civili affari;
Il popolo avvilito e pien di spie Di costumi ogni dì farsi peggiore, Ricorrere agl' inganni, alle bugie, Sfrontato divenendo e traditore; Mal sicure da' ladri esser le vie Per tutta la città non che di fuore; L'or fuggendo e la fede, entrar le liti, Ed ir grassi i forensi ed infiniti.
Subito poi che l'orator fu giunto Cui de' topi il governo era commesso Dal re de' granchi, a Brancaforte ingiunto Fu di partir co' suoi. Ma dallo stesso Cresciuto insino a centomila appunto Fu lo stuolo in castel male intromesso; Il resto a trionfar di topi e rane Tornò con Brancaforte alle sue tane. Allor nacque fra' topi una follia Degna di riso più che di pietade;
Una setta che andava e che venia Congiurando a grand' agio per le strade, Ragionando con forza e leggiadria D'amor patrio, d'onor, di libertade, Fermo ciascun, se si venisse all'atto, Di fuggir come dianzi avevan fatto,
E certo, quanto a se, che pur col dito Lanzi ei non toccheria nè colla coda; Pure a futuri eccidi amaro invito O ricevere o dar con faccia soda Massime all' età verde era gradito, Perchè di congiurar correa la moda, E disegnar pericoli e sconquasso Della città serviva lor di spasso. Il pelame del muso e le basette Nutrian folte e prolisse oltre misura, Sperando, perchè il pelo ardir promette, D'avere, almeno ai topi, a far paura. Pensosi in su i caffè, con le gazzette Fra man, parlando della lor congiura, Mostraronsi ogni giorno, e poi le sere Cantando arie sospette ivano a schiere. Al tutto si ridea Camminatorto Di sì fatte commedie, e volentieri Ai topi permettea questo conforto, Che con saputa sua, senza misteri, Lui decretando or preso or esser morto, Gli congiurasser contro i lustri interi: Ma non sostenne poi che capo e fonte Di queste trame divenisse il conte.
Al quale i giovinastri andando in frotte Offrian se per la patria a morir presti; E disgombro giammai nè dì nè notte Non era il tetto suo d'alcun di questi. Egli, perchè le genti, ancorchè dotte E sagge, e d'opre e di voleri onesti, Di comandare altrui sempre son vaghe, E più se in tempo alcun di ciò fur paghe, Anche dal patrio nome e da quel vero Amor sospinto ond' ei fu sempre specchio, Inducevasi a dar, se non intero
Il sentimento, almen grato l'orecchio Al dolce suon che lui nel ministero, E che la patria ritornar nel vecchio Onore e grado si venia vantando, E con la speme il cor solleticando. L'ambasciador, quantunque delle pie Voglie del conte ancor poco temesse, Pur com'era mestier che molte spie Con buone paghe intorno gli tenesse, Rivolger quei danari ad altre vie E torsi quella noia un giorno elesse; E gentilmente in forma di consiglio Costrinse il conte a girsene in esiglio. Peregrin per la terra il chiaro topo Vide popoli assai, stati e costumi; A quante bestie narrò poscia Esopo Si condusse varcando or mari or fiumi, Con gli occhi intenti sempre ad uno scopo, D'augumentar, come si dice, i lumi
Alle sue genti, e, se gli fosse dato, Trovar soccorso al lor dolente stato.
Com'esule e com'un ch'era discaro Al re granchio, al baron Camminatorto, E ch'alfabeto e popolo avea caro, Molte corti il guardar con occhio torto. Più d'un altro con lui fu meno avaro, Più d'un ministro e re largo conforto Gli porse di promesse; ed ei contento Il cammin proseguia con questo vento.
Una notte d'autunno, andando ei molto Di notte, come i topi han per costume, Un temporal sopra il suo capo accolto Oscurò delle stelle ogni barlume; Gelato un nembo in turbine convolto Colmò le piagge d'arenose spume, Ed ai campi adeguò così la via, Che seguirla impossibil divenia.
Il vento con furor precipitando Schiantava i rami e gli arbori svellea, E tratto tratto il fulmine piombando Vicine rupi e querce scoscendea Con altissimo suon, cui rimbombando Ogni giogo, ogni valle rispondea, E con tale un fulgor, che tutto il loco Parea subitamente empier di foco.
Non valse al conte aver la vista acuta E nel buio veder le cose appunto, Che la strada assai presto ebbe perduta, E dai seguaci si trovò disgiunto.
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