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Che l'uomo, in somma, senza uguali al fianco

Segga signor della creata mole,

Nè con modo men limpido o men franco
Si ripetono ancor le antiche fole,

Che fan dell' esser nostro e de' costumi
Per nostro amor partecipare i Numi.
L'altra, che quei che dell' umana mente
L'arcana essenza a ricercar procede,
La question delle bestie interamente
Lasciar da banda per lo più si vede
Quasi aliena alla sua, con impudente
Dissimulazione e mala fede,

E conchiuder la sua per modo tale,
Ch'all' altra assurdo sia, nulla gli cale.
Ma lasciam gli altri a cui per dritto senso
I topi anche moderni io pongo avanti.
A Dedalo torniamo ed all' intenso

Desio che il mosse a ricercar per quanti
Climi ha la terra e l'oceano immenso,
Come fer poscia i cavalieri erranti
Delle amate lor donne, in qual dimora
Le bestie morte fosser vive ancora.

Trovollo alfin veracemente, e molte
Vide con gli occhi propri alme di bruti
Ignude, io dico da quei corpi sciolte
Che quassù per velami aveano avuti,
Se bene in quelli ancor pareano involte,
Come, non saprei dir, ma chi veduti
Spiriti ed alme ignude ha di presenza,
Sa che sempre di corpi hanno apparenza.

Dunque menarlo all' immortal soggiorno
De' topi estinti offerse al peregrino
Dedalo, acciò che consultarli intorno
A Topaia potesse ed al destino:

Perchè sappiam che chiusi gli occhi al giorno
Diventa ogni mortal quasi indovino,

E, qual che fosse pria, dotto o prudente
Si rende sì che avanza ogni vivente.

Strana questa in principio e fera impresa
Al conte e piena di terror parea.
Non avean fatta simile discesa

Orfeo, Teseo, la Psiche, Ercole, Enea,
Che vantar poscia, e forse l'arte appresa
Da topi o talpe alcun di loro avea.
Dedalo l'ammonì che denno i forti
Poco temere i vivi e nulla i morti.

E inanimito ed all' impresa indotto
Avendol facilmente, e confortato
D'alcun de' cibi di che il topo è ghiotto,
D'alucce armògli l'uno e l'altro lato.
Più non so dir, l'istoria non fa motto
Di quello onde l'ordigno era formato,
Non degl' ingegni e non dell' artifizio
Per la virtù del qual facea l'uffizio.
Palesemente dimostrò l'effetto

Che queste d'ali inusitate some
Di quell' altre non ebbero il difetto
Ond' Icaro volando al mar diè nome:
Di quelle, sia per incidenza detto,

Che venner men dal caldo io non so come,

Poichè nell' alta region del cielo

Non suole il caldo soverchiar, ma il gelo.
Dedalo, io dico il nostro, ale si pose
Accomodate alla statura umana :
Dubitar non convien di queste cose
Comechè sien di specie alquanto strana.
Udiam fra molte che l' età nascose
La macchina vantar del padre Lana,
E il globo aerostatico ottien fede,
Non per udir, ma perocchè si vede.
Così d'ali ambedue vestito il dosso
Su pe' terrazzi del romito ostello
Il novo carco in pria tentato e scosso
Preser le vie che proprie ebbe l'uccello.
Parea Dedalo appunto un uccel grosso,
L'altro al suo lato appunto un pipistrello:
Volar per tratto immenso, ed infiniti
Vider gioghi dall'alto e mari e liti.

Vider città di cui non pur l'aspetto
Ma la memoria ancor copron le zolle,
E vider campo o fitta selva o letto
D'acque palustri limaccioso e molle,
Ove ad altre città fu luogo eletto
Di poi, ch'anco fioriro, anco atterrolle
Il tempo, ed or del loro stato avanza
Peritura del par la rinomanza.

Non era Troia allor, non eran quelle
Ch' al terren l'adeguaro Argo e Micene,
Non le rivali due, d' onor sorelle,

Di fortuna non già, Sparta e Messene;

Nè quell' altra era ancor che poi le stelle
Dovea stancar con la sua fama, Atene;
Vòto era il porto e dove or peregrina
La gente al tronco Partenon s'inchina.
Presso al Gange ed all' Indo eccelse mura
E popoli appariano a mano a mano,
Pagodi nella Cina, ed alla pura
Luce del Sol da presso e da lontano
Canali rifulgean sopra misura
Vari di corso per lo verde piano,
Che di città lietissimo e di gente,
Di commerci e di danze era frequente.
La torre di Babel di sterminata
Ombra stampava la deserta landa;
E la terra premean dall' acque nata
Le piramidi in questa e in quella banda.
Poco Italia a quel tempo era abitata,
Italia che al finir dell' ammiranda
Antichità per anni ultima viene,
E primi per virtù gli onori ottiene.

Sparsa era tutta di vulcani ardenti,
E incenerita in questo lato e in quello.
Fumavan gli Appennini allor frequenti
Come or fuman Vesuvio e Mongibello;
E di liquide pietre ignei torrenti

Al mar tosco ed all' Adria eran flagello;
Fumavan l'Alpi, e la nevosa schiena
Solcavan fiamme ed infocata arena.
Non era ai due volanti peregrini
Possibile drizzar tant' alto i vanni,

Che non ceneri pur ma sassolini
Non percotesser lor le membra e i panni:
Tali in sembianza di smodati pini
Sorgean diluvi inver gli eterni scanni
Da eccelsissimi gioghi, alto d'intorno
A terra e mare intenebrando il giorno.
Tonare i monti e rintronar s'udiva
Or l'illirica spiaggia ed or la sarda;
Nè già, come al presente, era festiva
La veneta pianura e la lombarda;
Ne tanti laghi allor, nè con sua riva
Il Lario l'abbellia nè quel di Garda:
Nuda era e senza amenità nessuna,
E per lave indurate orrida e "bruna.

Sovra i colli ove Roma oggi dimora
Solitario pascea qualche destriero,
Errando al Sol tersissimo che indora
Quel loco al mondo sopra tutti altero.
Non conduceva ancor l'ardita prora
Per le fauci scillee smorto nocchiero,
Che di Calabria per terrestre via
Nel suol trinacrio il passegger venia.
Dall'altra parte aggiunto al gaditano
Era il lido ove poi Cartago nacque:
E già si discoprian di mano in mano
Fenicii legni qua e là per l'acque.
Anche apparia di fuor sull'oceano
Quella che poi sommersa entro vi giacque,
Atlantide chiamata, immensa terra,
Di cui leggera fama or parla ed erra.

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